7
quali attraverso il tempo vengono assunti come regola di
comportamento.
La parola consuetudo (da “sueo o suesco “ che significa il
ripetersi di azioni simili- più il prefisso “con ” che ne
spiega la simultaneità- e il suffisso “tudo ” che ne indica
la quantità astratta) designa giuridicamente il complesso
di due elementi:
a) la frequenza degli atti da parte di una comunità senza
forza obbligatoria (elemento materiale o “consuetudo
facti ”) ;
b) il consenso del legislatore che fa della “consuetudo facti
” una vera “consuetudo iuris. ”
Secondo una definizione universalmente riconosciuta nel
diritto canonico, essa è conosciuta come:
”ius non scriptum, diuturnis populi moribus, et cum aliquo
legislatoris consensu, introductum.
1
”
1
PICHLER,” Ius canonicum secundum quinque decretalium libros”, Venetiis,
1758, lib I, tit. IV, n. 5.
8
Risulta evidente che per ciascun ordinamento il problema
del diritto consuetudinario nella sua genesi e nei suoi
svolgimenti assume forme e caratteri particolari in virtù
delle tendenze od aspirazioni che caratterizzano ciascuna
forma sociale.
È intuitivo però che il vero problema della consuetudine
nasce come problema di rapporti fra questa e la legge.
Infatti, non è casuale il fatto che le varie tipologie della
consuetudine siano riferite al loro rapporto con la legge e
che quindi in base a quest’ultima abbiano differenti
funzioni:
a) funzione di interpretazione e conferma della legge
(consuetudo secundum legem);
b) funzione di integrazione delle eventuali lacune
legislative (consuetudo praeter legem);
c) funzione di abrogazione della legge, se con il passare
del tempo e con il mutare degli eventi, quella legge
cessa di essere ragionevole e nuoce al bene comune
(consuetudo contra legem).
9
Pertanto, ai fini del lavoro che deve essere intrapreso, si
può affermare che anche per la Chiesa il problema della
consuetudine nasca legato ai suoi rapporti con la lex.
Assai celebre a tal proposito è il passo di Isidoro di
Siviglia, che ha ripreso una precedente espressione
dell’apologeta Tertulliano, la consuetudine infatti è
definita come: “Consuetudo autem est ius quoddam
moribus istitutum, quod pro lege suscipitur, cum deficit
lex.
2
”
Dunque, sin dai tempi più antichi, l’efficacia della
consuetudine era circoscritta ai soli casi in cui la legge
mancasse (praeter) oppure fosse conforme (secundum)
alla legge.
La Chiesa che, nonostante il suo carattere autoritario
non aveva disdegnato la pratica consuetudinaria, aveva
già nettamente fissati alcuni principi in base ai quali si
dovevano ispirare i rapporti tra la consuetudine e la
legge.
2
ISIDORO DI SIVIGLIA “Etymologiae” libr. II, cap. 10.
10
Risulta evidente che la istituzione cristiana si
uniformava, nei suoi primi momenti di vita, a quei
principi della norma consuetudinaria che derivavano dal
mondo romano, il quale proprio nel campo giuridico
aveva raggiunto così alte vette di perfezione da essere
ineguagliato
1.2. Due fonti inconciliabili.
Un aspetto della consuetudine, in diritto canonico,
deve essere qui accennato, aspetto che ha sempre
costituito uno dei problemi più delicati ed è quello
concernente il superamento del contrasto tra due diverse
situazioni, logicamente inconciliabili: da un lato il fatto
che i soggetti che compongono la comunità dei fedeli
risultano essere entità governate e prive di capacità di
legiferare, ma allo stesso tempo idonee a far nascere la
consuetudine, dall’altro la concezione del diritto
canonico, che poggia sull’autorità del Papa, il solo che ha
ottenuto la capacità di legiferare.
11
Inoltre tale difficoltà fu accentuata proprio dai
principi che si volevano trarre dal Corpus Iuris Civilis, che
pure formalmente ammettevano la consuetudine, ovvero
il frammento di Giuliano
3
, e la costituzione di
Costantino.
4
È cosa nota infatti che nel Corpus Iuris Civilis ci
sono due tesi concernenti il fenomeno consuetudinario
fra di loro inconciliabili (Vittorio Sciaoloja enumerava
quindici tentativi di conciliazione tra i due testi).
Storicamente il conflitto tra i due testi si spiega pensando
al volto nuovo che lo lo Stato romano aveva assunto tra la
fine del III secolo e i primi del IV, nuovo aspetto che non
si adattava più alla teoria classica delle fonti del diritto.
