Introduzione
Con il presente lavoro mi propongo di studiare l’immagine della scala della contemplazione
nella Commedia.
Questa immagine, ripresa da una vasta tradizione che va dalla visione veterotestamentaria
di Giacobbe alla mistica occidentale del XII e XIII secolo, compare esplicitamente per la prima
volta nei canti XXI e XXII del Paradiso. Il mio proposito è dunque quello di ripercorrere nei
termini di uno sguardo retrospettivo le tre cantiche, cercando di cogliere e stabilire dei precisi
legami con la scala paradisiaca, al fine di ipotizzare in alcuni casi una sovrastruttura semantica
all’interno del cammino dantesco. Da quanto mi risulta l’opera di Dante non è mai stata
studiata da questo preciso punto di vista.
Per fare ciò occorre partire inevitabilmente dallo “scaleo eretto in suso” (Par. XXI, v. 29),
analizzando tutte le caratteristiche che lo accompagnano, le sue valenze strutturali all’interno
del “poema sacro”, quelle allegorico-dottrinali che si inseriscono nella tradizione mistica.
Descriveremo poi la progressione intellettuale che avviene nel viator a questo punto della terza
cantica. Una volta individuata quale fonte principale quella del “Benjamin maior” di Riccardo di
San Vittore, infine, proporrò alcuni richiami (anche puntuali) fra i due testi, che potranno
portare a nuove interpretazioni dei due canti del cielo di Saturno. I risultati ottenuti saranno
utili anche per ottenere i collegamenti di cui dicevo sopra.
Il Purgatorio verrà affrontato sotto due prospettive diverse: da un lato quella strutturale,
che ha un carattere più “scalare” in confronto alle altre cantiche; dall’altro quella di singoli
episodi in cui questa scala emerge ed è ipotizzabile un suo inserimento nella tematica
contemplativa. Perciò individuerò alcune caratteristiche che descrivono la struttura della
seconda cantica attraverso la prima prospettiva a partire dai “primi scalini” purgatoriali, e cioè
dal canto IX. Da questo canto emergerà una serie di propositi e quindi una direzione generale
per questa parte del percorso dantesco (in contrapposizione all’Antipurgatorio dove regna
l’incertezza e la perigliosità del cammino). Analizzeremo infine il canto degli “ultimi scalini”, il
XXVII, in cui tenteremo di focalizzare i risultati ottenuti nell’ascesa della scala del Purgatorio.
Già da subito anticipiamo che questa scala porta con sé tutti gli aspetti di una progressione
morale, ma evidenzieremo come si inserisce e si rapporta con la scala della contemplazione del
Paradiso.
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Anche per quanto riguarda l’Inferno non parleremo propriamente di contemplazione,
tuttavia la prima cantica verrà studiata come punto di partenza della progressione razionale e
intellettuale di Dante. Se il percorso che si seguirà durante il terzo capitolo potrà apparire
insolito, poiché discuterò della scala infernale a partire dal canto XXXIV, esso garantirà alla mia
indagine una serie di premesse indispensabili, in particolare il tratto del rovesciamento nel
primo regno dantesco. In ultimo cercherò di studiare il volo sulla groppa di Gerione del canto
XVII come precisa conversio dantesca all’itinerarium intellettuale che porterà alla verità di Dio.
Già nel corso della mia analisi darò una serie di conclusioni circa il reticolo semantico della
scala contemplativa di cui ho appena detto. I risultati ottenuti alla fine del mio lavoro si
proporranno di portare a una nuova interpretazione del cammino dantesco, che apparirà
imprescindibilmente legato all’immagine della scala della contemplazione, la quale indicherà la
continua dialettica tra intelletto umano e visione divina all’interno del “poema sacro”.
