6
tutti gli orientamenti giuridici il primo intervento dello Stato in materia di
lavoro.
In Italia, il primo rilevante esempio di legislazione sociale – intesa
come l’intervento dello Stato nella contrattazione privata e nella pratica dei
rapporti tra imprenditori e operai – è la legge n. 3657, dell’11 febbraio 1886,
sul lavoro dei fanciulli negli opifici, nelle cave e nelle miniere.
La legge del 1886 (integrata dal regolamento di attuazione) fissava a
nove anni l’età di ammissione al lavoro, proibiva il lavoro notturno solo per i
minorenni di dodici anni e regolava il lavoro delle donne negli opifici.
Questa legge (che dal nome del suo presentatore prese il nome di legge
Berti), di fatto, non trovò applicazione per la mancanza dei necessari
presupposti economici e politici.
La situazione politico–sociale favorevole a un più intenso intervento
dello Stato a tutela della classe lavoratrice maturò in Italia solo all’inizio del
secolo ventesimo con l’organizzazione di adeguate associazioni sindacali e con
l’affermarsi sempre più deciso di partiti politici permeati di principi sociali
ispirati alle concezioni proprie del cattolicesimo progressista dell’enciclica
Rerum Novarum e del socialismo laico
2
.
Si ebbe così innanzi tutto la legge n. 242, del 19 giugno 1902 (che entrò
2
R., CORRADO, Lavoro dei minorenni e delle donne, UTET, 1969, vol. XI, pp. 73, 80.
7
in vigore l’anno successivo, nel luglio del 1903), nota come legge Carcano, dal
nome del ministro proponente.
La legge realizzò una notevole conquista sociale, attuando una
disciplina elementare, ma esauriente e nel complesso evoluta, la quale, con
lievi modifiche, fu applicata fino al 1936. Fissava a dodici anni il limite
minimo d’età per l’ammissione al lavoro dei fanciulli; vietava ai minori di
quindici anni i lavori che una commissione governativa avrebbe ritenuto
pericolosi e insalubri. Per le donne di qualsiasi età vietava i lavori sotterranei, e
fissava a dodici ore giornaliere (con un intervallo di due ore, rimasto però
teorico) l’orario massimo di lavoro. Il lavoro notturno era vietato solo alle
donne minorenni. L’unica novità di rilievo della legge Carcano fu di aver posto
il problema del congedo di maternità, stabilendo che le puerpere non potessero
essere impiegate al lavoro se non dopo trascorse quattro settimane dal parto
(ma, «in via del tutto eccezionale», anche prima). Nessun riferimento, invece,
era fatto al periodo precedente il parto.
Soltanto più tardi, con la legge n. 520, del 17 luglio 1910, fu istituita
una “Cassa di maternità”, con sede in Roma, amministrata dalla Cassa
nazionale di previdenza, al fine di favorire un sussidio alle puerpere nel
periodo di assenza dal lavoro avente carattere di elargizione assistenziale
8
fissata in cifra predeterminata e non ragguagliata al salario
3
.
La legge n. 242, del 19 giugno 1902, realizzò una notevole conquista
sociale, attuando una disciplina elementare, ma esauriente e, nel complesso,
evoluta, la quale, con lievi modifiche, fu applicata fino al 1936
4
.
Tale legge fu modificata con la successiva n. 416, del 7 luglio 1907, e le
disposizioni di entrambe furono raccolte e coordinate nel testo unico approvato
con R.D. 10 novembre 1907, n. 181. Contemporaneamente, nel titolo IV del
T.U. delle leggi sanitarie, approvato con R.D. 1° agosto 1907, n. 635,
modificato con legge n. 487, del 17 luglio 1910, e completato con il reg. 29
marzo 1908, n. 157, fu disciplinato un importante settore del lavoro femminile,
e cioè il lavoro nelle risaie.
In seguito la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli fu integrata da
norme contenute, con carattere di complementarità, in leggi indirizzate a fini
diversi di tutela sociale. Ricordiamo, tra le più importanti, il R.D. 14 aprile
1927, n. 530, approvante il reg. generale per l’igiene del lavoro (artt. 34, 35 e
39); la legge n. 312, del 24 marzo 1921, recante provvedimenti in favore della
pesca e dei pescatori (artt. 12 e 19); la legge n. 314, del 3 marzo 1912, che
rende esecutivo l’accordo 15 giugno 1910 per la protezione dei giovani operai
3
M. V., BALLESTRERO, Occupazione femminile e legislazione sociale, in Riv. Giur. Lav.,
1976, I, p. 647 sgg.
