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Premessa
L’art. 1 della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul
lavoro”. Questo diritto, malgrado le numerose leggi approvate dal Parlamento, non è
garantito allo stesso modo agli uomini e alle donne. Il presente elaborato si propone
di tracciare un quadro complessivo dell’occupazione femminile in Italia,
considerando vari aspetti in modo non certamente esaustivo, data l’ampiezza del
tema, ma, spero, sufficientemente approfondito. Le donne si son sempre viste
assegnare il ruolo di “angelo del focolare”, ma questo non ha impedito lo sviluppo di
una consapevolezza di genere che ha comportato un rilevante aumento di
occupazione femminile in tutti i paesi occidentali. Le donne hanno sempre lavorato,
sia all’interno che all’esterno della famiglia, anche se il loro lavoro non è mai stato
riconosciuto come fonte autonoma di ricchezza. Permangono, quindi, nel 2010,
numerosi problemi strutturali all’interno del mercato del lavoro, come ad esempio, le
differenze di genere nelle carriere, nell’ammontare delle retribuzioni e nella libertà di
scelta dei propri percorsi lavorativi. Le politiche per favorire e promuovere le pari
opportunità esistono, ma vengono spesso disattese. Infine, restringendo l’analisi al
territorio del Mezzogiorno, puntiamo l’obiettivo sulla situazione di Reggio Calabria.
Le lavoratrici, infatti, devono fare i conti anche con la piaga del lavoro sommerso
che in Calabria, più che altrove, distorce le statistiche ufficiali. Il nostro sondaggio ci
permetterà di descrivere la vita lavorativa delle donne reggine senza influenze di
tipo formale che ostacolano la giusta rappresentazione della realtà.
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Capitolo Primo
LA NATURA SOCIOLOGICA DELLA “FIGURA FEMMINILE”
1. L’immagine della donna
«Nessun destino biologico, psichico, economico, definisce la figura che riveste nella
società la femmina umana; è l‟insieme della civiltà che elabora questo prodotto
intermedio tra l‟uomo e il castrato che si qualifica come femminile». Il dibattito sulla
‛femminilità‟, sull‟origine culturale e storica del ruolo femminile e dello stesso
atteggiamento femminile, data ormai da parecchi decenni. Abbozzato dalle prime
femministe, ha trovato in Simone de Beauvoir la formulazione teorica più radicale e
discussa: «Non si nasce donna, lo si diventa».
La figura femminile ha da sempre interessato tanti pensatori; siano stati essi poeti,
letterati, filosofi, la donna è entrata nelle loro riflessioni e nei loro discorsi. Tante
volte, però, analizzare la figura femminile ha significato per loro studiare un oggetto
misterioso, dominato da strani istinti, per cui bisognava scoprirne la natura, la vera
essenza. Da tempo gli studi antropologici hanno mostrato la relatività, la variabilità
della posizione sociale della donna nei vari tipi di organizzazione sociale: non esiste
un ‛tipo femminile‟ univoco, eterno, identico nello spazio e nel tempo da cui far
derivare la posizione sociale della donna. In realtà l‟immagine della donna ricorrente
è quella elaborata all‟interno della cultura occidentale e poi esportata insieme al resto
della civiltà e della organizzazione sociale, creando spesso gravi scompensi e
squilibri nei rapporti sociali preesistenti. Ricostruire l‟idealtipo della donna moderna
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non è affatto facile. Le analisi dei sociologi per lo più, hanno privilegiato la figura
della donna della classe media quale protagonista delle trasformazioni avvenute e in
atto nel «ruolo femminile» . In effetti è a livello della classe media che vengono
elaborati i modelli di comportamento, le immagini, le norme poi diffuse nel
collettivo, i modelli normativi e valutativi con cui vengono confrontati anche gli
strati popolari. E insieme è la classe media – il vasto settore professionale e
impiegatizio – quello oggi più immediatamente coinvolto nel processo di
trasformazione sociale dovuto all‟accelerazione dello sviluppo industriale e
tecnologico: dalla ridefinizione della stratificazione sociale, alle nuove esigenze del
mercato del lavoro, sino alle trasformazioni nella divisione dei ruoli all‟interno della
famiglia. Nella cultura popolare italiana, intrisa da sempre di cattolicesimo, fino agli
anni Sessanta - Settanta, la donna è stata considerata come “angelo del focolare”,