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Capitolo 1
Lo sguardo retrospettivo
dei canti della contemplazione
(Paradiso XXI-XXII)
1.1 . La scala di Giacobbe nel settimo cielo
Col XX canto si chiude improvvisamente il soggiorno di Dante nel cielo di Giove. L’incipit del
canto successivo indica un repentino spostamento d’attenzione da parte di Dante-personaggio,
dei suoi occhi e dell’animo, che “da ogne altro intento s’era tolto” (Par. XXI, 3). Il nuovo clima è
ribadito anche nelle tre terzine successive da Beatrice che, per la prima volta, nega il
confortevole sorriso al pellegrino, come pure dall’assenza di quelle dolci melodie che fino ad
1
allora lo avevano accompagnato nell’ascesa paradisiaca. Tali «vistose eccezioni» si presentano
come segnali preliminari, a livello strutturale, della marcata singolarità del canto.
Il cielo di Saturno, che nella Commedia e in tutta la tradizione medievale è celebrato come
cielo degli spiriti contemplanti, tiene insieme i canti XXI e XXII in un unicum narrativo, tutto
calato in un’atmosfera solenne, compenetrata a sua volta dallo stupore e dall’incertezza del
pellegrino. È fondamentale, come vedremo, tenere a mente che questo è l’ultimo dei sette cieli
paradisiaci delle virtù umane, attraverso le quali gli uomini hanno imparato a rivolgere il loro
amore verso l’unica vera fonte, guadagnandosi così la beatitudine. Una rappresentazione,
2
quella dei pianeti “virtuosi”, creata appositamente per il viator: cioè, come spiega Beatrice nel
3
cielo della Luna, una rappresentazione che permette alla sua “imaginativa” di sostenere (con
1
G. MURESU, Lo specchio e la contemplazione («Paradiso XXII»), in «L’Alighieri», n.s. 8 (1996), pp.7-39, cit. a p. 7.
2
In accordo con l’imaginaire medievale, Dante vedeva dei “media” nelle costellazioni e nei segni zodiacali, ossia l’influenza
attitudinale che collegava le intelligenze celesti separate dal mondo terrestre e gli uomini.
3
«Qui si mostraro, non perché sortita / sia questa spera lor, ma per far segno / della spirtüal c’ha men salita. / Così parlar
conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno»(Par. IV, vv. 37-42). Per
questa tesi si utilizza La Commedia secondo l'antica vulgata a cura di Giorgio Petrocchi, Edizione Nazionale a cura della Società
6
l’aiuto della sua guida) le immagini che gli si propongono di volta in volta, secondo un’ascesi che
4
lo porterà fino al lumen gloriae . Dalla Luna a Saturno quindi, in una progressione di luce,
musica, bellezza e spiritualità, lo sguardo del pellegrino si è man mano allontanato dai modi
terreni e si è sempre più avvicinato a quelli divini: per imbattersi qui in una brusca “interruzione
di percorso”.
I canti della contemplazione si collocano quindi in una posizione strutturalmente strategica:
per quanto riguarda sia la struttura dell’ultimo, vero regno dell’aldilà (dove viene meno quel
velo fra sensibilia e verità divina), sia quella dell’ascesi del viator, che si trova in qualche modo
ad abbandonare, a lasciarsi alle spalle tutta l’“umanità” rimasta a questo punto del viaggio. E se
da un lato appare chiaro che a tale umanità il poeta non potrà mai rinunciare (per la
rappresentazione del poema), è pur vero che «anche la poesia è contemplazione: ciò vale sia
per il creatore, che compone e contempla l’opera realizzata, sia per il lettore, invitato ad
5
attingere il livello della theorìa e delle «cause prime»*…+».
