Capitolo 1
La proprietà nell’ordinamento italiano
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Capitolo 1
La proprietà nell’ordinamento italiano
1 Evoluzione storica degli istituti della proprietà e
dell’espropriazione nel diritto Romano
Nell’ambito di una analisi degli istituti giuridici della proprietà e della
espropriazione, non si può non tener conto dell’influenza che, nelle
definizioni moderne, ha avuto l’evolversi storico degli stessi.
Una (pur sommaria e, si spera, non troppo lacunosa) indagine storica degli
istituti giuridici deve necessariamente partire dalla loro analisi all’interno
dello ius privatum romano.
Ebbene, « il pilastro portante di tutto il ius privatum romano, dopo la
dissoluzione del mancipium, fu costituito dai rapporti assoluti dominicali,
cioè dal dominium ex iure Quiritium, e dai rapporti esemplati su di esso»1.
Occorre preliminarmente sottolineare come il diritto romano sia
caratterizzato da una fortissima componente individualistica: le res
1
A. GUARINO, Profilo del diritto Romano, Napoli, 1994, pag.146
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publicae,appartenenti allo stato, e le res universitatis, appartenenti ai
municipia,erano amministrate in scarsissima parte dall’autorità pubblica,
che ne lasciava l’utilizzazione diretta ed indiscriminata a poche famiglie
privilegiate2.
Anche i romani conobbero una pluralità di “proprietà”: al dominium ex iure
Quiritium si affiancarono la proprietà peregrina, la proprietà provinciale e
la proprietà pretoria.
Il dominium ex iure Quiritium, chiamato esplicitamente così solo a partire
dal II secolo a.C., per differenziarlo dagli altri istituti, era «un rapporto
assoluto in senso proprio, che aveva ad oggetto le res, sia mancipi che nec
mancipi, sia mobili che immobili, ivi compresi gli schiavi»3.
Per quanto riguarda la proprietà degli immobili, che qui interessa, essa
aveva ad oggetto le sole res soli (“cose attinenti al suolo”, immobili), che si
trovavano in fondo propriamente romano (fundo in agro romano).
Soggetti attivi ( Dòmini ex iure Quiritium) potevano inizialmente essere i
solo cives Romani.
Come si vede, gli stranieri non potevano essere dòmini, pur venendo loro
data la possibilità di vedersi riconosciuta «la signoria che avessero
acquistato su cose, anche immobili, e magari proprio nell’Urbe, mediante
modi di acquisto che erano ritenuti di ius gentium, come la traditio,
l’occupatio e così via»4: in ciò consisteva la proprietà peregrina.
Analogamente, i cives stessi non potevano essere considerati proprietari
delle res non rientranti nell’ambito sopra specificato: tali immobili, relativi
all’ ager publicus, erano concessi in godimento (possessio vel usufructus)
ai privati, con onere di corrispettivo.
2
A. GUARINO, o.c., , pag.146-147
3
V. GIUFFRÈ , Istituzioni di diritto Romano, Napoli, 2001 pag. 140
4
V. GIUFFRÈ , o.c., pag. 141
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Tuttavia, trattandosi di un godimento pressocchè illimitato nel tempo, si
cominciò a discorrere, con riguardo a tale tipo di possessio, di proprietà
provinciale.
La proprietà pretoria, invece, consisteva nell’acquisto del dominium
tramite usucapio.
Successivamente, e solo a seguito di processi secolari (tra cui fondamentale
importanza hanno avuto, nel 212 d.C., l’estensione della cittadinanza
Romana, l’equiparazione dei fondi provinciali a quelli italici e la loro
successiva sottoposizione a imposizione tributaria) i vari tipi di proprietà
vennero unificati.5
Importanza fondamentale aveva il profilo della illimitatezza del diritto di
proprietà.
Il dominus poteva disporre in modo illimitato delle proprie cose, finanche
distruggerle.
Egli aveva sul fondo un diritto illimitato, “usque ad sidera et usque ad
inferos”, sia verso l’alto che verso il basso.
