INTRODUZIONE
“L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che
non sono in quanto non sono”
(Protagora, 480 - 410 a.C)
Il presente lavoro tratta del tema dell’arte di governare, arte che, a seconda delle epoche
storiche cui si riferisce, forgia delle tecniche per plasmare, guidare, gestire e regolare la
condotta degli individui alla luce di determinati principi o finalità (Rose, 1993, p. 285).
In una società in continua trasformazione, la questione di come governare, che cosa
governare, e chi deve governare assume sempre più importanza; appare perciò evidente
come, ogni sistema di governo, debba essere esercitato alla luce della conoscenza di ciò
che deve essere amministrato (singoli individui, particolari aggregati di persone,
economia, collettività, ecc.). Secondo tale prospettiva si può asserire che i governanti si
interessino di “problematizzare” i vari aspetti della vita dei governati per cercare in
questo modo di intervenirci. Partendo quindi dall’assunto che “Government is a
problematizing activity”, ossia che “il governo consiste in un’attività di
problematizzare” (Rose, Miller, 1992, p.181), ecco come la mentalità di governo appare
strettamente legata ai problemi attorno ai quali essa stessa circola, alle mancanze che
cerca di correggere ed alle “malattie” che si propone di curare.
In particolare, prendendo in considerazione il sistema culturale, sociale ed economico
cui noi apparteniamo, la Comunità Europea si presenta come un caso peculiare, non
essendo uno stato nazionale e sovrano. L’Unione Europea (di seguito UE) è nata con il
Trattato di Maastricht nel 1992, ed ha una struttura singolare che deriva dal modo in cui
è sorta, frutto di un processo durato oltre quarant’anni, e cominciato con l’iniziativa di
sei paesi (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) che negli anni
’50 al termine della Seconda Guerra Mondiale dettero vita prima ad una Comunità
europea del carbone e dell’acciaio, e poi ad un’area di libero scambio chiamata
Comunità economica europea. L’Europa oggi è un territorio vasto ed eterogeneo, che
presenta disuguali realtà economiche e sociali: si è pertanto avvertita sempre più forte
l’urgenza di ovviare ai problemi derivanti dal rischio di trovarsi di fronte ad una,
nessuna, centomila Europe. E così l’Europa è andata in cerca d’autore. Non essendo né
una federazione di stati, come gli Stati Uniti d’America, né una semplice organizzazione
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intergovernativa, come le Nazioni Unite, l’UE, dopo essersi creata una struttura atipica
provvista di un proprio Consiglio, una Commissione, una Corte di Giustizia, un
Parlamento, una Banca Centrale, ha introdotto moneta unica e libertà di circolazione per
persone, merci, servizi e capitali. L’introduzione dell’euro, avvenuta nel 2002, ed il
continuo processo di allargamento a nuovi Stati membri hanno evidenziato le difficoltà
di governare un sistema molto articolato e variegato comprendente ad oggi 27 diversi
Paesi.
Come autorità sopranazionale, molte delle sue attività sono condotte insieme agli stati
nazionali; la Comunità europea non ha poteri derivati da una costituzione, bensì opera
attraverso trattati, che definiscono le relazioni tra la Commissione, le altre istituzioni
comunitarie e gli Stati membri. La questione si complica tenendo conto che, a
differenza degli stati federali, i paesi aderenti non detengono poteri inferiori a quelli
dell’Unione, ma hanno piena sovranità in tutte le materie di governo (Pollitt, Bouckaert,
2000, p. 56). Esaminando il caso europeo, appare ancora più evidente come l’arte di
esercizio del potere, per trovare legittimazione e visibilità, necessiti di un substrato
costituito da norme (regolamenti, direttive), valori (conoscenza, innovazione,
competitività, ecc.), riti (sessioni del Consiglio), regole (i cinque principi della buona
governance) su cui si fonda un certo modo di visione del mondo. Secondo i meccanismi
sopra accennati, accade pertanto che qualcuno individui dei problemi (ad esempio la
necessità di accrescere la capacità di concorrenza, o competitività, dei territori locali),
qualcuno analizzi il contesto raccogliendo ed elaborando dati (come la percentuale di
spesa in ricerca e sviluppo), qualcuno proponga delle ricette (dare incentivi pubblici alle
imprese che svolgono attività ad elevato contenuto tecnologico).