4
Per un’ampia ricognizione di tale legge, M. L., DE CRISTOFARO, Tutela e/o parità ? le
leggi sul lavoro femminile tra protezione e uguaglianza, Cacucci Editore, 1979, p. 43 sgg.
9
italiani in Francia e dei giovani operai francesi in Italia; il R.D.L. 13 novembre
1924, n. 1825, sul contratto di impiego privato (art. 6); il T.U. delle leggi di
pubblica sicurezza 6 novembre 1926, n. 1848 (artt. 74, 76 e 123); la legge n.
370, del 22 febbraio 1934, sul riposo domenicale e settimanale (art. 4)
5
.
In occasione del primo conflitto mondiale si dovette provvedere alla
sospensione di numerose delle succitate disposizioni, in quanto
l’allontanamento degli uomini – impegnati nelle attività belliche –, dalle
fabbriche, dai campi, dagli uffici, rendeva necessaria la massima utilizzazione
della manodopera femminile in sostituzione del personale maschile. Così, fra
gli altri provvedimenti, il R.D.L. 30 agosto 1914, n. 925, convertito nella legge
n. 529, dell’1 aprile 1917, sospendeva sia pure «temporaneamente» il divieto
del lavoro notturno, in presenza di «lavori da eseguire nell’interesse diretto
dello Stato, o per altre assolute esigenze di interesse pubblico».
Con il D.L.lgt. 6 agosto 1916, n. 1136, sostitutivo del precedente
regolamento per l’esecuzione della legge a tutela del lavoro femminile e
minorile, le donne furono ammesse a svolgere lavori anche pesanti e nocivi,
prima esclusi dal T.U. del 1907 e furono perfino «militarizzate», in quanto
addette alla produzione di materiale bellico, naturalmente sempre continuando
5
F., GUIDOTTI, Il lavoro delle donne e dei fanciulli e la tutela delle lavoratrici madri, in
Trattato di Diritto del Lavoro diretto da Borsi e Pergolesi, Cedam, 1959 3
a
ed., vol. III, p. 278.
10
a percepire retribuzioni inferiori di circa la metà rispetto ai salari maschili.
Della contingenza bellica approfittavano gli imprenditori per incrementare
senza scrupoli i propri profitti, intensificando nuovamente lo sfruttamento della
manodopera femminile
6
.
Alla fine della guerra, però, non tardò a riaffermarsi un certo
pregiudizio di inferiorità nei confronti delle donne e lo dimostra la legge n.
1176, del 17 luglio 1919, recante “Disposizioni sulla capacità giuridica della
donna” la quale, se da un lato sembrava favorire le donne, riconoscendo loro
una parziale capacità civile (si abrogò l’istituto della autorizzazione maritale e
quello delle limitazioni agli uffici tutelari), dall’altro lato sanciva il divieto di
impegnare personale femminile in tutti i lavori che implicassero poteri pubblici
e giurisdizionali, o l’esercizio di diritti e potestà politiche, quali ad esempio il
ruolo di prefetto, di magistrato, di ufficiale giudiziario, di personale di
cancelleria, di personale di segreteria presso il Consiglio di Stato e la Corte dei
Conti
7
. Si procedeva, cioè, ad estromettere la donna dall’esercizio di quelle
funzioni pubbliche alle quali era annessa la dignità di “grande ufficiale” dello
Stato e, di conseguenza, ad emarginarla anche nell’ambito dell’impiego
pubblico, individuando su base normativa quelle attività e quelle mansioni
6
M. L., DE CRISTOFARO, Tutela e/o parità ? le leggi sul lavoro femminile tra protezione e
uguaglianza, Cacucci Editore, 1979, pp. 92 e 93.
7
A., GRECCHI, Pari opportunità il diritto e la cultura, Franco Angeli, 1996 2
a
ed., p. 35 sgg.
11
“tipicamente femminili” o “maschili”, che avrebbero contrassegnato in seguito
i ruoli professionali per sesso, relegando le donne nei settori meno redditizi,
nonché in quelli più soggetti a crisi di produzione.
A livello internazionale accadono due avvenimenti importanti anche per
la questione del lavoro femminile: la nascita della III
a
Internazionale e la
creazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.