Tale diritto non sopportava «limitazioni, compressioni o spoliazioni se non
volontariamente assunte con la costituzione di servitù e similia, e quindi
non sopportavano prelievi fiscali o espropriazioni»6.
Fu soltanto in età postclassica, con la fusione dei vari istituti proprietari in
un unico dominium unificato, e la nuova angolazione che questo istituto,
sempre meno dominium ex iure Quiritium e sempre più propriètas,
andava acquisendo, che si giunse ad ammettere la possibilità di una
imposizione tributaria e dell’espropriazione per pubblica utilità.7
Le espropriazioni, tuttavia, restarono casi isolati anche nell’età postclassica
e nell’età giustinianea, seppure queste erano aperte all’influsso del
5
V. GIUFFRÈ, o.c.,, pag. 142
6
V. GIUFFRÈ, o.c.,pag. 143
7
A. GUARINO, Profilo del diritto Romano, Napoli, 1994 pag.152
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pensiero cristiano, che riteneva la proprietà privata un bene importante, ma
da utilizzare prendendo in considerazione anche gli interessi degli altri.
2.Segue. Dal mondo
germanico allo Statuto Albertino e alla legislazione del 1865 e
1869
Mentre nel mondo germanico andò sempre più affermandosi una
concezione collettivistica della proprietà, in quello feudale si può ritrovare
una commistione di elementi pubblicistici e privatistici.
Nel mondo comunale in Italia, invece, grazie alla concessione delle carte
Costituzionali da parte dei signori, realizzatasi verso la fine del XII secolo,
viene garantito per la prima volta agli individui il libero espletamento di
alcuni diritti fondamentali della persona, e delle libertà patrimoniali, tra cui
anche il diritto di proprietà, inteso come diritto di possedere e di disporre,
entro i limiti della legge, dei propri beni, e di non vedersene spogliati
ingiustamente, ad opera dei funzionari del principe, limitandone il potere di
auferre.8
Tutte queste epoche storiche sono fondamentali per l’evoluzione ed il
diffondersi del sapere giuridico; richiederebbero, però, una ricostruzione
storica molto lunga e dettagliata, ma che esula dalla ricerca che ci siamo
prefissati di svolgere in questo lavoro.
Soffermiamoci, quindi, sulla disciplina introdotta dallo Statuto Albertino e
dal codice del 1865, nonché sulle leggi sull’esproprio del 1865 e del 1889.
Principio generale espresso nello Statuto Albertino era che “tutte le
proprietà, senza alcuna eccezione” sono inviolabili.
8
G. SANTANIELLO, Voce “Espropriazione per pubblica utilità”, in Enc. Dir., Milano, pag 802
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Tuttavia questa inviolabilità non era assoluta: «si prevedeva che quando
l’interesse pubblico, legalmente accertato (nel senso di accertato
giuridicamente, mediante esproprio amministrativo) lo esiga, si può essere
tenuti a cedere (la propria proprietà) in tutto o in parte verso una giusta
indennità, in modo conforme alle leggi»9.
Importante è sottolineare come, nella norma, si discuta di cessione, come se
il proprietario, lungi dall’essere espropriato, e nonostante l’interesse
pubblico alla base della scelta espropriativa, volontariamente decida di
rinunciare alla sua proprietà e di cederla alla collettività10.
E ciò fu possibile anche partendo dalla definizione di proprietà data dal
codice del 1865 che, tenendo sempre ben presenti le definizioni date sia
dallo Statuto Albertino che dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo,
stabiliva, all’art. 436: « la proprietà è il diritto di godere e di disporre delle
cose nella maniera più assoluta, purchè non se ne faccia un uso vietato
dalle leggi e dai regolamenti»11.