cioè come una figura che doveva essere interamente dedita alla cura del marito, della
prole e della casa. Nella società patriarcale all‟interno della famiglia borghese
classica, la ragazza e poi la donna veniva socializzata a un unico ruolo rigidamente
definito, il cui valore, subordinato, era chiaro proprio nella sua univocità e mancanza
di alternative. La complessità della situazione contemporanea nasce proprio dal fatto
che non esiste più – a livello di ideologia e di sistema normativo ufficiale – univocità
di «ruolo femminile», ma contemporaneamente l‟insieme dei rapporti sociali reali e
delle norme informali indirizzano la donna verso un ruolo fondamentale, quello
affettivo - espressivo, simboleggiato ma non esaurito nella figura della moglie-
madre. Ogni ragazza viene diretta verso un ruolo sociale la cui esclusività ed utilità
soggettiva e oggettiva non le è più chiara come a sua madre e più ancora a sua nonna;
perché sa, e per lo più ha sperimentato di persona, di poter fare altre cose, di potersi
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mantenere da sé ad esempio; e non vede quindi la necessità economica e il valore
sociale di un full-time casalingo. Le funzioni che la famiglia moderna ha perso
rispetto a quella tradizionale sono infatti proprio quelle che un tempo legittimavano
la figura della donna totalmente dedita alla casa e alla famiglia: l‟economia
domestica non è più il fondamento della unità familiare, coesiva di marito, moglie,
figli. Attività quali la preparazione dei cibi o la confezione dei capi d‟abbigliamento
possono essere utilmente sostituite – almeno parzialmente – con l‟acquisto di
prodotti già confezionati. Al punto che tali attività oggi ricompaiono come hobby,
come attività del tempo libero. Inoltre la procreazione dei figli e la loro cura si è
contratta quantitativamente e si è allungata temporalmente. Oggi le donne pensano
prima alla carriera e dopo alla maternità, per cui le donne hanno il loro primo figlio
intorno ai 35 anni, e poiché l‟attività procreativa si esaurisce intorno ai quaranta, già
dopo la prima gravidanza, la madre ha esaurito i propri compiti specifici, che
giustificano, all‟interno della attuale divisione del lavoro e ideologia familiare, la sua
esclusiva o prevalente dedizione alla vita domestica.
I sociologi si sono da sempre occupati della posizione della donna nella società,
esclusivamente nell‟ambito della sociologia della famiglia. Mai come oggi infatti il
ruolo della donna è stato tanto intrecciato alla sua funzione familiare e non
puramente procreativa. Da una parte infatti la struttura del mercato del lavoro è tale
che l‟individuo vi può entrare solo in quanto singolo atomizzato, mobile e
intercambiabile, senza che possano interferire considerazioni di ordine personale. Per
il mantenimento della solidarietà familiare e della sua funzione integratrice e di
socializzazione dei bambini è perciò necessario che un solo membro entri nel
mercato del lavoro, o meglio persegua una carriera autonomamente: non possono
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farlo entrambi i partner, pena la possibilità di una dissoluzione di fatto della coppia e
della famiglia. Alla donna si chiede di essere intelligente, istruita, graziosa non per
uscire dal ruolo domestico-privato, ma per esercitarlo meglio. Educata
apparentemente come gli uomini, i suoi sforzi vengono tutti deviati nella direzione
del suo ruolo affettivo, responsabilizzandola direttamente di ogni fallimento in
questo campo. «Sembra purtroppo che la madre sia considerata in grado di tappare
tutte le falle che si aprono nell‟istituto familiare, tutte le carenze di strutture sociali
che le rendono così pesanti gli anni della prima infanzia dei figli e perfino le carenze
della scuola». Di qui, i due fenomeni apparentemente contraddittori che sembrano
caratterizzare la giovane donna contemporanea nei confronti della maternità: il
rifiuto e viceversa l‟ossessione, ‛il mito‟ della maternità, fenomeni entrambi a monte
della distruttività del rapporto materno per molti figli. I figli sono insieme il simbolo
del legame della donna al suo ruolo domestico e la forma di realizzazione, di
espressione che le viene consentita senza conflitti e di cui le viene riconosciuta la
validità. Alla contrazione numerica dei figli, infatti, nella famiglia urbana-tipo
corrisponde una dilatazione dei doveri della maternità sconosciuti alle nostre nonne.
