7
La pubblicità, dunque, deve molto all‟arte, in quanto si è avvalsa
dell‟esperienza artistica di grandi personaggi, trovando in questi sempre
nuove fonti di ispirazione e risorse creative che le hanno permesso di
superare il periodo della sua “infanzia” e avviare quel processo di
professionalizzazione che si concluderà dopo la seconda guerra mondiale
e che darà vita al mondo della pubblicità moderna che noi tutti oggi
conosciamo.
Dunque, agli albori degli anni ‟50 del secolo scorso in tutto il mondo
occidentale il settore della pubblicità era ormai ben delineato e
strutturato in forme autonome. Nei maggiori paesi industrializzati
potevano contarsi decine di agenzie di comunicazione – soprattutto in
America, le cui agenzie fecero da scuola alle altre sparse in giro per il
mondo – al cui interno lavoravano persone qualificate che si dedicavano
esclusivamente a quest‟attività, pur non appartenendo al mondo dell‟arte.
Sorsero inoltre i Sindacati di settore e le scuole professionali, attraverso
le quali venivano tramandate in poco tempo tutte le conoscenze tecniche
che i primi pubblicitari avevano acquisito in tanti anni di esperienza.
Secondo alcuni studiosi del settore è proprio in questa fase che la
pubblicità, forte della sua espansione e del suo sviluppo professionale,
iniziò a discostarsi dall‟arte. La réclame, una volta acquisite le lezioni
delle correnti artistiche – come nel caso del Surrealismo, dal quale si
imparò a rivolgere l‟attenzione sulle forze irrazionali della nostra
coscienza e a far leva sulla sfera sessuale per persuadere con maggior
efficienza il pubblico – incominciava da sola ad esplorare nuovi orizzonti
ed a sperimentare autonomamente nuovi linguaggi grafici.
Questo elaborato tende a rovesciare tale punto di vista, o per lo meno a
integrarlo con la constatazione e la convinzione che la pubblicità di fatto
abbia continuato a guardare all‟arte e a subirne l‟influenza sino ai giorni
nostri.
8
Ci sono molti manifesti pubblicitari contemporanei che rivelano
l‟influenza delle avanguardie artistiche del secolo scorso ed in
particolare del Surrealismo, dal quale, si prendono spesso come modelli i
tanto apprezzati dal pubblico Dalì e Magritte. Ovviamente si parla solo
di “influenza” e in alcun caso, citando il Surrealismo, i manifesti
possono definirsi surrealisti. Questi, perseguendo esclusivamente un
obiettivo commerciale, mancano di finalità culturali ed ideologiche;
tuttavia in molti casi vi è un‟evidente ripresa di alcuni modelli storico-
artistici, che non può essere negata.
Quindi in questo lavoro, partendo dalle origini, arriveremo ad
analizzare la forma attuale della pubblicità, soffermandoci su quella che
sfrutta il canale rappresentato dai manifesti, in tutte le sue dimensioni.
Cercheremo poi di dimostrare il rapporto attualmente esistente tra arte e
pubblicità ed in ultima analisi proveremo ad interrogarci sulle
motivazioni che hanno permesso a tale rapporto di rimanere vivo e
costante nel tempo, ancora oggi nel nuovo millennio.
9
CAPITOLO I
Le origini della Pubblicità
I.1 – Dal giornale al manifesto
Dare una definizione unica di pubblicità non è così semplice come si
potrebbe pensare, in quanto questa riguarda molteplici aspetti della
società e della vita dell‟uomo, da quello sociologico a quello linguistico,
da quello economico a quello giuridico. Per questo motivo, a seconda del
settore di riferimento, troviamo diverse definizioni di pubblicità, anche
se oggi, con tale termine, si tende a riferirsi comunemente alla pubblicità
commerciale. In quest‟ambito, per pubblicità si intende l‟insieme delle
iniziative che mirano a favorire e a stimolare le vendite di un‟impresa,
raggiungendo il maggior numero di potenziali clienti mediante forme di
comunicazione impersonale.
Una definizione forse più esaustiva è quella proposta da Alberto
Abruzzese e Fausto Colombo: la pubblicità è una «pratica sociale volta
all‟esibizione di contenuti simbolici, con funzioni di persuasione o di
socializzazione, solitamente realizzata nel contesto di un più vasto
scambio di stampo economico e/o comunicativo»1.
