4
Introduzione
Negli ultimi 30 anni, nel nostro Paese, la realtà dei distretti produttivi e
di quelli industriali in particolare, è stata oggetto di un‟attenta analisi da
parte di sociologi ed economisti, soprattutto a causa delle particolari
connotazioni politico-strutturali e socio-economiche che ne hanno
caratterizzato sia il nascere che il successivo sviluppo in precise aree
territoriali, come è avvenuto in alcune Regioni del Nord Est e del Centro
Italia.
Si è comunque passati da una interpretazione statica di questa forma
organizzativa, sviluppatasi fino oltre la metà degli anni ‟90, ad una lettura
più dinamica, emersa negli ultimi tempi, che ha focalizzato l‟attenzione sui
processi di cambiamento sociale, organizzativo e istituzionale provocati e
subiti da questo fenomeno, integrato nel tessuto locale e globale.
E‟ oltremodo interessante notare come alcune realtà distrettuali abbiano
saputo affrontare e superare sia le problematiche iniziali della loro
affermazione che, successivamente, quelle del loro sviluppo, procedendo in
pochi anni verso un concreto radicamento economico-politico e socio-
territoriale.
In alcune aree territoriali i distretti industriali hanno formato l‟ossatura
principale dello sviluppo, assumendo sempre più spesso la forma di reti
formali e informali, che hanno alimentato non solo il circuito del flusso
economico del reddito ma anche quello di un più equo sistema di
redistribuzione sociale, promuovendo identità locali più marcate e sostenute
dalla fruibilità di determinanti risorse collettive, simboliche e materiali, sia
interne che esterne.
Tuttavia è altrettanto interessante analizzare le ragioni che non hanno
invece permesso il raggiungimento di risultati simili da parte di altri distretti
produttivi e industriali, che pure sono limitrofi, presenti e attivi sugli stessi
territori regionali di quelli che hanno avuto maggiore successo.
Questo lavoro intende rivisitare, pur sinteticamente, l‟approccio attraverso il
quale la sociologia economica ha interpretato il fenomeno particolare dei
distretti industriali nell‟“Italia periferica”1, con particolare attenzione al
mutamento sociale, politico e culturale che il “paradigma distrettuale” ha
comportato non solo per queste aree ma anche per la comunità nazionale
Nella seconda parte della tesi, viene poi preso in esame e analizzato un
caso empirico emblematico: quello del “distretto lapideo di Massa Carrara”,
in Toscana. Attraverso l‟analisi sociologica di questo distretto, che
sembrerebbe trovarsi in controtendenza rispetto ai risultati positivi ottenuti
da altri distretti toscani, si tenterà di individuare e analizzare alcune delle
ragioni del suo mancato pieno sviluppo.
_____________________
1. A. Bagnasco 1977
5
Nel primo capitolo, della tesi sono ripercorsi i presupposti dell‟analisi
sociologica economica riferita in generale al fenomeno dei distretti
industriali, con focalizzazione sulle matrici socio-istituzionali dello sviluppo
locale nelle aree della “Terza Italia”, vengono inoltre evidenziate le
implicazioni e le contraddizioni che questo modello di sviluppo ha
dimostrato di contenere.
Nel secondo capitolo, partendo dall‟analisi del caso concreto del
“distretto lapideo di Massa Carrara”, effettuando una sintesi tratta da
informazioni documentali ufficiali di tipo storico-sociale ed economico,
finalizzata alla comprensione delle determinanti socio-economiche e
politiche della formazione e dello sviluppo del distretto, si arriva ad
analizzarne in chiave critica i risultati fin qui raggiunti.
Nel terzo capitolo, le conclusioni conducono l‟analisi a valutare e a
definire le ragioni di un “malessere” sociale ed economico che sembra
caratterizzare ciclicamente, ma con crescente evidenza nel tempo, lo
sviluppo di questo distretto, con il rischio di una sua eventuale connotazione
come un distretto “chiuso”.