Con la nascita nel 1919 della III
a
Internazionale – il Comintern come fu
chiamata – si ebbe un risveglio egualitario: contro l’emarginazione femminile
si attribuì un’enorme importanza al ruolo sociale e politico della donna.
Anche l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, fondata nel 1919,
mostrò, fin dall’inizio della sua attività, grande interesse e sensibilità per i
problemi del lavoro femminile. Suo obiettivo principale era l’abolizione
proprio di quelle discriminazioni che colpivano la donna sul lavoro. L’attività
dell’OIL, inizialmente, fu però molto “protezionista” nei confronti del lavoro
femminile, circondando la lavoratrice di speciali garanzie, a causa della
affermata sua debolezza fisica e psichica, nonché a tutela della sua attuale o
potenziale funzione materna. Infatti, le prime Convenzioni, la n. 3 e la n. 4 del
1919, furono dirette, l’una a proteggere la maternità, l’altra a proibire il lavoro
notturno delle donne nell’industria, mentre la Raccomandazione n. 4 era diretta
alla protezione delle donne e dei fanciulli contro il saturnismo. Tale iniziale
12
posizione non mancò di suscitare ben presto polemiche ed opposizioni. Perciò
l’OIL si impegnò, contemporaneamente, a proteggere la donna dagli abusi di
cui può essere vittima sul lavoro e a tutelare la maternità, ma altresì ad
affermare il principio e raggiungere in pratica l’obiettivo della parità salariale e
dell’uguaglianza professionale dei sessi, onde rendere più facile e promuovere
l’inserimento delle donne sul mercato del lavoro in parità con l’uomo. Solo
molto più tardi, nel 1951, sarà possibile adottare quei provvedimenti
comunitari
8
necessari a garantire «l’uguaglianza di retribuzione fra
manodopera maschile e manodopera femminile per un lavoro di valore uguale»
in quanto, anche a livello internazionale, incontrava minori difficoltà
l’adozione di misure tendenti a proteggere la lavoratrice, specie in caso di
maternità che non l’affermazione del principio della parità salariale, senza
distinzione di sesso, per un uguale lavoro.
In Italia si preferì proseguire sulla strada del protezionismo, che poneva
in risalto la specifica funzione della donna nella famiglia e nella società, in
tanto che, attraverso inibizioni, divieti, preclusioni legali e di costume, si
accentuavano le discriminazioni nei confronti delle donne negando loro il
diritto alle stesse libertà e alle stesse prospettive degli uomini.
9
8
La Convenzione n. 100, adottata a Ginevra il 29 giugno 1951, durante la 34
a
sessione
dell’OIL, ratificata con la legge 22 marzo 1956, n. 741, e la Raccomandazione n. 90 emanata a
completamento della stessa.
9
M. L., DE CRISTOFARO, op. cit., p. 101 sgg.
13
Negli anni che vanno dal 1922 al 1943, la condizione del lavoro
femminile fu inevitabilmente subordinata alle scelte operate dagli esponenti del
regime fascista.
La legislazione fascista in materia di diritti e doveri della donna è stata,
da un punto di vista quantitativo, veramente imponente. Mai, prima di quel
momento, erano state emanate, in Italia, tante leggi concernenti la condizione
femminile: a partire dalle cosiddette “leggi demografiche” (che oltre a
prevedere premi di nuzialità e natalità e tasse per i celibi, attribuivano alle
madri più prolifiche, medaglie e riconoscimenti), sino ad arrivare a quella che
fu definita “legislazione protettiva” poiché tesa a proteggere la lavoratrice in
considerazione del suo ruolo materno.
Occorre tuttavia precisare che, nell’ambito delle misure protettive
approntate durante il ventennio fascista, ve ne sono state alcune alle quali va
riconosciuto il merito di aver notevolmente migliorato la tutela della
lavoratrice, permettendole di svolgere contemporaneamente e con maggiori
garanzie anche il ruolo di madre e di moglie. Ne costituiscono un esempio la
legge n. 2277, del 10 dicembre 1925, con la quale fu istituita l’O.N.M.I.