Per ritrovare le origini di questo tipo di pubblicità dobbiamo fare un
passo indietro nel tempo sino a giungere al Seicento, quando già la
stampa, sia periodica che quotidiana, era ampiamente diffusa in tutti i
1A. ABRUZZESE – F. COLOMBO, Dizionario della pubblicità. Storia, tecniche, personaggi,
Milano, Zanichelli, 1994.
10
Paesi europei. Fu infatti attraverso la stampa che in quel periodo iniziò la
pratica della pubblicità commerciale, attraverso avvisi e piccole
inserzioni che in genere erano gratuiti e, anche quando soggetti a tariffe,
non venivano ancora considerati una fonte di sostentamento, ma
piuttosto un servizio reso ai lettori.
In Francia, il primo direttore a decidere di pubblicare annunci a
pagamento, intorno al 1630, fu Théophraste Renaudot sulla sua «Gazette
de France»2. La scelta di Renaudot per i suoi tempi fu molto azzardata e
infatti fu soggetta a molte critiche da parte degli altri appartenenti al
settore, tanto che alcuni giornali evitarono di pubblicare questo genere di
annunci rinunciando così ad ulteriori introiti. In particolare sia i
giornalisti che i direttori di giornale ritenevano che gli annunci a
pagamento potessero influenzare la libertà di stampa spesso evocata e
per la quale si erano combattute tante battaglie. I diffidenti, in ogni caso,
mostrarono un fiuto incredibile nel cogliere il probabile pericolo che la
pubblicità tutt‟oggi rappresenta per la stampa e per tutto il mondo
dell‟informazione.
L‟azione di Renaudot mostrò che la stampa ancora non era preparata
ad aprirsi alla pubblicità, tant‟è che a distanza di due secoli un gesto
simile al suo avrebbe suscitato altrettanto scalpore.
Infatti, alla metà dell‟Ottocento il direttore della «Presse», Emile de
Girardin, con l‟intento di diminuire il prezzo di vendita del giornale per
renderlo accessibile anche alle fasce meno abbienti e di conseguenza per
aumentarne la diffusione, dedicò l‟intera quarta pagina agli annunci a
pagamento. Anche in questo caso, appunto, non mancarono le critiche
dei colleghi e una di queste fu la causa di un aspro dibattito tra Girardin e
lo scrittore e giornalista Armand Carrel. Tale scontro si risolse nel 1836
2Cfr. A. LANCELLOTTI, Storia aneddotica della reclame, Milano, Quintieri, 1912, p.
24.
11
con un duello alla pistola nel bosco di Vincennes, in cui fu Carrel ad
avere la peggio3.
La réclame ha avuto un percorso piuttosto lungo anche in Inghilterra,
ove la stampa era altrettanto diffusa. Qui il primo giornale ad aprire le
porte alla pubblicità fu un foglio di Londra del 1631, il «Mercurius
Britannicus», seguito dalla «London Gazzette» che nel 1666 usciva con
un supplemento interamente dedicato alla pubblicità. In precedenza era
già uscito il «The Public Advertiser», sul quale il 22 giugno 1657 si
leggeva: «In Bishopgate Street, a Queen‟s Head Alley, è in vendita una
eccellente bibita proveniente dalle Indie, chiamata cioccolata»4.
Questo avviso rispecchiava fedelmente tutti gli altri annunci
dell‟epoca, i quali erano costituiti da un lungo testo argomentativo, in
genere non accompagnato da immagini, che riguardava soprattutto la
possibilità di realizzare affari, compravendite, locazioni, mentre più
raramente venivano pubblicizzati libri, prodotti farmaceutici o di altro
genere.
Si dovrà aspettare il secolo nuovo per una diffusione sempre più
completa degli annunci, che inizieranno a contemplare tutti i generi di
prodotto ed aumenteranno notevolmente di numero su tutti i quotidiani e
periodici.
Per quel che riguarda la situazione italiana, invece, si deve attendere il
1691 per vedere il primo avviso pubblicitario pubblicato su un giornale.
Si trattava del «Protogiornale Veneto Perpetuo» che reclamizzava le
«virtù ammirabili dell‟Acqua della Regina d‟Ongaria, fabbricata dal Sig.