5
3
Dig. 1,3,32,1 “Inveterata consuetudo pro lege non immerito custoditur, et hoc
est ius quod dicitur moribus constitutum, nam cum ipsae leges nulla alia ex
causa nos teneant, quam quod iudicio populi receptae sunt; merito, et ea, quae
nullo scritto populus probavit, tenebunt omnes: nam quid interest, suffragio
populus voluntatem suam declaret, an rebus ipsis factis ? quare rectissime etiam
illud receptum est, ut leges non solum suffragio legis latoris, sed etiam tacito
consensu omnium per desuetudinem abrogentur“
4
COD. VIII, 53,2 “Consuetudinis ususque longaevi non vilis auctoritas est,
verum non usque adeo sui valitura momento,ut aut rationem vincat aut legem.”
5
CALASSO FRANCESCO “Medio evo del diritto” Vol. I Le fonti ed.Giuffrè
Milano 1954 p.183.
12
Da una parte il frammento di Giuliano afferma che il
popolo è destinatario del potere legislativo, in tal modo
può porre la norma o in modo espresso, mediante la
legge, oppure in modo tacito, per fatti concludenti,
attraverso la consuetudine.
La concezione che sta alla base di tale pensiero vuole
essere per cosi dire “democratica”, essendo il risultato
dell’enorme prestigio che soleva aver assunto il cittadino
romano.
All’opposto, vi è la costituzione di Costantino, originata
dalla nuova concezione autocratica, propria del
dominato.
Il potere legislativo è nella mani del princeps: da ciò
discenderebbe l’inammissibilità di una consuetudine
contraria alla legge o alla ratio (aut rationem vincat aut
legem).
La posizione assunta dai glossatori del Corpus Iuris Civilis
circa l’interpretazione del passo di Giuliano potrebbe
riassumersi in tal modo.
13
La consuetudine ha forza giuridica in virtù del potere
legislativo del popolo che la crea; per argomento a
contrario, tratto sempre dallo stesso frammento del
Digesto, ove il popolo sia privo di tale potere legislativo la
consuetudine non ha forza legale.
Come ha avuto modo di evidenziare in modo chiaro il
Giacomazzo
6
, la stessa concezione doveva esistere, ed
esiste tuttora, nell’ambito dell’ordinamento canonico,
anch’ esso per natura autoritario.
Lo sforzo dei canonisti fu proprio quello di conciliare le
due opposte esigenze al fine di trovare un compromesso
teorico:
da un lato si cercava di salvare la consuetudine
quantunque formatasi all’infuori dell’attività propria degli
organi investititi del potere legislativo, dall’altro c’era
l’esigenza di tener saldo il principio in base al quale solo
da tali organi la norma giuridica può essere posta.
6
GIACOMAZZO GIACINTO ROMANO “La consuetudine nella dottrina
canonistica classica”. CEDAM Padova 1983.
14
Si è venuta pertanto a formare una dottrina che è poi
sfociata nella decretale Cum Tanto di Gregorio IX, con cui
è riconosciuta la consuetudine interpretativa della legge
vigente, oppure nel caso di una consuetudine contraria
alla legge, solo se rationabilis e praescripta: “Licet et
longevae consuetudinis non sit vilis auctoritas, non tamen
est usqueadeo valitura, ut vel iuri positivo debeat
praeiudicium generare nisi fuerit rationabilis, et legitime
praescripta.”
Si ricava pertanto da ciò sia l’avversione della competente
autorità ecclesiastica a ritenere la consuetudine come
fonte di diritto autonoma, sia la tendenza,
nell’impossibilità di disconoscerla, almeno a disciplinarla.
Al tal proposito è possibile notare come, nonostante siano
trascorsi quasi mille anni tra la promulgazione della
norma di Costantino e quella di Gregorio IX, sia
riconosciuta in entrambe l’inapplicabilità della
consuetudo contra rationem:
15
Tuttavia nella decretale del Pontefice Gregorio IX questo
divieto assume sfumature meno radicali, si ammette
infatti la possibilità che la consuetudine possa derogare
al diritto positivo purchè sia rationabilis e praescripta.
Dunque anche nell’età di mezzo la ratio continua a
costituire un limite invalicabile per la consuetudine, ed è
proprio questo principio che finisce, come vedremo, per
assumere nell’ordinamento canonico, sin dalla sua
recezione, una forma assai particolare.
1.3. Adprobatio legislatoris.
Si è dunque indicato nella rationabilitas la
condizione di efficacia della consuetudine antinomica;
accanto a questo requisito nelle fonti ne viene affiancato
un altro per la sua validità: la adprobatio legislatoris.
L’istituto della adprobatio legislatoris costituirà infatti
insieme con la rationabilitas il perno su cui l’illustre
canonista Giovanni d’Andrea fonderà l’efficacia della
consuetudo contra legem: con tale autore si ha la decisiva
16
affrancazione del diritto canonico dai dettami e dalle fonti
del diritto romano.