(Organizzazione Nazionale per la Maternità e l’Infanzia), avente ampie
competenze in materia di tutela della maternità e dell’infanzia e con il compito
di vigilare sulla effettiva applicazione della normativa vigente in tema di lavoro
14
femminile; e la legge n. 1347, del 15 luglio 1934, “Disposizioni sulle
lavoratrici madri”, con la quale fu stabilito un periodo di astensione
obbligatoria a partire da un mese prima della data presunta del parto, fino al
termine delle sei settimane successive, garantendo il diritto alla conservazione
del posto di lavoro durante la gravidanza, nonché il diritto a due periodi di
riposo giornalieri per l’allattamento
10
.
Oltre ad introdurre specifiche tutele a favore della lavoratrice madre, la
legislazione “protettiva” del lavoro femminile le introduce anche a favore della
donna lavoratrice considerata quale soggetto in condizioni di debolezza fisio–
psichica. Sotto quest’ultimo profilo, il lavoro della donna è accomunato a
quello del minore e diventa oggetto di una serie di limitazioni intese a
disciplinarne il modo di esercizio.
Il riferimento alla legge n. 653, del 26 aprile 1934, entrata in vigore nel
1936 e modificata dalla successiva legge n. 1325, del 29 novembre 1961, è
d’obbligo.
La legge che è applicabile alle donne adibite ad un’attività lavorativa
subordinata, indipendentemente dalla esistenza di un vero e proprio contratto di
lavoro, ha attuato una razionale riforma delle norme di tutela del lavoro delle
donne e dei fanciulli.
10
A., GRECCHI, op. cit., p. 36 sgg.
15
Si tratta di una disciplina protettiva che pose il divieto di trasporto e
sollevamento pesi; il divieto di lavori notturni; limiti massimi di orario di
lavoro e previsione di riposi intermedi; il divieto di lavori pericolosi, faticosi e
insalubri specificati nelle tabelle A e B allegate al R.D. 7 agosto 1936, n. 1720.
Mentre nella tabella A di tale Regio Decreto sono elencate lavorazioni per le
quali è previsto un divieto assoluto di occupazione, nella tabella B sono
elencate lavorazioni alle quali le lavoratrici minorenni possono essere adibite in
seguito ad una valutazione positiva compiuta dall’ispettore medico del
lavoro
11
.
Si è spesso dato un giudizio severo alla legge n. 653 del 1934,
affermando che essa crea vincoli di rigidità nei confronti della manodopera
femminile e dunque ne disincentiva l’impiego
12
. In realtà la ratio della suddetta
disciplina non appare niente affatto sbagliata in quanto anche se con ritardo
risponde all’esigenza di evitare lo sfruttamento delle cosiddette “mezze forze di
lavoro” (donne e minori) tipico dell’inizio del processo di rivoluzione
industriale. Ciò che invece può dare adito a critiche è l’effetto di vischiosità di
tale legislazione, rimasta a lungo in vigore anche in un ambiente tecnologico
produttivo e sociale assai modificato, nel quale le esigenze di tutela della salute
11
F., SIRCHIA, Lavoro delle donne e dei fanciulli, in Nss. D. It., UTET, 1975, vol. IX, p. 553.
12
Per un’ampia analisi della legge, F., GUIDOTTI, op. cit., p. 271 sgg.
16
fisica e della integrità morale della donna appaiono per larghe parti superate
(quanto meno con riferimento alla “categoria donne”), mentre si fanno sempre
più pressanti le esigenze di parità di trattamento
13
.
Per l’importanza che hanno assunto (anche perché sono state leggi
vigenti per molto tempo dopo la caduta del fascismo), si può tener conto delle
sole leggi del 1934.
Due sono i tratti fondamentali di queste leggi:
– Il primo è l’accomunamento del lavoro delle donne al lavoro dei
fanciulli in una legislazione di ordine pubblico.
– Il secondo tratto fondamentale è la separazione delle lavoratrici madri
dalle altre, e la loro tutela ad opera di una legge di ordine pubblico (legge n.
1347, del 15 luglio 1934).
Oltre ad essere una legislazione “protettiva”, la legislazione fascista sul
lavoro delle donne fu anche “espulsiva”; come dimostrano le leggi di
estromissione prima dai pubblici impieghi, poi anche dall’impiego privato. I
principali provvedimenti in questo senso furono diretti a limitare e a
marginalizzare l’occupazione femminile nella pubblica amministrazione (R.D.
9 dicembre 1926, n. 2480, che escludeva le donne dall’insegnamento delle
materie letterarie, storiche e filosofiche nei licei e negli istituti tecnici; R.D. 28
13
L., GALANTINO, Diritto del lavoro, Giappichelli Editore, 1995 5
a
ed., p. 218.