Viene allegato al presente lavoro un video in DVD, in formato mp4,
contenente le risultanze sintetiche di una indagine empirica, realizzata con il
contributo dell‟ENDAS, Ente Nazionale Democratico di Azione Sociale,
per gentile concessione degli autori, ai quali vanno i più sentiti
ringraziamenti, F. Triglia, M Cattaneo e R. Rovescali, e svolta direttamente
nel cuore delle cave di marmo di Carrara, fra i cavatori, alla ricerca delle
conferme dei tratti socio culturali particolari che caratterizzano questa
comunità locale, dove è inserito il distretto industriale di Massa Carrara.
6
Capitolo 1: I presupposti dell’analisi sociologica dei
distretti industriali.
1.1 Le condizioni socio-istituzionali dello sviluppo economico locale.
In questo paragrafo saranno sinteticamente ripercorsi i presupposti più
significativi dell‟analisi sociologica dello sviluppo economico locale,
avvenuto attraverso il fenomeno dei distretti industriali.
La definizione di distretto industriale risulta essere sempre più difficile
da contenere in un significato compiuto e lo dimostra la incessante
letteratura scientifica prodotta in oltre trent‟anni di ricerche e di studi
realizzati in questa materia, dalle Scienze Sociali, dalla Economia, dalla
Geografia economica, dalla Politica industriale e da altre discipline, tutte
rivolte alla interpretazione dei modi di costruzione sociale del mercato
Questa difficoltà dipende certamente anche dal fatto che una
modellizzazione del distretto industriale risulti ardua poiché si riferisce ad
uno strumento assai diversificato di sviluppo economico e sociale, che per
sua stessa natura è dotato di un‟estrema dinamicità non solo spazio
temporale ma anche simbolica, dipendente da fattori di natura non
economica, come quelli di natura sociale, culturale e istituzionale, prima
ancora che da fattori economici di tipo normativo, materiale.
Il concetto di distretto industriale viene fatto risalire ad Alfred Marshall
verso la fine del 1800, anche se in Gran Bretagna questo termine era già
comparso in un saggio del 1841 di Cooke Taylor e in un lavoro di Hearn del
1863, in relazione alla esistenza nel Lancashire, di alcune aree che si erano
differenziate fin dalla prima industrializzazione, con la concentrazione di
una produzione industriale specializzata.2
Tuttavia prima di Marshall il concetto di distretto industriale non
conteneva riferimenti socio-economici-territoriali ma consisteva soltanto in
una generica indicazione di area industriale.
Marshall, sarà l‟unico che pur appartenendo agli economisti detti
“marginalisti”, effettuerà una riforma dell‟Economia neo-classica,
reintroducendo le Istituzioni nell‟analisi marginalista, ritenendola altrimenti
troppo irrealistica per poter dare risultati utili; egli procede per via empirica,
dividendo l‟analisi in due settori, quello della ricchezza (monitorato con
l‟analisi marginalista ma alla ricerca di equilibri parziali maggiormente
compatibili con la realtà) e quello dei fattori Istituzionali (studio dell‟uomo,
rifiutando l‟astrazione del “homo oeconomicus” e qualificando i valori
condivisi come componenti necessari allo stimolo delle attività umane e
quindi anche quelle di tipo economico), assottigliando in tal modo la linea di
demarcazione fra Sociologia ed Economia.
________________________
2 A.Grespan 2005
7
Con Marshall il concetto di distretto industriale assume una forte
caratterizzazione sociale, economica e territoriale, dove la dimensione
storica e quella geografica assumono particolare rilevanza, assumendo senso
nella realtà sociale, come Becattini rileverà efficacemente, e testualmente:
”Le propensioni rilevanti dell’agente economico marshalliano, non sono le
preferenze vuote e generiche del soggetto economico degli economisti
classici, ma sono sempre propensioni di soggetti rappresentativi di
aggregati sociali storicamente e geograficamente determinati. La realtà
sociale mashalliana non è un accozzo di atomi senza patria né storia, ma un
complesso di gruppi sociali territorialmente distinti”3.