L’amministrazione non poteva mai immettersi nel possesso delle cose da
espropriare, prima di aver concluso il relativo procedimento, dato che
l’occupazione di urgenza era ammissibile solo entro limiti molto ristretti,
esplicati negli articoli 71-73 della legge n. 2359/1865 (c.d. legge
sull’espropriazione).12
Da questa fattispecie si distingueva quella dell’occupazione temporanea,
contemplata negli articoli 64-70, la quale permetteva al concessionario di
immettersi nel possesso del bene, ove ciò fosse necessario per la
costruzione dell’opera.13
9 Così P. PERLINGIERI , Introduzione alla problematica della “proprietà” , Camerino 1970, pag 62
10
Vedi P. PERLINGIERI, o.u.c., pag 63
11
Vedi P. PERLINGIERI,o.u.c. pag 63
12
Vedi G.B. URBANI, voce “Occupazione”, in Enc. Dir., Milano, 1966, pag. 627-663
13
Molto chiaro, al proposito, era l’art. 64, che disponeva testualmente che «Gli imprenditori ed esecutori
di un’opera dichiarata di pubblica utilità possono occupare temporaneamente i beni privati per estrarre
pietre, ghiaia, sabbia, terra e zolle, per farvi deposito di materiale, per stabilire magazzini ed officine, per
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Tale tipo di occupazione, secondo una parte della dottrina, rientrava
nell’attività di impresa, che doveva realizzare l’opera nell’interesse
pubblico.
L’occupazione d’urgenza era disciplinata dall’art. 71 della legge
sull’espropriazione, n. 2359/1865, che prevedeva, nella sua formulazione
originaria, che i prefetti ed i sottoprefetti, qualora vi fosse «una necessità
assoluta ed urgente per porre riparo a disastri e calamità comunque
interessanti la vita della comunità, potessero emettere il decreto di
occupazione d’urgenza».
Successivamente fu prevista, con la legge n. 5188 del 1889, una seconda
ipotesi di occupazione di urgenza; tale provvedimento poteva essere
dichiarato dal prefetto nel caso di lavori ritenuti indifferibili ed urgenti dal
Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici.
Questa nuova tipologia di occupazione prevedeva una ipotesi di
occupazione preliminare, a fianco dell’ordinario provvedimento
strumentale e temporaneo, nei cui confronti il privato aveva una tutela
minore rispetto a quanto previsto nella legislazione originaria.
Infatti in quest’ultima il giudice poteva accertare l’esistenza sia della forza
maggiore che dell’urgenza.
Per l’occupazione preliminare, invece, il giudice non poteva sindacare il
provvedimento prefettizio di dichiarazione di occupazione d’urgenza, ma
solo quello del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici.
Occorre ora analizzare il mutamento di prospettiva introdotto dal codice
civile del 1942, e come la visione del concetto di proprietà sia stato
modificato con l’avvento della Costituzione Repubblicana, ben tenendo
presente che la legge sull’esproprio del 1865 è rimasta in vigore, a parte il
praticare passaggi provvisori per aprire canali di diversione delle acque e per altri usi necessari
all’esecuzione dell’opera stessa».
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giudizio di incostituzionalità di alcune sue norme operato dalla Corte
Costituzionale, fino a pochi anni fa.
3 La proprietà nel codice civile del 1942
Il codice civile del 1942, introdotto in epoca fascista, porta ad un
cambiamento di prospettiva nella valutazione dell’istituto della proprietà.
Dalla concezione individualistica che lo Statuto Albertino, influenzato,
come detto, dal Code Napoléon e dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo
del 1791, assegnava alla fattispecie, priva di connotati solidaristici, si passa
ad una concezione nuova, in quanto il codice civile del 1942 «concepisce la
proprietà come funzione sociale di tipo solidaristico-produttivistico»14.
Ciò è dovuto anche ai cambiamenti che investirono la società: oltre al
ridimensionamento economico della proprietà, conseguenza della
rivoluzione industriale, si ebbe un mutamento di prospettiva nella gerarchia
dei valori, il che portò il sistema dei diritti reali a perdere il suo ruolo
assolutamente dominante.
Mentre il codice civile del 1865 verteva intorno all’istituto della proprietà,
inteso in senso statico, come fonte di reddito, il codice fascista pose al
centro dei rapporti economici il lavoro e l’impresa.