Niquaquert, profumiere del Sig. Duca d‟Orléans»5.
3Cfr. G. FARINELLI, Storia del giornalismo italiano. Dalle origini ai giorni nostri, Torino,
Utet libreria,1997.
4A.TESTA, La pubblicità, Bologna, Il Mulino, 2007, p.47.
5M.TROTTA, La pubblicità, Napoli, Ellissi, 2002, p.39.
12
Già sul finire del Settecento vi era un‟enorme quantità di messaggi
pubblicitari indirizzati al pubblico. Questi erano infatti in continua
espansione, nonostante in molti paesi vi fosse una tassa da pagare per la
pubblicazione. Nel 1758 lo scrittore inglese Samuel Johnson a questo
proposito scrisse:
gli annunci pubblicitari sono oggi così numerosi che sono letti con
molta negligenza ed è perciò necessario conquistare l‟attenzione
con magnificenza di promesse e con eloquenza talvolta sublime e
talvolta penosa6.
I pubblicitari, quindi, si trovavano a dover contrastare l‟affollamento di
messaggi utilizzando mezzi ed espedienti atti a rendere visibile la propria
inserzione.
Ma è sul finire di questo secolo che vi sarà la definitiva affermazione
della pubblicità, agevolata dall‟ascesa dell‟industria, che farà dello
strumento pubblicitario un fondamento vitale.
Con il nuovo secolo altri decisivi avvenimenti agevolarono lo sviluppo
della réclame, in primis l‟abolizione della tassa per la pubblicazione
degli avvisi, approvata nel 1831 in Francia e due anni più tardi in
Inghilterra.
Allo stesso tempo sul versante tecnologico si registrarono ulteriori
sviluppi: con la messa a punto del procedimento litografico si poteva
finalmente stampare in grande formato. Tale invenzione permise la
diffusione di manifesti che iniziarono ad essere usati con scopo
pubblicitario soprattutto in Francia la quale dimostrò ancora, così
com‟era accaduto per le inserzioni, di essere all‟avanguardia.
6
Ibidem.
13
Per l‟evoluzione della pubblicità la nascita del manifesto è stata una
tappa fondamentale, in quanto avvalersi di questo canale per
pubblicizzarsi significava rivolgersi nello stesso momento a una quantità
enorme di persone e soprattutto anche a chi, essendo analfabeta, non
leggeva gli avvisi sui vari giornali. Cambiava strutturalmente anche la
modalità di costruzione del messaggio pubblicitario, che si basava per la
maggior parte sulla grafica dell‟immagine e metteva il più delle volte le
«scritte» in secondo piano. La pubblicità non più costituita da poche
righe, richiedeva ora per la sua realizzazione la mano esperta di un
illustratore.
È sempre in Francia che si distinsero i primi celebri illustratori, che
grazie al loro apporto creativo elevarono tale forma di pubblicità alla più
alta dignità estetica e per questo furono ritenuti i padri del manifesto:
l‟illustratore Jules Chéret e l‟artista postimpressionista Henri de
Toulouse-Lautrec.
Mentre i muri delle città, colorandosi e riempiendosi di manifesti,
divenivano un‟enorme vetrina, il governo francese ben presto
regolamentò le modalità di affissione: la legge Le Chapelier del 1791
obbligava ad usare carte colorate, perché la stampa in nero su carta
bianca, evidentemente considerata più seria, era riservata al governo e al
municipio7. Una successiva legge del 1818 imponeva l‟obbligo della
timbratura per tutti i manifesti.
Il manifesto italiano come mezzo pubblicitario fu tenuto a battesimo da
Antonio Montòrfano, dai fratelli Mele e da Giulio Ricordi. Montòrfano
era stato un pioniere: con pronta intuizione, nel 1872, sei anni dopo
Chéret, aveva aperto a Milano la Tipografia Economica e a Genova, nel
1881, l‟Impresa di Affissioni. Undici anni dopo, quest‟ultima si fuse con
7Cfr. G. FALABRINO, Effimera e bella. Storia della pubblicità italiana, Milano, Silvana
Editoriale, 2001, pp. 56-57.
14
la società di Giovanni Valcarenghi, dando vita alla milanese Impresa
Generale Affissioni Pubblicitarie (IGAP), tuttora all‟opera.