Ma oltre alle ragioni strutturali, il cielo di Saturno costituisce un momento importante
proprio perché, raggiunto l’ultimo gradino della scala dei cieli “terrestri”, ne rappresenta una
chiave di lettura fondamentale. Infatti gli spiriti saturnini hanno la capacità di accedere
all’imago Dei, muovendosi per uno “scaleo d’oro”: questa immagine rappresenta prima di tutto
quella caratteristica che li distinse rispetto ad ogni altro uomo (e li distingue tutt’ora dai
personaggi dei sei cieli sottostanti), e cioè la loro capacità di innalzarsi, già in vita, al divino,
attraverso la virtù intellettiva. Saturno si oppone quindi alla Luna, a Mercurio e a Venere, di cui
la temperanza è il denominatore comune; ma anche ai tre cieli della saggezza, fortezza e
6
giustizia. Tutte e sei queste sfere “raccontano”, attraverso i loro rappresentanti, vicende della
vita terrena. La settima, non a caso la più lontana dal centro della cosmologia tolemaica, non
può che distaccarsi dalle vicende umane e, allo stesso tempo, fungere da ponte verso le tre
sfere eterne che la succedono, e altresì da chiave interpretativa per tutti i gradini sottostanti. In
tale senso va inteso il riferimento di Beatrice al regno di Dio come “scalinata celeste”; non è un
caso che l’idea del Paradiso in figura di scala nasca proprio all’entrata di quel cielo che ha per
emblema la stessa immagine:
ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’hai veduto, quanto più si sale,
Dantesca Italiana,Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1966-1967; per il commento ci si fa riferimento a DANTE ALIGHIERI,
Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, I: Inferno; II: Purgatorio; III: Paradiso, Milano 1991-1994-1997.
4
«Tale alta visione possono conseguirla soltanto i beati del Paradiso: il lumen gloriae è il solo che permetta la vista di
quest’ordine sommo*…+.», C. S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, Bologna, il Mulino, 1978 (prima in Dante Studies,
Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1958), cit. a p. 157.
5
G. GÜNTERT, Canto XXI, in «Lectura Dantis Turicensis, III: Paradiso», a cura di G. Güntert e M. Picone, Cesati, 2002, pp. 325-
337, cit. a p. 332.
6
Torna utile in proposito lo schema di G. GÜNTERT, ibid., cit a p. 328.
7
se non si temperasse, tanto splende,
che ‘l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.
(Par. XXI, vv. 7-12)
Occorre soffermarsi infine sulla natura del pianeta, che è ripreso sotto vari aspetti nella
tradizione medievale, finanche in quella moderna. Per quanto riguarda il mito, il figlio di Urano
7
e Gea perde nei canti XXI e XXII ogni accezione negativa, recuperando, seguendo un tradizione
inaugurata dagli antichi Romani che lo vedono portatore di pace e giustizia in Italia, l’immagine
8
dei “regna saturnia” e quindi collocandolo nella celebre età dell’oro («caro duce / sotto cui
giacque ogne malizia morta», Par. XXI vv. 26-27); d’altra parte credo che l’analisi astrologica di
910
G. Rabuse sfati del tutto la natura fredda del pianeta dantesco (che riprende la tradizione
neoplatonica dell’immagine di Saturno, per lo più caratterizzata dalla componente
intellettuale), soprattutto alla luce del suo incontro con la costellazione leonina (per
antonomasia fra le più calde). Nell’imaginaire medievale, s’intende, mito e astrologia
influiscono oltretutto l’uno sull’altra: «Saturne, planète traditionellement maléfique et type de
la rupture de tempérance, redevient ce qu’il était à l’âge d’or: le mythe d’un roi juste, tempéré
et pacifique, rejoignant, ainsi les qualités traditionelles du dieu astral Jupiter, et surtout un
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caractère tempéré que définit encore de nos jours le terme de “jovialité”». Una semplice
lettura dei primi versi che presentano il nuovo cielo è così sufficiente per appurare che non c’è
«alcuna volontà di coniugare, al fine di renderli complementari, due elementi tra loro
12
contrapposti come il freddo e il caldo *…+»:
Noi sem levati al settimo splendore
che sotto ‘l petto del Leone ardente
raggia mo misto giù del suo valore.