La prospettiva dell’ordinamento venne spostata quindi da una dimensione
statica ad una visione dinamica, come quella del lavoro e dell’impresa.
A tale nuova concezione non fu dato risalto da parte dei commentatori
dell’epoca, fino all’emanazione della Costituzione del 1948, che
14
P. PERLINGIERI, Introduzione alla problematica della proprietà, Camerino, 1970, pag .65
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specificherà i concetti di lavoro, impresa ed iniziativa economica, dando
loro una impostazione differente15.
Partendo dalle critiche mosse dagli interpreti allo Statuto Albertino, e al
codice civile del 1865, in cui si riteneva di aver costruito un modello del
sistema della proprietà basato su fondamenta politiche di breve durata, che
non sarebbero andati al di là della Rivoluzione francese e della
codificazione napoleonica, si promulgò il codice civile del 1942, tentando
di dare ad esso non solo una nuova impostazione, ma una impostazione che
fosse duratura nel tempo, e capace di resistere ai cambiamenti della società.
Tuttavia il nostro codice è ancora costruito secondo le linee dei modelli di
codificazione francese: pur nella novità della disciplina, il Libro III del c.c.
rubricato “Della Proprietà”, analizza i beni ancora solo sotto l’aspetto
“corporale”16.
La proprietà fondiaria occupa quasi interamente il Titolo II del Libro III,
mentre il regime del condominio negli edifici (artt. 1117 ss.) ha molto più
spazio rispetto alla disciplina della comunione in generale (artt. 1110 ss.).
Dalla lettura del Libro “Della Proprietà” emerge la libertà dei beni dai
vincoli che li soffocavano in epoca precedente.
Il “dominio” sulla cosa assume gli aspetti di “diritto fondamentale”, ciò che
si rileva anche dalla disciplina dei diritti reali di godimento, mentre i diritti
su cose altrui sarebbero eccezionali e temporanei.
In tal modo si perpetua «l’equivoco concettuale della categoria unitaria dei
diritti reali, di cui la proprietà sarebbe il diritto “fondamentale”…. e cioè
dotato della più comprensiva pienezza»17.
L’analisi delle disposizioni introdotte dal codice civile del 1942 aiuta a
delineare più chiaramente il quadro normativo.
15
P. PERLINGIERI, o.u.c., pag. 22
16
P. RESCIGNO, voce “proprietà ( dir. Civ.)” in Enc. Dir., Milano, 1966, pag 258
17
P. RESCIGNO, o.c., pag 258
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L’art. 832 c.c. stabilisce che: «Il proprietario ha diritto di godere e disporre
delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza
degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico».
La prima parte di questa disposizione, “il diritto di godere e di disporre
delle cose in modo pieno ed esclusivo”, ricorda l’espressione “nel modo
più assoluto”, presente nell’articolo 436 del codice del 1865.
Tuttavia in quest’ultimo c’era una maggiore limitazione, poiché esso
continuava con “purchè non se ne faccia un uso vietato dalla legge o dai
regolamenti”, dove il codice del 1942 afferma “entro i limiti e con
l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.
Da questa analisi congiunta delle disposizioni dei due codici, emerge dal
codice civile del 1942 qualcosa in più rispetto al codice abrogato: «non
solo si discorre di comportamenti che il proprietario non può tenere –limite
negativo-, come nel codice del 1865, ma ancora si stabiliscono gli obblighi,
le attività positive»18.
L’espressione “pieno ed esclusivo” si rivela essere una affermazione
politica; il legislatore del 1942 prevedeva interventi della pubblica
amministrazione ed obblighi per il proprietario tali che l’espressione di cui
qui si discorre viene svuotata di significato: dalla lettura degli articoli
seguenti del c.c. in tema di proprietà emerge come il titolare del diritto in
questione sia titolare non solo di situazioni attive, ma anche di situazioni
passive, di obblighi di contenuto positivo19.