Tutto ciò sembrerebbe una conferma del fatto che la pubblicità italiana
sia «milanocentrica»: ma non si deve dimenticare che la prima assidua
cliente dei manifesti, a partire dal 1889, è stata un‟azienda napoletana,
attiva dal 1875 al 1915, i grandi magazzini E.A. e C. Mele. La loro
pubblicità, modesta agli inizi, quando era eseguita e stampata da oscuri
artigiani di Napoli, divenne di grande qualità dopo che, nel 1895, i Mele
fecero un accordo con la Ricordi. Da allora lavorarono per i grandi
magazzini napoletani i primi celebri realizzatori di manifesti:
Metlicovitz, Terzi, Villa, Malerba, Laskoff, Sacchetti, Dudovich e
Cappiello8.
Le strette relazioni fra industria e artisti furono una costante nella
réclame italiana dell‟anteguerra, anche se il rapporto fra Campari e
Depero costituì un caso per certi versi estremo, vista la totale
connessione fra i due soggetti nell‟arco di almeno un decennio. Oltre alla
Campari, anche Olivetti, Cinzano, Borsalino, Ferrania, La Rinascente,
Martini&Rossi – per ricordarne alcune – legarono il proprio marchio al
lavoro degli artisti, finanziandone in toto o in parte l‟attività in cambio di
creatività per i propri prodotti.
Nel 1919 vi fu la nascita «ufficiale» dello slogan pubblicitario. In
precedenza lo slogan era stato usato rare volte e senza peraltro che ad
esso fosse riconosciuta particolare importanza, ma in quell‟anno Luigi
Dal Monte Casoni istituì un concorso a premi, - diecimila lire il
montepremi totale - per uno slogan per il dentifricio KaliKlor9: un
concorso che, oltre a essere uno stratagemma pubblicitario, serviva a
8Cfr. M. PICONE PETRUSA (a cura di), I manifesti Mele. Immagini aristocratiche della
Belle Époque per un pubblico di Grandi Magazzini, Roma, De Luca, 1988.
9Cfr. A. VALERI, Pubblicità italiana: storia, protagonisti e tendenze di cento anni di
comunicazione, Milano, Il Sole 24 ore, p. 56.
15
trovare la frase adatta a promuovere, appunto, il dentifricio Kaliklor, un
prodotto della profumeria Rimmel di Vermondo Valli dove in quel
periodo Dal Monte era capo dell‟ufficio pubblicità. A vincere fu la frase
«A dir le mie virtù basta il sorriso», coniata dal signor Adriano
Mirandoli di Roma e che fu utilizzata per promuovere il prodotto per
oltre vent‟anni, entrando a tutti gli effetti nel gergo comune.
Dal Monte in quegli anni divenne una figura di primo piano nel
panorama pubblicitario italiano. Dopo infatti aver tenuto a battesimo la
nascita dello slogan, nel 1922 avviò sul modello delle agenzie americane
la prima vera agenzia di pubblicità italiana: «La Acme Dal Monte»10.
Questo fu solo il primo passo verso una trasformazione definitiva del
mondo della réclame italiana. Dopo i primi anni di vita questo settore
conobbe infatti un‟espansione sempre maggiore, che andava di pari
passo con la crescente professionalizzazione degli «addetti ai lavori».
Non a caso, sempre nel 1922 la Camera di commercio di Milano si fece
carico dell‟esigenza di molti pubblicitari, cioè quella di trasmettere in
poco tempo alle giovani figure professionali ciò che loro avevano
imparato in anni di esperienza, promuovendo il primo corso serale di
pubblicità, diretto dal professore Filippo Ravizza e tra i cui insegnanti
spuntava anche il nome di Luigi Dal Monte Casoni.
La pubblicità italiana continuava a guardare con sempre maggiore
interesse allo sviluppo dell‟organizzazione dei pubblicitari negli altri
paesi. Dall‟osservazione dei modelli organizzativi esteri venne la spinta
alla costituzione anche in Italia, nel 1924, di un‟associazione fra
pubblicitari, il «Sindacato nazionale pubblicitario»11 il cui organo
d‟espressione era la rivista «La Pubblicità», diretto da Luigi Cusmano.
10Cfr. Ibidem.
11Cfr. Ivi, pp. 59-60.