Come si è giunti all’introduzione ed alla diffusione di principi e di regole chiave, senza i
quali oggi nessuna politica comunitaria, nazionale, regionale o locale è più possibile?
Attraverso quali tecniche i governanti, avvalendosi del sapere degli esperti e dei tecnici
di cui dispongono, possono (ma non è detto che ci riescano) convincere ed “affiliare” a
sé gruppi di interesse così numerosi, vasti ed eterogenei quali sono quelli della nostra
società globalizzata? Inoltre come si immagina di tenere in piedi un simile meccanismo?
Ed ancora, in che modo si sono venute a creare le norme, le regole, i principi, i
documenti, le relazioni, le statistiche, il gergo, le cifre, le politiche, ecc. che
costituiscono la realtà europea in cui oggi siamo tutti immersi? Si studierà il ruolo che
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giocano i diversi livelli di governo locale, nazionale ed europeo, nella messa in opera di
nuovi schemi di esercizio del potere.
L’evoluzione delle tecniche di governare l’Europa è assai lunga e variegata, pertanto
può essere più consono iniziarne il racconto in medias res: per stare al passo con i
cambiamenti imposti dalla globalizzazione, ad un certo punto della storia europea, si è
preso atto di non potersi più poggiare su meccanismi di potere obsoleti e si è posta la
necessità di avviare un vasto programma di riforme. Come si descriverà in seguito con
maggior grado di dettaglio, le nuove modalità di governo proposte si stanno
progressivamente spostando da forme gerarchiche e dirigistiche del comando
(government) ad una logica più informale in cui molteplici interessi divergenti tra loro
entrano in gioco in un processo di contrattazione mediante il coordinamento verticale tra
l’autorità comunitaria, nazionale e locale, ed orizzontale fra i numerosi interlocutori
pubblici e privati (governance). Dal momento che particolari forme di pensare, di
comportarsi e di relazionarsi sorgono in altrettanto specifiche epoche storiche (Foucault,
1969, p. 65), si studieranno quelle emerse agli inizi del nuovo millennio in occasione
del Consiglio europeo di primavera tenutosi a Lisbona nel marzo 2000, che hanno
inaugurato una nuova strategia dell’UE nel proporsi quale leader per un sistema di
governance articolata su più livelli, in cui i diversi portatori di interessi coinvolti (i
cosiddetti stakeholder) partecipano ad un processo di negoziazione ed interazione
dinamico e complesso per elaborare ed attuare delle politiche condivise (Lion, Martini,
Volpi, 2003, p. 2).
Poiché la questione del processo di Lisbona riguarda il coinvolgimento europeo negli
ambiti delle politiche che primariamente appartengono alla responsabilità degli Stati
membri (Bruegel, 2006a, p. 7), appare interessante agli occhi di chi scrive studiare
l’Europa in veste di laboratorio di pratiche finalizzato a dar vita e a legittimare un
modello di governo innovativo, imperniato su un’idea di sviluppo basato sulla
conoscenza, sulle risorse immateriali e su una forma costruttiva di confronto territoriale
fondato sul binomio concorrenza-cooperazione, i cui ambiziosi obiettivi dovrebbero
venir conseguiti attraverso un articolato sistema di governance multilivello.
La parola governance ha origini etimologiche lontane, che diversi autori identificano nel
vocabolo latino gubernare che a sua volta si riferisce al greco kybernetes, ossia
timoniere di navi, e quindi è stata identificata con l’“arte di guidare indicando la rotta da
seguire” (Cepiku, 2005, p. 106). Attualmente la governance è diventata un concetto
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multidimensionale portatore di molteplici significati, spesso impliciti e generici e di non
facile né condivisa definizione. A tale riguardo possono forse risultare utili le riflessioni
avviate da un centro nazionale italiano di formazione e di studi che fa capo al
Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri,
denominato Formez, che si occupa appunto di assistere le amministrazioni pubbliche
nella loro attività di governare e guidare la collettività degli individui cui fanno
riferimento. Il Formez propone di utilizzare il termine governance in relazione ad un
nuovo modo di interpretare l’esercizio del potere, in seguito alla rilevanza crescente che
ha assunto la partecipazione della società civile e dei gruppi di interesse economici
(Formez, 2007, p. 202). Alla luce di questo cambiamento, tuttora in atto, viene pertanto
accantonato il termine governo per definire il nuovo modo con cui si cerca di
organizzare e di amministrare le popolazioni ed i territori.