Non si può più sostenere che la proprietà prescinda da limiti ed obblighi,
affermando che essa è un diritto soggettivo tout-court, ma bisogna prendere
atto che essa è una situazione giuridica soggettiva complessa, caratterizzata
da facoltà nell’interesse del proprietario, quelle di godere e disporre, e da
18
P. PERLINGIERI, Introduzione, cit., pag. 69
19
P. PERLINGIERI, o.u.c., pag. 69
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situazioni passive in capo allo stesso, come gli obblighi fiscali e quelli di
natura amministrativa.
Tali situazioni passive vengono in rilievo perché, se si ha una concezione
unitaria della situazione soggettiva “proprietà”, l’inadempimento di uno di
essi, lungi dall’essere estraneo alla situazione, può portare al risarcimento
del danno, ma può rilevare anche ai fini dell’esistenza dello stesso diritto di
proprietà.
In quanto tali, dunque, essi non costituiscono caratteri estranei del diritto di
proprietà, ma contribuiscono all’individuazione dell’istituto stesso.
Il problema che al riguardo si è posto all’attenzione degli interpreti è se
l’art. 832 sia norma definitoria o vincolante.
Tale problema, secondo una parte della dottrina, risulta mal posto, in
quanto non esistono norme che siano giustificazione di sé stesse; la norma
c.d. definitoria sarebbe «vincolante per l’interprete secondo il contenuto ed
il valore che l’ordinamento nel suo complesso attribuisce a quella
definizione»20: la norma definitoria non è vincolante di per sé, ma in quanto
parte dell’ordinamento giuridico in cui è posta, ed è molto utile perché, non
dando definizioni precise, consente di dare contenuti e valori diversi in
relazione alle varie ipotesi di proprietà, pur consentendo all’interprete di
individuare i tratti caratteristici, il comun denominatore dell’istituto.
Per cui, secondo tale dottrina, sarebbe arbitrario identificare l’istituto della
proprietà con la norma definitoria dell’art. 832 codice civile; la proprietà
andrebbe studiata non solo in quanto rapporto socialmente rilevante, ma nel
suo momento genetico, in relazione ai suoi fatti costitutivi, modificativi ed
estintivi: nella definizione dell’istituto proprietà dovrebbero essere
ricomprese tutte le norme che regolano il fatto sociale proprietà21.
20
P. PERLINGIERI, o.u.c., pag. 81
21
P. PERLINGIERI, o.u.c., pag. 82
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12
Bisogna inoltre sottolineare come il codice civile del 1942, espressione
dell’ordinamento solidaristico-produttivistico fascista, identificava la
funzione sociale della proprietà con l’aumento della produzione; la
funzione sociale della proprietà e dell’impresa trovavano il loro punto
d’incontro nella possibilità di sfruttare in favore della collettività ed in
modo più pieno ed adeguato, i beni di cui la stessa collettività disponeva,
sia sotto forma di proprietà privata che pubblica.
Questo principio, che nel c.c. del 1942 guardava solo all’aumento del
reddito nazionale, ed alla necessità di non lasciare terre incolte, era
indubbiamente una grande conquista rispetto alle legislazioni
ottocentesche, ma ancora non era sufficiente.
Infatti, un regime della proprietà tracciato nei termini indicati in questo
paragrafo, e cioè come diritto dotato della più comprensiva pienezza, era
destinato a rivelarsi inadeguato alla realtà.
L’insorgere di nuove forme di proprietà (come la proprietà letteraria, quella
commerciale o quella artistica), e le espropriazioni e le limitazioni al diritto
di proprietà nell’interesse pubblico, solo per citarne alcune, hanno
seriamene messo in crisi il regime di proprietà delineato dal codice civile
del 1942.
4 La proprietà nella Costituzione:
I lavori preparatori della Costituzione in relazione all’art.42 Cost.