Il vigente codice di diritto canonico pone infatti come
condizione necessaria, affinchè la consuetudine possa
acquistare valore normativo, il consenso della superiore
autorità ecclesiatica, la cosidetta adprobatio.
L’ordinamento della chiesa quindi da, un punto di vista
formale, non accorda alla consuetudine un’ efficacia
giuridica propria, senza il consenso del superiore
competente.
La communitas fidelium si limita a porre in essere il fatto
materiale che costituisce il presupposto necessario al
formarsi di una norma consuetudinaria.
Non si parla perciò di communitas capax legis condendae
(come si direbbe nel diritto civile), ma di communitas
saltem capax legis recipiendae.
Oggi il Codex vigente sostanzialmente non aggiunge nulla
a quanto stabilito nelle decretali, limitandosi a riprodurre
quanto emerso dalla dottrina canonistica.
17
In proposito, colpisce l’influenza dottrinale del citato testo
giulianeo che i canonisti cercano di conciliare con la
costituzione di Costantino: è manifesto il loro sforzo di
dare rilevanza al comportamento della comunità (tesi
giulianea) e al contempo quello di attribuire il requisito di
razionalità all’instauranda consuetudine (tesi
costantiniana).
Di qui la necessità di un compromesso che salvi la
consuetudine e allo stesso tempo preservi la potestà
legislativa degli organi preposti: infatti l’aver considerato
non solo il testo di Costantino, ma anche quello di
Giuliano, è una prova del fatto che i canonisti tentassero
di dare rilevanza sia al comportamento o, se vogliamo, al
consenso della comunità, sia al requisito della
rationabilitas della consuetudine, in modo da sanare il
dissidio precedentemente enunciato.
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2. Il fondamento razionale della norma consuetudinaria
canonica.
2.1. Premessa.
La Chiesa, come abbiamo già evidenziato, sin dalle
origini aveva visto con estremo favore il fenomeno della
consuetudine, e aveva quindi stabilito e disciplinato le
regole che dovevano garantirne la sua efficacia.
Il nostro lavoro sarà rivolto ad un particolare requisito di
efficacia della consuetudine: la rationabilitas.
Tale condizione infatti fa assumere alla consuetudine
canonica connotati così tipici che essi non sono
riscontrabili in nessun altro ordinamento.
La rationabilitas risulta essere un requisito morale al
quale si deve uniformare la condotta umana o meglio la
condotta della comunità, in modo che tale
comportamento, quando sia conforme alla ragione, possa
diventare giuridicamente rilevante.
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Nella storia giuridica della chiesa cristiana tale principio
viene assunto a conditio sine qua non di efficacia della
consuetudine, pertanto sarà nostro compito vedere come
tale strumento nasca e conseguentemente approfondire i
successivi sviluppi che vi furono apportati.
In particolare, vedremo come nella canonistica
medioevale l’elemento della razionalità sia stato posto a
fondamento di validità della consuetudine contra legem.
2.2. Il significato di ratio.
L’istituzione cristiana, sin dalle sue origini, sviluppò
con particolare attenzione il concetto di ratio, che finì per
essere permeato, almeno nel campo del diritto canonico,
di valenze esclusivamente morali.
Ma cosa è esattamente la ratio?
Nel campo del diritto romano, essa ha sempre costituito
un problema che ha dato adito a numerose discussioni
senza che dalle stesse sia scaturita una soluzione
unitaria.
20
La ratio, secondo Calasso
7
, è la rispondenza della norma
umana alla veritas, vale a dire alla norma divina, in
questo senso ”ratio et veritas ” assumono la valenza di un
binomio tradizionale nella Chiesa.
L’antica dottrina del diritto canonico dunque si è servita
del concetto di ratio e di quello di veritas per limitare,
nelle comunità cristiane, il proliferare di usi e di
consuetudini contrarie ai dogmi della Chiesa.
Secondo il Calasso: ”….per il diritto romano noi non
possiamo affermare, con sicurezza, cosa valesse una
consuetudine contra rationem, anche perché ignoriamo
che cosa esattamente si intendesse per ratio: sappiamo
ad ogni modo che, se si trattava di consuetudine fondata
sopra un errore logico, poteva ugualmente diventare
obbligatoria nel tempo.
Per la Chiesa invece una consuetudo irrationabilis non è
ius, ma error vale a dire una deviazione dalla veritas e
quindi va respinta come “corrotta o eretica.
8
”
7
CALASSO FRANCESCO op. cit. p. 202.
8
CALASSO FRANCESCO op. cit. p. 203.