Negli ultimi due decenni sono sorti e si sono diffusi numerosi dibattiti in merito alla
percezione che il rapporto tra attori pubblici, privati, istituzionali e sociali si stia
modificando. Si sono sviluppate opinioni sul fatto che l’iniziativa politica si realizzi
sempre meno dall’alto verso il basso, e che i territori locali stiano irrobustendo la loro
“voce” nella definizione e nell’attuazione di ciò che viene reputato “desiderabile” per il
benessere di una determinata collettività. Viene manifestata la possibilità di instillare
una “responsabilità diffusa”, puntando sull’interconnessione e sull’attivazione dei
cosiddetti “sistemi territoriali locali” (che verranno approfonditi nel corso del lavoro) e
di reti di attori orientati ad operare per l’interesse generale secondo modalità che
vengono caldeggiate come “virtuose”.
Sulla base di queste considerazioni, il campo di applicazione dei processi di governance
sono le politiche pubbliche implementate dalla Pubblica Amministrazione (di seguito
PA), i piani di sviluppo territoriale, i processi di programmazione e di pianificazione
delle politiche, i progetti e in generale le azioni di governo del soggetto pubblico a cui
competono funzioni di governo regionale o locale (Formez, 2007, p. 203).
Questo lavoro si propone quindi di studiare in che modo il processo di cambiamento del
sistema di pensare e di agire in merito all’arte del governo sia molto meno ineluttabile
di quello che ad una visione superficiale potrebbe apparire. L’insieme delle pratiche
messe a punto dai governanti per condizionare e regolare la condotta dei governati è
fondato su un meccanismo articolato e complesso di varie forze (giuridiche,
accademiche, amministrative, finanziarie, statistiche, ecc.) che regolano gli aspetti delle
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decisioni e delle azioni di individui, gruppi, organizzazioni e popolazioni. Esse si
avvalgono di tecniche di annotazione, calcolo e previsione; procedure di indagine e
valutazione; l’invenzione di meccanismi quali mappe, sondaggi, stime, e tabelle; la
standardizzazione di sistemi di formazione e di “inculcare” abitudini; l’inaugurazione di
specializzazioni scientifiche e lessicali (Rose, Miller, 1992, p. 183). Tali tecnologie per
affermarsi utilizzano il metodo dell’affiliazione attraverso i discorsi, la persuasione, le
negoziazioni e gli accordi. Sulla base di questa definizione, il fatto che al momento ci si
stia progressivamente spostando dalla suddetta logica di government a quella di
governance è un fenomeno che non va dato per scontato circoscrivendolo alla spontanea
esigenza di “fare sentire la propria voce” da parte dei cittadini.
Tale tesi infatti tende a rovesciarne l’ottica: l’aumento della richiesta di partecipazione
degli stakeholder è data poiché è richiesto loro di partecipare. Un esempio che verrà
trattato nel corso della ricerca è il principio di partenariato per la costruzione e
l’implementazione delle politiche, il quale obbliga i governi locali e regionali ad attivare
contesti di rete mettendo in discussione i propri consolidati modelli amministrativi
(Panozzo, 2007, p. 13). In questo modo anche i cittadini e le imprese diventano
responsabili degli esiti delle politiche, di modo che il successo o il fallimento di queste
ultime non è più imputabile alle sole istituzioni. Si dimostrerà nel corso della trattazione
che l’attitudine di intervenire da parte della società civile alle dinamiche di regolazione
dei comportamenti economici e sociali viene trasmessa dalle autorità infondendo
determinati modi di pensare e di agire, affiliando e persuadendo che tale approccio è
quello “vincente” per il raggiungimento dei traguardi fissati. Il tema su cui nello
specifico verterà la ricerca, si focalizza su quello che al momento è uno di tali obiettivi:
l’implementazione su base regionale delle strategie europee in materia di governo
multilivello, verificando se e come l’apparato pubblico possa costituire un fattore di
successo per il benessere di un territorio, utilizzando la nuova prospettiva di PA come
leader, all’interno di un contesto a rete tra molteplici attori che interagiscono in un data
area geografica. Data l’ampiezza della materia in questione, si concentrerà l’attenzione
sull’azione della PA in merito a uno dei temi attualmente dominanti, la competitività.