Come autorevolmente affermato la proprietà, più di ogni altro istituto,
riflette, nelle sue strutture e nelle sue articolazioni, l’ambiente ed il
momento storico dove si colloca una determinata disciplina.22
22
S. PUGLIATTI, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1964, pagg. 85 ss.
Capitolo 1
La proprietà nell’ordinamento italiano
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Come si è visto nei precedenti paragrafi, il codice civile del 1865, nel
recepire pressocchè letteralmente le disposizioni dello Statuto Albertino e
del Code Napoléon, aveva posto nell’art. 436, come punto fondamentale e
centrale, l’istituto della proprietà, concepita in modo statico, come fonte di
reddito derivante da semplice godimento del bene: infatti l’impresa e
l’iniziativa economica, come già ricordato, tutt’altro che aspetti centrali di
quel codice, erano mortificate rispetto alla proprietà.
Il Codice Civile del 1942 pose al centro di tutti i rapporti economici e di
pressocchè tutto l’ordinamento privatistico il lavoro, l’impresa e l’iniziativa
economica.
Bisogna ricordare che fu in tal modo che venne a spostarsi la prospettiva
dell’ordinamento, da una visione statica, propria della previgente
disciplina, ad una dinamica, rappresentata dal lavoro e dall’impresa, che
cominciarono ad essere considerate come attività del tutto indipendenti
dalla proprietà del bene cui l’iniziativa si rivolge.23
Dall’emanazione del codice civile del 1942 all’entrata in vigore della
Costituzione intercorrono solo sei anni; si tratta tuttavia di un periodo di
tempo che segna una grandissima rivoluzione a livello politico-sociale
negli Stati europei, colpiti dalla seconda guerra mondiale, ed in cui si
registrò la caduta dei regimi dittatoriali, e la nascita dei nuovi governi
democratici, in cui piena ed effettiva è la partecipazione dei cittadini alla
vita pubblica.
Nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata
dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1948, la proprietà è trascurata,
mentre i diritti fondamentali che vengono riconosciuti e tutelati sono quelli
di natura personale, come il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza della
persona.
23
S. PUGLIATTI, o.c., pag.86
Capitolo 1
La proprietà nell’ordinamento italiano
14
L’uomo è visto non più come individuo singolo, ma come persona inserita
in una comunità.24
Tale nuova prospettiva inseriva la proprietà nell’ambito dei nuovi rapporti
economici, ed in tal modo fu concepita nella nuova Costituzione.
Per comprendere appieno le disposizioni da questa dettata nell’ambito che
qui interessa, occorre analizzare la creazione della norma, le sue fasi
evolutive, le tesi ed i movimenti di pensiero che ad essi sono sottesi, e che
hanno portato all’emanazione del testo definitivo dell’art. 42 Cost.
Necessario, dunque, risulta un breve cenno ai lavori preparatori della
Costituzione.
Non si trattò di una norma di facile creazione, perché diverse erano le
teorie: in seno all’Assemblea Costituente si discusse molto ed apertamente
sulla configurazione da dare alla proprietà, in particolare nella I e nella III
Sottocommissione, ma anche in seno alla stessa Assemblea, con discussioni
dai toni spesso vivaci.
La I Sottocommissione, cui era assegnata la trattazione dei rapporti politici
e sociali, si pose il problema di predisporre una «dichiarazione di diritti»,
nel senso di enunciare principi fondamentali anche in tema di proprietà.
Proprio in questa direzione gli on. Dossetti e Togliatti portarono avanti una
proposta in cui chiaro appare il riferimento alla concezione sociale
cristiana.
La proprietà privata, frutto del lavoro e del risparmio, era riconosciuta al
fine di garantire la libertà e lo sviluppo della persona e della sua famiglia;
era limitata per renderla accessibile a tutti.25
Il testo approvato dalla I Sottocommissione era il seguente:
«I beni economici e di consumo e i mezzi di produzione possono essere in
proprietà di privati, di cooperative, di istituzioni e dello Stato.
24
P. PERLINGIERI, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Camerino, 1972, pagg. 154 ss.
25
S. RODOTÀ, Il terribile diritto, Bologna 1990, pag 283