Marshall sviluppa quindi la sua analisi, tenendo sempre sullo sfondo la
dimensione storico-geografica, opponendosi all‟analisi che i cultori della
grande impresa, soprattutto fra i classici dell‟Economia, fanno sulla
divisione del lavoro e sui vantaggi che ne deriverebbero, puntando piuttosto
ad evidenziare come la concentrazione di grandi capitali in poche grandi
aziende possa indebolire l‟offerta di iniziativa individuale e non sia quindi
una necessità per ogni tipo di attività industriale 3.
Marshall considera come l„impresa, alla stregua dell‟individuo, non sia
mai isolata da relazioni sociali ed economiche del luogo al quale appartiene
e procede ad un‟analisi che ha nella organizzazione il suo punto di
osservazione principale, ponendo l‟attenzione sul meccanismo di
specializzazione e di integrazione che caratterizza il processo di crescita di
un organismo. L‟organizzazione viene quindi inserita fra i fattori della
produzione e come tale comporta da un lato una suddivisione di funzioni fra
le sue varie parti e dall‟altro lato una integrazione fra di esse.
Becattini evidenzia come questa visione ponga in primo piano la
scomposizione del processo produttivo territoriale in imprese minori, anche
individuali, che si ricompone all‟interno del sistema locale, in un intreccio
dinamico di concorrenzalità e di cooperazione. In questo modo ci si può
rendere conto sia della esistenza e del vantaggio competitivo creato dalle
economie esterne all‟azienda, ma interne al contesto locale, e dal grande
impulso che la concentrazione di una innumerevole fonte di diversità può
dare all‟innovazione e allo scambio costruttivo di esperienze differenti.
Queste sono, secondo Becattini alcune delle premesse che portano
Marshall a formulare una definizione di distretto industriale come
alternativa al modello della grande impresa, in certi settori manifatturieri,
puntando sulla dimostrazione di come il conseguimento di economie nella
produzione non dipende dalla dimensioni della singola azienda, ma dal
modo in cui la produzione viene organizzata e da come interagisce con
l‟ambiente sociale e produttivo al quale si riferisce 4.
Il distretto Industriale viene definito da Marshall nei “Principles of
Economics”(1890) e in “Industry and trade” (1919), come
_______________________________
3.G.Becattini 1987
4. A.Grespan. 2005
8
“una organizzazione su base locale formata da una concentrazione di molte
piccole industrie specializzate che, condividendo lo stesso territorio, si
specializzano e sviluppano legami stabili, creando una intensa divisione del
lavoro ed una cooperazione tra soggetti specializzati in determinate fasi
dello stesso ciclo produttivo”.
Nel 1995, Corò puntualizzerà il concetto del distretto non come mera
somma di aziende presenti sul suo territorio, ma anche come insieme di
tradizioni produttive e di rapporti sociali, sedimentati localmente e che ne
sono parte integrante.
Marshall definì i distretti pregni di una “industrial atmosphere”,
derivante da una condivisione sociale di un sapere specializzato che
contraddistingue quella “fabbrica senza mura” che in definitiva costituisce
l„essenza del distretto industriale e Rullani (1995) la definirà una sorta di
bene pubblico invisibile formato da un insieme di culture, di un linguaggio
condiviso, di conoscenze implicite, di norme sociali di condotta.
Giacomo Becattini fu il primo economista italiano che nel 1969, oltre a
riprendere l‟ispirazione marshalliana nel formulare la teoria dei distretti
industriali, ne applicò il concetto alla realtà della Toscana, Regione che
divenne il laboratorio dove egli realizzò gran parte delle sue ricerche. Da
quel momento in poi gli studiosi che si misurarono in analisi e ricerche sui
distretti industriali divenne innumerevole, anche per l„evidenza delle
performances economiche positive che questa nuova forma di produzione
raccoglieva sul territorio e che si materializzavano in quasi tutti i Paesi
industrializzati.
Becattini (1989) ridefinisce il distretto industriale come “un’entità socio-
territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un area territoriale
circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una
comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali.”