Si giunge al paradosso che alla donna, esclusa o subordinata nella vita sociale, viene
affidata la delicatissima e importantissima funzione della socializzazione. La
capacità di procreare viene immediatamente fatta coincidere con la capacità di
educare, cioè di mediare quel sociale da cui la donna è esclusa, che essa non concorre
a formare, ma solo acriticamente a mantenere. Non è quindi vero che questo nuovo
ruolo familiare costituisce una forma di promozione, emancipazione femminile. E‟
certo un dato indubitabile che il lavoro di per sé non emancipa la donna, per motivi
in parte simili e in parte diversi da quelli per cui non emancipa neppure l‟uomo. Se è
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vero che la famiglia ha perso molte delle sue funzioni sociali di un tempo, essa nella
società moderna occidentale ne ha ancora diverse, in mancanza di servizi sociali
adeguati: cura dei figli più piccoli, alimentazione, cura degli anziani, dei malati, ecc.
Meglio, queste funzioni non le ha la famiglia, ma la moglie-madre. In effetti il
mercato del lavoro, il mondo della produzione può essere tanto esigente nei confronti
dell‟uomo perché conta sul fatto che abbia una donna a casa che gli renda tutti i
servizi che gli sono necessari (oltre, beninteso, quello affettivo). L‟assenza di asili
nido e scuole materne, la mancanza di aree per il gioco dei bambini, l‟inesistenza
pressoché totale di refezioni scolastiche e aziendali, caricano le casalinghe con figli
in età scolare o prescolare di un lavoro enorme. Il fatto che oggi si cerchi di
evidenziare la funzione economica del lavoro domestico non lo rende per questo più
attraente e soprattutto maggiormente dotato di valore. Pur riconosciuto come
necessario, esso non è valutato come socialmente produttivo perché non ha valore di
scambio, e quindi la donna che lo compie non può sentirsi socialmente utile. Le
pressioni esterne e l‟eccessivo carico di lavoro continuano ad essere i maggiori
impedimenti a un lavoro extradomestico della moglie-madre. Si pone quindi in modo
urgente il problema dell‟assistenza all‟infanzia, degli asili nido e della scuola
materna in particolare, cioè di agenzie di socializzazione parzialmente o totalmente
sostitutive di quella familiare-materna. Ciò che è certo è che la madre in generale –
che vada a lavorare o no – non può farcela da sola, per il bene dei figli, ed è crudele
ed errato colpevolizzarla per questo. Costruire asili, preparare e aumentare
adeguatamente il personale è essenziale; così come educare gli uomini a collaborare
è un primo passo importante. Tuttavia la soluzione può avvenire solo all‟interno di
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un ripensamento del collettivo che ridistribuisca le responsabilità, ridefinisca le
priorità e soprattutto rifletta criticamente sulle proprie trasformazioni.
2. La storia delle donne
L‟ analisi del ruolo e della condizione della donna nella società implica lo studio di
diversi ambiti della realtà: culturale, sociale ed economico.