17
novembre 1933, n. 1554, convertito in legge n. 221, del 18 gennaio 1934, che
autorizza le amministrazioni dello Stato a stabilire, nei bandi di concorso,
l’esclusione delle donne, ovvero i limiti entro cui l’assunzione di personale
femminile poteva avere effetto; il R.D. 3 marzo 1934, n. 383, che escludeva le
donne da una serie di pubblici uffici). Solo più tardi il regime impose la stessa
politica di estromissione delle lavoratrici anche agli imprenditori privati
(R.D.L. 15 ottobre 1938, n. 1514, che limitava l’assunzione delle donne negli
impieghi pubblici e privati al massimo del 10% dei posti)
14
.
Occorrerà attendere la fine della seconda guerra mondiale perché siano
ridati alle donne molti di quegli spazi che erano stati loro tolti. Con il R.D.L. n.
146 del 1944 e con il D.D.L n. 239 del 1945 verranno, infatti, abrogate le
disposizioni che limitavano l’accesso delle donne all’impiego per giungere, con
il D.D.L n. 23 del 1945, ad attribuire anche alle donne il diritto di voto.
Il momento di svolta è segnato dalla entrata in vigore della Costituzione
nel 1948.
Di fondamentale importanza, per il superamento di ogni disparità di
trattamento tra uomini e donne, sono i principi contenuti negli artt. 2 e 3: il
primo è volto a riconoscere ed a garantire la titolarità di una serie di diritti
inviolabili (che competono ad ogni persona per il fatto stesso di essere venuti
14
M. V., BALLESTRERO, op, cit., 657 sgg.
18
ad esistenza), grazie ai quali potrà attuarsi la piena espansione della
personalità, individuale e sociale di ognuno; il secondo, invece, proclama
l’uguaglianza – intesa come «pari dignità sociale» – di tutti i cittadini «davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua e religione». Inoltre il
legislatore è chiamato, dallo stesso art. 3 comma II, a rimuovere ogni ostacolo
che, di fatto, limiti la libertà e l’uguaglianza “sostanziale”, impedendo «il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Abbandonato il concetto di tutela del lavoratore, quale espressione di un
“favor” verso il contraente più debole, la Repubblica consacra la protezione del
lavoro quale diritto e dovere di tutti i cittadini e si impegna a promuovere le
condizioni che ne rendano effettivo il godimento (art. 4).
Il lavoro femminile non è certo sfuggito all’attenzione del costituente il
quale, attraverso le disposizioni contenute nell’art. 37, ha altresì cercato di
contemperare le due opposte esigenze della tutela del lavoro femminile e della
tutela della famiglia.
Per l’analisi più dettagliata dei suddetti e altri articoli si rimanda ai
successivi paragrafi.
Negli anni immediatamente successivi alla entrata in vigore della
Costituzione, il legislatore continuerà – in materia di lavoro femminile – ad
19
emanare norme di tipo “protettivo”, riconoscendo prioritario il ruolo familiare
e materno delle donne, rispetto al ruolo che la loro crescente presenza sul
mercato del lavoro andava via via assumendo. Qualcosa però iniziava a
cambiare e lo dimostra il fatto che, finalmente, si cominciava ad affrontare il
problema della tutela fisica ed economica della lavoratrice, mettendo in primo
piano l’interesse della donna al lavoro.
Con la legge n. 860, del 26 agosto 1950, intitolata “Norme sulla tutela
fisica ed economica delle lavoratrici madri” si conclude la vertenza sulla
riforma della legislazione a favore delle lavoratrici madri, poi sostituita dalla
legge n. 1204, del 30 dicembre 1971.
Notevoli ritardi, invece, il legislatore mostra nel realizzare la direttiva
costituzionale della parità di trattamento tra uomo e donna nel rapporto di
lavoro. Un primo passo in tal senso è costituito dalla legge n. 7, del 9 gennaio
1963, sul divieto di licenziamento delle lavoratrici a causa di matrimonio, vale
a dire a ben quindici anni di distanza dalla entrata in vigore dell’art. 37 della
Costituzione
15
.
Era infatti prassi vigente in molte imprese, sanzionata negli stessi
regolamenti aziendali, che il matrimonio della lavoratrice costituisse
automatica causa di risoluzione del contratto di lavoro.
15
A., GRECCHI, op. cit., p. 39 sgg.