Per Becattini le componenti principali che delineano l‟esistenza e la
strutturazione di un distretto industriale sono:
-Il territorio, indispensabile elemento strategico del processo di sviluppo,
inteso come insieme di fattori storici, culturali e sociali.
-La presenza di una popolazione di piccole e medie imprese indipendenti, in
assenza di dominanze, e tendenti a coincidere con singole unità produttive
all‟interno di una intensa divisione del lavoro, dotata di flessibilità e di
efficienza.
-La condivisione di valori, si tratta infatti di agglomerati di imprese diversi
da quelli che normalmente si ergono in altri contesti, come quelli legati ad
esempio al satellitarismo della grande impresa, nel distretto, le imprese si
trovano accomunate sul medesimo territorio perché appartenenti ad un
aggregato sociale storicamente determinatosi e da agenti che culturalmente
condividono gli stessi valori e le stesse simbologie.
- La dimensione delle aziende, pur non essendo legata a particolari modelli,
rende il distretto maggiormente reattivo e vivace se il numero delle aziende
9
individuali o piccole e piccolissime è elevato e se fra di loro è instaurato un
adeguato livello di interazione.
-La concorrenza e la cooperazione, Becattini definisce “animal spirits”
quell‟impasto di sentimenti che anima le famiglie del distretto e che spinge
al sacrificio e alla spendita di energie, in un miscuglio di rivalità e di
solidarietà, di concorrenza, di emulazione e anche di invidia: fattori decisivi
per il successo.
-Il mercato, deve essere il più possibile articolato e deve dialogare con altri
distretti. Becattini ritiene necessario che ogni distretto abbia una propria
immagine che venga spesa attraverso la produzione e commercializzazione
del prodotto, e anche attraverso una adeguata informazione che contenga le
caratteristiche materiali e simboliche del territorio.
-La flessibilità, nei distretti il valore più rilevante è dato dalla capacità del
sistema produttivo di esprimere un adattamento continuo ai cambiamenti,
mantenendo straordinarie doti di efficienza. Questa capacità trova le proprie
basi nella stessa struttura sociale interna al distretto, dove la cooperazione e
il senso di comunità, con i legami forti come quelli della parentela rendono
naturale lo sviluppo di meccanismi di adattamento continui, poggianti sulla
reciproca fiducia e sull‟inventiva costruttiva.
-La spinta all‟innovazione deriva soprattutto dalla base collaborativa
esistente nei distretti, che la concorrenza ininterrotta e le sfide continue del
mercato sollecitano nello scambio di saperi, nella ricerca di conoscenza e
nelle capacità costantemente orientate allo sviluppo, alla soluzione dei
problemi e al superamento degli ostacoli.
Il vero motore che ha permesso lo sviluppo dei distretti industriali può
tuttavia essere identificato in quella basilare istituzione che è il Capitale
Sociale.
Un concetto quest‟ultimo che risale ai primi sviluppi della Sociologia,
già presente nelle opere di Weber, come “L‟etica protestante e lo spirito del
capitalismo”, dove la formazione della imprenditorialità che facilita lo
sviluppo di un territorio, viene fatta risalire al tipo di relazioni sociali
esistenti sul quel territorio.
Trigilia (2001) definisce testualmente il capitale Sociale come “l’insieme
delle relazioni sociali di cui un soggetto individuale (per esempio un
imprenditore o un lavoratore) o un soggetto collettivo (privato o pubblico)
dispone in un determinato momento. Attraverso il capitale di relazione si
rendono disponibili risorse cognitive, come le informazioni, o
normative,come la fiducia, che permettono ali attori di realizzare obiettivi
che o sarebbero altrimenti raggiungibili, o lo sarebbero a costi molto più
alti. Spostandosi il livello dal livello individuale a quello aggregato, si potrà
poi dire che un determinato contesto territoriale risulta più o meno ricco di
capitale sociale e seconda che i soggetti individuali o collettivi che vi
risiedono siano coinvolti in reti di relazioni più o meno diffuse.