(Par.XXI, vv.13-15; corsivi miei)
Il forte legame che si insatura fra Saturno e la scala, cui il pianeta fa da “piattaforma”, è
sancito dalle due terzine seguenti:
7
Derivata per lo più dalle caratteristiche astrologiche dell’omonimo pianeta, di cui parleremo fra poco.
8
«Particolarmente presente nella mente di D. [...] è il famoso verso 6 della quarta egloga virgiliana (per la quale –com’è noto-
accolse l’interpretazione corrente, che la voleva profezia del prossimo avvento di Cristo: cfr. Pg XXII, 67-72): «Iam redite t Virgo,
redunt Saturnia regna» *…+» (G. PADOAN). Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1970-1978, cit. a p.
41 (Vol. IV).
9
G. RABUSE, Saturne et l’échelle de Jacob, in «Archives d’Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen Age», XLV (1978), pp.7-31.
10
Si veda per esempio E. AUERBACH, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 109.
11
G. RABUSE, Saturne et l’échelle de Jacob, op. cit., cit. a p. 20.
12
G. MURESU, Lo specchio e la contemplazione («Paradiso XXII»), op. cit., cit. a p. 20.
8
Dentro al cristallo che 'l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta,
di color d'oro in che raggio traluce
vid' io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.
(Par.XXI, vv. 25-30)
Ecco l’immagine-simbolo della contemplazione, che si presenta immediatamente dopo il
chiarimento sulla temperanza di Saturno (ai vv. 26-27): di norma la temperanza è una delle virtù
fondamentali dell’attività contemplativa. Il legame fra le due immagini è chiaro: Saturno,
individuato ormai quale emblema di pace e tranquillità, sottolineate oltretutto dal particolare
ardore con cui è descritto nei versi danteschi, funge da “palcoscenico” ideale per il simbolo
della contemplazione spirituale.
La «scala santa» (v. 64), se nel XXI viene presentata in tutto il suo splendore, e più che altro
13
nella sua apparizione, è tuttavia nel XXII che verrà riconosciuta testualmente (ovviamente già
distinta dall’ipotetico lettore medievale), consacrata peraltro da colui che in questo cielo è il
massimo esempio degli spiriti contemplanti («e la maggiore e la più luculenta / di quelle
margherite innanzi fessi», Par.XXII, vv. 28-29):
Infin là su la vide il patriarca
Iacob porgere la superna parte,
quando gli apparve d’angeli sì carca.
(Par. XXII vv. 70-72)
14
Il simbolo del cielo di Saturno è dunque la scala che vide Giacobbe in sogno, e ciò è
ribadito anche dallo stupore che opprime Dante nell’incipit del canto XXII. La scala di Giacobbe,
15
diventata subito un sinonimo della croce nel Cristianesimo occidentale, o meglio una sua
16
prefigurazione storica, fu dunque associata al passaggio dell’uomo attraverso la “porta coeli”
(ovvero Cristo) al regno della salvezza e della redenzione dal peccato originale, e dunque al
regno di Dio. Significativo è in proposito un passo di Bonaventura:
13
Al punto 1.2., quando parleremo del vedere e dell’illuminazione, l’immagine dello scaleo si inserirà perfettamente in questa
atmosfera.
14
Cfr. Gen. XXVII, 10-13: «igitur egressus Iacob de Bersabee pergebat Haran cumque venisset ad quendam locum et vellet in eo
requiescere post solis occubitum tulit de lapidibus qui iacebant et subponens capiti suo dormivit in eodem loco viditque in
somnis scalam stantem super terram et cacumen illius tangens caelum angelos quoque Dei ascendentes et descendentes per
eam et Dominum innixum scalae dicentem sibi ego sum Dominus Deus Abraham patris tui et Deus Isaac terram in qua dormis
tibi dabo et semini tuo». “Biblia Sacra iuxta vulgatam versionem”, Stuttgart, Deutsche Bibelgesellschaft, 1983.