Chi sono i “colpevoli” della messa in opera di questo cambiamento della maniera di
concepire la realtà? Sotto il ventaglio di quali tecniche è rinvenibile l’“arma del
delitto”? In cosa si concretizza il “movente”?
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Prima di entrare nel vivo delle “indagini”, si procederà nel primo capitolo a tracciare un
preliminare quadro del percorso che ha condotto all’introduzione della governance
europea come modello di governo disegnato dall’UE al fine di esercitare i suoi poteri in
modo più energico e capillare su scala nazionale, regionale e locale. Verrà passata in
rassegna la storia che ha portato a cambiare il modo di concepire gli spazi della
Comunità europea da “semplice” area di libero scambio a vero e proprio laboratorio di
pratiche in possesso di peculiari regole, norme, principi, valori, conoscenze, strumenti,
apparati, pratiche, tecniche. In seguito si descriverà come sono stati applicati i prototipi
tracciati su scala comunitaria da parte dell’Italia e della Regione del Veneto.
Nel secondo capitolo si proporrà una chiave interpretativa dei fenomeni europei
raccontati, avvalendosi delle teorie su come si crea un determinato sistema composto da
saperi, istituzioni, comportamenti, metodi, procedure, studi, valutazioni, tattiche che
consentono l’esercizio di specifiche forme di autorità, vale a dire ciò che lo studioso
francese Foucault e i suoi sostenitori hanno sintetizzato nel termine governmentality. In
particolare verrà posto l’accento sullo schema di potere “a distanza”, quale è quello che
l’UE pratica nei confronti dei territori su cui insiste.
Nel terzo capitolo si passerà dalla teoria alla pratica, riportando l’esperienza pilota della
Regione del Veneto denominata “Forum sulla Competitività”, relativa
all’implementazione di un meccanismo di governance locale per la creazione e la
condivisione di saperi, pratiche, idee e possibili rimedi concernenti cinque questioni
chiave riconosciute dalla Regione come prioritarie, per abilitare un sistema condiviso di
governo sulle orme del modello sollecitato dall’Unione. La descrizione di questo
esperimento empirico focalizzerà la propria attenzione sul metodo mediante il quale il
processo è stato condotto (la governance è stata reale o presunta?) ed il modo in cui si è
generata la conoscenza attraverso lo scambio tra i diversi soggetti che vi hanno preso
parte.
Al termine del lavoro si cercherà, sulla base dei dati, dei fatti e delle esperienze
riportate, di rispondere al seguente quesito: che tipo di governo abbiamo di fronte?
Il lavoro è frutto di un’attività di raccolta e di elaborazione della letteratura disponibile
sul campo, oltre che dell’esperienza accumulata e riportata personalmente grazie al
coinvolgimento, durante uno stage di alcuni mesi presso la Direzione Programmazione
della Regione del Veneto, nella preparazione di uno dei cinque Libri Verdi previsti dal
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Forum, quello sul tema della “Pubblica Amministrazione come fattore di competitività”.
Per ciò che concerne le fasi non vissute di persona, si è ricorso ad assemblare
testimonianze, pareri, punti di vista di alcuni soggetti tra coloro che hanno partecipato a
tutti gli stadi del progetto. Questo studio infine trae beneficio dai convegni, seminari,
dibattiti cui si è assistito nel corso del periodo in cui questa tesi è stata composta.