Ogni uomo, ogni personaggio della memoria storica, economica e culturale, ogni
grande eroe, è nato da una donna, ha vissuto con una donna, ha amato una donna ed
ha dato alla luce degli eredi grazie ad una donna. Tuttavia queste donne non sono
mai state tenute in considerazione. Eppure ci sono state, e se questi grandi uomini
sono divenuti quel che noi oggi ricordiamo, è anche per merito loro. La storia però ci
racconta e ci insegna un mondo fatto di uomini, da uomini, per gli uomini. Quasi che
le donne non abbiano storia, quasi che esse nascono solo con la nascita del
movimento femminista, quando invece tutti sappiamo che non è così.
L‟espressione “storia delle donne” indica di per sé la necessità per le donne di essere
riconosciute come soggetto della storia. La storia italiana è stata una storia che ha
avuto maggiormente come attori gli uomini, considerati, quindi, rappresentanti
dell‟umanità. E‟ necessario evidenziare che non c‟è mancanza dell‟agire femminile
nella storia, ma ne manca, tuttavia, il riconoscimento storico ufficiale. Molti studi
antropologici, negli ultimi decenni, hanno avuto proprio questa funzione,
sottolineando che bisogna studiare la storia delle donne non come momento astratto,
ma è necessario inserirla nel contesto della storia globale. La storia tradizionale e la
storia delle donne potranno così finalmente confluire in un approccio unitario sui
fatti. Lo studio della storia delle donne, inoltre, non può prescindere dalla
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considerazione dei modelli sociali e comportamentali che le donne hanno ricoperto,
realmente oppure idealmente, nelle varie epoche storiche.
Solo a partire dalla Grande Guerra le donne si impongono alla storia, quando viene
loro riconosciuto l‟enorme sacrificio, fatto durante il periodo del conflitto, per aver
portato avanti le attività abbandonate dai propri mariti sia nelle industrie che nelle
campagne. Le donne riescono, quindi, ad avere un primo riconoscimento del loro
impegno sociale. Tanto che Françoise Thébaud si chiede in un suo saggio se il
periodo della Grande Guerra si possa definire “età della donna”. Ella scrive “L‟idea
che la Grande Guerra abbia profondamente trasformato il rapporto tra i sessi, ed
emancipato le donne in misura molto maggiore dei precedenti anni, o persino secoli,
di lotte, è assai diffusa durante e dopo il conflitto”. I contemporanei avvertirono così
questo periodo storico, ma in realtà si trattò solo di una emancipazione apparente,
soprattutto per quanto riguarda l‟Italia. L‟impegno femminile, infatti, nel periodo
bellico fu considerato come sostitutivo rispetto a quello maschile, che si attuava,
contemporaneamente, al fronte. La sinergia di tali forze aiutava la patria a superare le
difficoltà di una guerra, che, lungi dalle previsioni, si faceva sempre più lunga. Il
grande sostegno femminile all‟economia della nazione nella crisi bellica non fu letta
da tutti come un aiuto necessario, da lodare; molti uomini pensarono alle
ripercussioni negative di tale situazione. L‟economista Bachi scrive in un saggio del
1918 : “Non occorre notare quale, reciprocamente, grave fenomeno sia questo lavoro
femminile nei riguardi fisiologici e sociologici, per l‟indebolimento della stirpe e per
l‟indebolimento di quel fondamentale plesso sociale che è la famiglia. (…) è assai
probabile che, dopo la deposizione delle armi, non tutto il venusto esercito delle
lavoratrici ritorni alla quiete delle pareti domestiche. (…)”. La paura del Bachi non
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fu confermata; le donne, alla fine del conflitto, tornarono sostanzialmente nelle loro
case, dedicandosi alla famiglia. Però molte di loro avevano acquisito abilità e
competenze, che furono utili nei decenni a venire per l‟entrata nel mondo del lavoro,
si pensi alla categoria delle infermiere. Molto differente è stata la percezione di
questo avvenimento nel Mezzogiorno d‟Italia, soprattutto nelle zone di campagna,
dove le donne hanno vissuto la guerra come momento di sofferenza e di attesa per i
loro mariti, i loro padri o i loro fratelli che erano al fronte. Le donne, ritrovatesi sole,
si sono assunte la responsabilità di mandare avanti il lavoro, arando, seminando e
raccogliendo. Ma, non è stato concesso loro di essere padrone della propria libertà, a
differenza delle “cittadine”; il loro controllo è stato affidato all‟ autorità delle donne
più anziane, oppure del parente maschio più prossimo. L‟impegno sociale e
lavorativo non è stato vissuto come eccezionale, quanto come necessario nel rispetto
della nazione, o meglio della patria, e del lavoro stesso.