15
Per un’iconografia della scala e della croce nel Medioevo si veda: W. CAHN, Ascending to and Descending from Heaven:
Ladder Themes in Early Medieval Art, in «Santi e demoni nell'alto medioevo occidentale (secoli V-XI), Spoleto, Centro Italiano di
Studi sull'Alto Medioevo, 1989, pp. 697-724.
16
Secondo l’eccelso studio di E. AUERBACH, Figura, in «Studi su Dante», Milano, Feltrinelli, 1963, pp.176-226.
9
Et quoniam, ubi quis ceciderit, necesse habet ibidem recumbere, nisi apponat quis et adiiciat, ut
resurgat; non potuit anima nostra perfecte ab his sensibilibus relevari ad contuitum sui et aeternae
Veritatis in se ipsa, nisi Veritas, assumpta forma humana in Christo, fieret sibi scala reparans priorem
scalam, quae fracta fuerat in Adam. Ideo, quantumcumque sit illuminatus quis lumine naturae et
scientiae acquisitae, non potest intrare in se, ut in se ipso delectetur in Domino, nisi mediante Christo,
qui dicit: Ego sum ostium. Per me si quis introierit, salvabitur et ingredietur et egredietur et pascua
17
inveniet.
18
Ma nel passo troviamo, accanto all’accostamento Cristo-porta, anche un altro elemento
significativo: la scala (e con essa il Redentore) esprime soprattutto il costante rapporto fra
terreno e celeste, oscurità e luce, morte e vita, uomo e Dio. Il concetto è radicato in tutto
l’Occidente, e già ancor prima del Medioevo, trovando radici in un altro passo biblico, nel libro
della Cristianità per eccellenza: il Vangelo. Giovanni evangelista ha in mente proprio la scala di
Giacobbe quando riporta le parole di Cristo:
et dicit ei amen amen dico vobis videbitis caelum apertum et angelos Dei ascendentes et
19
descendentes supra Filium hominis.
Lo stesso evangelista, raccontando nel capitolo terzo l’incontro fra Gesù e Nicodemo,
fornisce un’ulteriore dato quando, giunti a considerare la possibilità di rinascere nello spirito,
scrive:
20
et nemo ascendit in caelum nisi qui descendit de caelo Filius hominis qui est in caelo.
Di nuovo il riferimento alla scala di Giacobbe è evidente. Ma merita ancor più attenzione il
fatto che da essa l’apostolo «elimina il lato materiale prefigurante, ante litteram o profetico, la
scala, assimilata ormai alla croce medesima di Cristo, e ne evidenzia gli effetti di comunione e
21
visione mistica in quel salire e scendere degli angeli sul «Figlio dell’uomo»*…+». “Salire e
scendere su una scala”: esiste una metafora migliore per descrivere un concetto tanto astratto
come il rapporto fra l’uomo e Dio? Certamente i mistici e i neoplatonici diedero grande
17
BONAVENTURA DA BAGNOREA, Itinerarium mentis in Deum, IV, 2. In Itinerario della mente verso Dio, a cura di M. Parodi e
M. Rossini, Milano, Rizzoli, 1994; cit. a p. 132.
18
Cfr. RICCARDO DI SAN VITTORE, Benjamin maior, III: «Haec porta, haec scala, hic introitus, iste ascensus, hac intratur ad
intima, hac elevamur ad summa, haec via ad hujus speculationis fastigium, haec fabricandi propitiatorii artificium, haec ars
absque dubio per quam cordis munditiam recuperatur, recuperata servatur»; in RICHARD VON ST. VICTOR, De contemplatione
[Benjamin maior], a cura di M.-A. Aris. Appendice a M.-A. ARIS, Contemplatio. Philosophische Studien zum Traktat Benjamin
maior des Richard von St. Victor, Frankfurt am Main 1996, cit. a p. 59.
19
Gv. I, 51. Biblia Sacra iuxta vulgatam versionem; corsivi miei.
20
Gv. III, 13. Biblia Sacra iuxta vulgatam versionem.