Un ringraziamento particolare va al mio relatore Prof. Fabrizio Panozzo, all’intero
gruppo della Direzione Programmazione della Regione del Veneto e a tutti coloro che
mi hanno supportato (o sopportato?) in questi lunghi mesi di tortuoso percorso.
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CAPITOLO 1
L’EUROPA COME LABORATORIO DELLE NUOVE FORME DI GOVERNO
Lettere da Bruxelles – archivio
Competitività: R&S, e se l’obiettivo di Lisbona fosse sbagliato?
Di Antonio Pollio Salimbeni, Il Sole24Ore del 7 marzo 2008
La prossima settimana si riuniscono a Bruxelles i capi di stato e di governo europei per fare il
punto della strategia di Lisbona, quell'insieme di obiettivi per migliorare la competitività
dell'economia che comprendono l'aumento del tasso di occupazione al 70% (oggi al 66%) e
l'aumento delle spese in ricerca e sviluppo al 3% del prodotto (ora sotto il 2%).
L'Europa non parte da zero: 7 milioni di posti di lavoro creati in due anni, calo della
disoccupazione al 7%, ripresa della crescita della produttività dopo cinque anni di magra
(+1,5% nel 2006 contro una media di 1,2% tra il 2000 e il 2005). Ma con la sola inerzia gli
obiettivi del 2010 non saranno centrati. Per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo, leva
per l'attività produttiva, si raggiungerà a malapena il 2,6% del pil. Ben altri sono i valori negli
Stati Uniti (3,5%), in Giappone (oltre il 3%), della Cina, passata dallo 0,5% dieci anni fa e
arrivata all'1,5%.
Non è l'Europa, che sta cercando di raggiungere gli Usa, è la Cina che sta raggiungendo
velocemente l'Europa. Già nel 2006 ha superato il Giappone nella classifica dei paesi che
investono di più in R&S e si trova al secondo posto dietro gli Usa. E l'Asia nel suo complesso
ha già superato il Nordamerica.
Negli ultimi dieci anni l'intensità della spesa in ricerca e sviluppo (in rapporto al prodotto) in
Europa è aumentata di pochissimo e un vero salto lo hanno fatto soltanto Finlandia, Austria,
Danimarca e Svezia. In Francia, Olanda e Regno Unito è perfino diminuita. In Italia si spende
circa la metà della media Ue. Tutto ciò legittima il dubbio che gli obiettivi di Lisbona su R&S
siano eccessivamente ambiziosi e comunque abbiano scarsa relazione con la specializzazione
industriale. E' molto interessante a questo proposito una recente e provocatoria analisi di
Bruegel, ‘think tank', nella quale vengono posti interrogativi molto semplici: un paese come il
Lussemburgo, specializzato nei servizi finanziari, ha davvero bisogno di aumentare la spesa in
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R&S?
Un'economia specializzata nel turismo, nella moda, nei servizi e negli alimentari deve avere
necessariamente una intensità di R&S pari a quella di un altro specializzato nella farmaceutica,
nell'ingegneria civile o nell'industria biotecnologica? Tenendo conto della propria
specializzazione industriale (tlc), la Finlandia ha risultati davvero così strabilianti?
Ci si chiede, in sostanza, se ha senso porre un obiettivo valido per tutti indipendentemente dalla
specializzazione di quella o quell'altra economia e quando non si ha una chiara idea di quale
direzione si dovrà prendere in futuro per stare a galla. D'altra parte la spesa in R&S non ha
subito grandi cambiamenti proprio perché è la specializzazione industriale a non essere
cambiata profondamente.
Quanto ai fattori che possono stimolare gli investimenti in R&S ce ne sono almeno tre sui quali
far leva: sfruttare fino in fondo la dimensione del mercato unico (tante lingue ma regole comuni
o compatibili per tutti i paesi); brevetto europeo (validare un brevetto in tredici paesi costa oltre
ventimila euro contro 1800 negli Usa e 1500 in Giappone); potenziare la ricerca accademica e
l'educazione. Sarebbe infatti meglio parlare di investimenti nella conoscenza (R&S più
istruzione secondaria e terziaria). Qui gli Usa continuano a battere tutti con il 6,6% del pil,
seguono Corea del Sud con il 5,8%, Giappone 5%, Canada 4,8%. Distanziati Germania con il
3,9%, Francia e Regno Unito con il 3,7%, l'Italia con il 2,4% (dati Ocse 2006).