3. Il movimento femminista
Il femminismo è stato ed è un movimento di donne che si propone di ottenere
un'equiparazione della donna all'uomo, sia in campo civile che in campo politico-
sociale, in altre parole, si propone di ottenere per le donne gli stessi diritti ed
opportunità degli uomini. E' un movimento che si batte per il diritto della donna di
estrinsecare liberamente la propria personalità. Il femminismo sostiene la parità tra i
sessi, ritenendo che le donne siano state e siano tutt‟ora, in varie e diverse misure,
discriminate rispetto agli uomini e ad essi subordinate. All'inizio il movimento
femminista rivendicando pari diritti e dignità tra donne e uomini, si impegnò su
questioni quali il diritto al voto, all'istruzione, al lavoro, alla proprietà; in seguito il
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movimento, superando la fase della rivendicazione della parità tra i sessi, cominciò
ad affermare con forza la specificità dell'identità femminile mettendo in discussione
le istituzioni sociali ed i valori dominanti nelle varie società.
Il movimento femminista, preparato dalle idee divulgate dai filosofi e letterati dell'Illuminismo,
apparve per la prima volta in Francia all'epoca della Rivoluzione francese. Nel 1791, la scrittrice
Olympe de Gouges presentò di fronte all'Assemblea Costituente di Parigi, una Dichiarazione dei diritti
della donna e della cittadina rivendicando i diritti delle donne. La petizione fu respinta da Robespierre,
che fece ghigliottinare la de Gouges, ma il movimento femminista non si arrestò e anzi, crebbe sempre
più numeroso in Francia, in Inghilterra e in Germania sostenendo fermamente l'emancipazione
femminile. Nel 1792, in Inghilterra, Mary Wollstonecraft scrisse Rivendicazione dei diritti delle
donne (Vindication of the Rights of Woman) con analogo contenuto. Il femminismo divenne un
movimento organizzato nel XIX secolo, come effetto di una più diffusa consapevolezza dell'ingiusto
trattamento riservato alle donne e del diffondersi dei movimenti di riforma sociale. Il socialista
Charles Fourier coniò il termine “féminisme” nel 1837. Già nel 1808, egli aveva affermato che
l'espansione dei diritti delle donne fosse il principio fondamentale di ogni progresso sociale. La
nascita del movimento si fa risalire alla prima Women‟s Rights Convention a Seneca Falls, New
York, nel 1848. Nel 1869, John Stuart Mill pubblicò L‟assoggettamento delle donne (The Subjection
of Women), che fu il cardine della letteratura femminista.
L'emancipazione femminile è stata raggiunta lentamente, prima sul piano economico,
poi su quello giuridico e intellettuale e solo recentemente sul piano politico. Il
movimento femminista ebbe grande sviluppo nei paesi anglosassoni, soprattutto in
Inghilterra dove, nel 1903, Emmeline Pankhurst fondò l'Unione sociale e politica
femminile (Women's Social and Political Union) che, con le manifestazioni
clamorose e spesso violente dei suoi membri, le cosiddette suffragette, riuscì a
ottenere per la donna il diritto al voto politico (1918). Anche negli Stati Uniti il
movimento delle donne fu attivissimo e mai violento, al contrario delle suffraggette