21
C. DI FONZO, «La dolce donna dietro a lor mi pinse/ con un sol cenno su per quella scala» (Par. XXII, 100-101), in «Studi
Danteschi», vol CXIII (1991), pp. 141- 175, cit. a p. 142.
10
importanza a questa potente immagine, che quasi sempre viene menzionata o discussa nelle
loro speculationes contemplationis. Gli autori cristiani citati qui sotto, tra i più famosi del XII, XIII
e XIV secolo, possono fornire alcune prospettive fondamentali per capire l’ideologia della terza
Cantica, e svolgono un ruolo altrettanto determinante, come vedremo, per il cielo degli spiriti
22
contemplanti. Vediamo infatti che nei massimi trattati sulla contemplazione appare
indispensabile rifarsi alla scala di Giacobbe:
«Nonne hanc gratia videtur acceppasse qui angelos ascendente set descendentes meruit videre et
23
Dominum innixum scale? Unde et dicit: Vidi Dominum facie ad faciem et salva facta est anima mea»
«Vidit Iacob in scala angelos ascendentes et descendentes: nunquid stantem quempiam, sive
sedentem? Non est stare omnino in pendulo fragilis scalae, neque in incerto huius mortalis vitae
quidquam in eodem statu permanet. NON HABEMUS HIC MANENTEM CIVITATEM, nec futuram adhuc
possidemus, sed inquirimus. Aut ascendas necesse est, aut descendas: si attentas stare, ruas necesse
est. Minime pro certo est bonus, qui melior esse non vult, et ubi incipis nolle fieri melior, ibi desinis
24
etiam esse bonus.»
« Videtur quod vita contemplativa, secundum statum huius vitae, possit pertingere ad visionem
divinae essentiae. Quia, ut habetur Gen. XXXII, Iacob dixit, vidi Deum facie ad faciem, et salva facta est
anima mea. Sed visio faciei est visio divinae essentiae. Ergo videtur quod aliquis per contemplationem in
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praesenti vita possit se extendere ad videndum Deum per essentiam.»
1.2. Il suono, la luce, il calore e le ali della scala di Giacobbe
Parleremo ora di una serie di tematiche che ricorrono nei due canti in questione, anch’esse
volte a unirli e a dargli coerenza, sia facendo da sottofondo e contribuendo alla particolare
atmosfera di cui abbiamo appena parlato, sia intervenendo apertamente nel racconto,
fin’anche a determinarlo. Ciò che più mi preme di dimostrare in questo paragrafo è
22
Altrettanto importanti sono le fonti monastiche (soprattutto, certamente non è un caso, quelle di ambito benedettino). Per
fare un esempio, cfr. PIER DAMIANI, Dominus Vobiscum, caput XIX Laus eremiticae vitae, 238, PL. CXLV, coll. 248-249: «Tu scala
illa Jacob [...], quae homines vehis ad coelum, et angelos ad humanum deponis auxilium. Tu via aurea, quae homines reducis ad
patriam. Tu stadium, quod bene currentes provehis ad coronam. O vita eremitica, balneum animarum, mors criminum,
purgatorium sordidum [...]». Dunque la scala è anche il simbolo della vita eremitica.
23
RICCARDO DI SAN VITTORE, De quatuor gradi bus violentae caritatis, XXXIV. In Ibid., I quattro gradi della violenta carità, a
cura di M. Sanson, Parma, Pratiche, 1993, cit. a p. 124.
24
BERNARDO DI CHIARAVALLE, Lettera 91 Agli abati radunati a Soissons, in Opere di San Bernardo, VI/1 Lettere, 1-210,
traduzione italiana di ETTORE PARATORE, commento di F. Gastaldelli, Milano, Fondazione di Studi Cistercensi, 1986, p.452-53.
25
TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II, II, CLXXX, 5.1. In Summa theologiae, a cura di mons. P. Gianolio, Milano,
Edizioni paoline, 1988; cit. a p. 1785.
11