La Strategia di Lisbona
Economia della conoscenza. Società dell’informazione. Governance europea. Concetti
che sono sulla cresta dell’onda tra gli addetti ai lavori all’interno delle istituzioni
dell’UE, dei suoi Stati membri e dei governi regionali e locali. Lessico in continua
diffusione anche tra le organizzazioni private, le imprese e la società civile, nel tentativo
di solcare e di cavalcare nuovi frangenti in risposta ai “vecchi problemi” (crescita
economica, occupazione) di un’Europa che si propone nel ruolo di catalizzatore delle
risorse (Consiglio Europeo, 2000a, p. 9), esercitando un’autorità che gli stati nazionali
delegano ad un organismo che di potere sovrano non ne ha alcuno.
Reduce da un decennio di difficoltà economiche e sociali diffusesi negli anni ’90 (in
proposito si cita il Libro Bianco “Crescita, Competitività e Occupazione”; Delors,
1993), nel marzo del 2000 a Lisbona, con una sessione “straordinaria” del Consiglio
europeo, i capi di stato e di governo dell’UE hanno convenuto di fare dell’Europa, entro
il 2010, “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in
grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di
lavoro e una maggiore coesione sociale”. Da allora, le diverse misure da mettere in atto
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per raggiungere questo obiettivo hanno preso il nome di “Strategia” o di “Agenda” di
Lisbona.
Quale meccanismo si è messo in moto allo scopo di poter realizzare tale disegno? Sono
stati individuati dei punti di forza dell’Unione (mercato unico, moneta unica, elevato
livello di formazione della forza lavoro, sistemi di protezione sociale “progrediti”) e di
debolezza (basso livello di occupazione femminile, insufficiente sviluppo dei servizi
nell’ambito delle tecnologie dell’informazione). Sono state richieste delle relazioni a
degli organismi tecnici per conoscere meglio gli ambiti su cui intervenire per aumentare
la crescita e l’occupazione. Sono state indicate delle modalità di azione (migliorare le
politiche in materia di ricerca e di sviluppo; introdurre un nuovo metodo di
coordinamento aperto a tutti i livelli, associato al potenziamento del ruolo di guida del
Consiglio Europeo). Sono stati proposti degli indicatori per misurare i “progressi”
realizzati in determinati campi (crescita economica, coesione sociale, occupazione,
innovazione). Sono state avviate una serie di riforme economiche e sociali, indirizzando
le priorità di azione verso particolari gruppi e aree “bersaglio”.
Caratteristica peculiare di tale strategia è che per la prima volta i temi della conoscenza
sono stati individuati come i pilastri portanti, su cui poggia un campo di intervento
molto ampio che comprende l’innovazione e l’imprenditorialità, la riforma del welfare e
l’inclusione sociale, il capitale umano e la riqualificazione del lavoro, uguali
opportunità per l’occupazione femminile, la liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei
prodotti, lo sviluppo sostenibile.
Nello specifico le priorità della Strategia sono state individuate nei seguenti quattro
punti (http://europa.eu/scadplus/leg/it/cha/c10241.htm):
Internet: l'Europa si dovrà dotare di servizi pubblici online, di
un'amministrazione digitale, di servizi di apprendimento elettronico. Tutte le
scuole dell'Unione dovranno disporre di internet e tutti gli insegnanti dovranno
saperlo utilizzare ed insegnare. Occorrerà, oltre a ciò, una normativa europea che
regolamenti il commercio elettronico, i diritti d'autore, i pagamenti online e la
vendita a distanza di servizi finanziari.
Ricerca: affinché l'UE diventi l'economia basata sulla conoscenza più
competitiva al mondo, viene prospettata come necessaria la definizione di uno
spazio europeo della ricerca e dell'innovazione, in cui una rete transeuropea ad
alta velocità per le comunicazioni scientifiche elettroniche colleghi gli istituti di
ricerca e le università, le biblioteche scientifiche, i centri di studi e gradualmente
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