II
individuo, appartenenza, comunità politica, doveri2, in ogni epoca sono retti
da un ordine che li “legalizza”.
Si poteva parlare di diritti nella società medievale e in quella antica?
Certamente non esisteva la cittadinanza ma un “ordine” diverso legato alla
cultura e alla società di quel tempo (Costa 1999). Ogni epoca ha la propria
“costruzione della cittadinanza”.
Voglio partire da questo concetto per far notare che oggi – come in
passato – ci sono cittadini di serie A e cittadini di serie B: la storia è piena di
esempi a tal proposito. Si pensi alla condizione degli schiavi, delle persone
di colore, delle donne e degli stranieri – presenti anche nel passato e già
soggetti ad argomentazioni su l’esclusione e/o l’inclusione dalla/nella città3.
Anche nella cittadinanza moderna i cittadini – e le cittadine – non godono
degli stessi diritti ma solo degli stessi doveri: parlo delle persone di
orientamento diverso da quello normativo eterosessuale. Su quale ordine e
quali criteri si basa la cittadinanza? Quali fattori contribuiscono in un suo
cambiamento temporale e culturale?
Per rispondere a queste ed altre domande inizierò (Cap. 1) parlando del
concetto di cittadinanza e della sua costruzione nella storia. La differenza
fra l’individuo e il cittadino: sono due entità distinte? E se si, cosa li
contraddistingue? Hobbes parlava, ad esempio, di persona naturale e
persona artificiale – che indossa le vesti del sovrano per mantenere
quell’ordine che esiste in natura (Costa, 1999; Mezzadra, 2004). Rousseau,
parlando di popolo, distingueva tra cittadini «[…] in quanto partecipano
dell’autorità sovrana[…]» e sudditi «[…] in quanto soggetti alle leggi dello
Stato» (Rousseau, 1997:23). Anche l’ordine antico (il giusnaturalismo)
valorizzava la figura dell’individuo. Qui subentra, però, un’ulteriore
distinzione: tra individuo e comunità. Il dibattito è sull’appartenenza: il
cittadino – e quindi gli oneri che comporta questo status – è colui che
appartiene alla comunità o è il singolo individuo? Ovviamente vi sono
periodi storici che valorizzano la comunità – si pensi alla civiltà medievale –
e altri l’individuo (giusnaturalismo). Ai periodi storici sono legate varie
2
Componenti base della cittadinanza (ivi)
3
Nella società medievale la cittadinanza combaciava con l’appartenenza alla città – intesa
come organizzazione politica e associativa fra gli individui (Costa, 1999).
III
figure di riferimento: si pensi ad Aristotele e alla sua creazione del cittadino
come membro della comunità a Bodin e anche Marshall – che valorizzavano
la figura della comunità. Hobbes, Locke e anche Rousseau - come figli del
giusnaturalismo - valorizzano lo stato naturale dell’individuo.
L’appartenenza è solo una delle facce della cittadinanza, status è un altro
criterio di “selezione” dell’appartenenza stessa per determinare esclusione e
inclusione al suo interno.
A chi veniva negata la cittadinanza? (Cap. 2) La prima figura alla quale tutti
siamo abituati a pensare è quella della donna – giustamente. E’ chiaro che
qui l’esclusione è stata fondata su una naturale e biologica inferiorità della
donna sull’uomo. Quest’ultimo forte e coraggioso, la prima debole ed
emotiva. Comte parlava della naturale diseguaglianza della società proprio
perché essa rispecchia la famiglia – gerarchia naturale. Consequenziale,
dunque, la suddivisione dei ruoli di genere nella famiglia – su cui si è basata
anche la costruzione del welfare stare soprattutto in Italia.
E la figura dell’uomo povero? Rientrando nello slogan “uomo, maschio,
bianco, adulto”, perché viene escluso? Locke, nella metà del 1600, scrisse:
«Se osserviamo bene la causa di questo male, possiamo umilmente
considerare che questa non debba essere trovata nella scarsità delle
provvigioni, né nella richiesta di lavoro per i poveri, giacchè la benevolenza
di Dio ha benedetto questa epoca con l’abbondanza […]. L’incremento dei
poveri deve dunque avere altre cause, le quali non possono che essere il
rilassamento della disciplina e la corruzione dei costumi; essendo da un
lato sempre insieme la virtù e l’industriosità, come dall’altro il vizio e la
pigrizia» (S. Mezzadra, 2005:72). Locke basa la centralità dell’individuo su
un nuovo ordine rispetto al passato – basato sul concetto di proprietà. Ci
devono essere delle regole che il sovrano deve far rispettare – con un
contratto sociale. I poveri non fanno parte di questo ordine anzi lo
minacciano.
La figura del povero richiama la nozione di ordine e fa sorgere la
seguente domanda: chi è chiamato a gestire questo ordine? Costant – nel
primo liberalismo – parla dello Stato come tutore dell’ordine (P. Costa,
1999). Ripercorrendo la storia dell’assistenza sociale europea, la figura del
povero rimanda alla questione tra Stato e Chiesa.
IV
La figura de povero e la figura della donna sono emblematiche per
riportare l’attenzione alla domanda iniziale della cultura come contorno e/o
ordine della cittadinanza e della sua costruzione.
L’orientamento sessuale, invece, costituisce uno status acquisito non
ancora accettato e riconosciuto. Chi sono gli omosessuali? Esiste una
definizione? E’ sempre esistita l’omosessualità e, se si, come hanno vissuto
gli omosessuali nelle varie epoche storiche – e in Italia in particolare?
Gli omosessuali sono sempre esistiti e darne una definizione non è
semplice – se vogliamo discostarci dagli stereotipi. Sicuramente in base ai
diversi Stati si è avuto un tipo di omosessualità – per quanto riguarda la
visibilità. In Italia, ad esempio, non vi erano leggi sull’omosessualità ma
non per una accettazione della stessa, anzi, per una omertà sulla questione.
Le ricerche condotte in Italia sull’argomento, purtroppo, sono poche e forse
anche limitate ad alcuni aspetti – nonché focalizzate sulla figura
dell’omosessuale e poco della lesbica. Il binomio normalità/anormalità fa da
sfondo alla questione dell’omosessualità di tutte le società.
Per questo motivo ho ritenuto opportuno partire da delle definizioni
basilari per arrivare a comprendere l’omosessualità (Cap. 3). Infatti, è la
poca conoscenza e la troppa confusione che fa ancora avere paura
dell’orientamento diverso da quello riconosciuto come “normale”. Partire
da concetti base come sesso, genere, identità di genere e orientamento
sessuale è fondamentale per capire come l’omosessualità sia stata costruita,
nel tempo, come patologia – in modo del tutto arbitrario.
Partendo dalla ri(costruzione) dell’omosessualità posso cercare di trovare
un legame tra cittadinanza, politiche sociali e orientamenti sessuali (Cap. 4).
Le domande che mi sono posta sono le seguenti: le politiche sociali
“normalizzano” determinate pratiche e “discriminano” tutte le altre? Esiste
una discriminazione nella nozione di cittadinanza? Il riconoscimento
dell’omosessualità all’interno della società può contribuire alla costruzione
di nuove politiche sociali?
1
Primo capitolo
Riflessioni sulla cittadinanza
«L’impresa della trasformazione di schiavi in
sudditi e di sudditi in cittadini è un’impresa
che non ha mai fine, nei paesi ricchi dell’Ocse
come nei paesi della povertà, della carestia e
della scarsità assoluta. Ovunque, nell’epoca
della solitudine della democrazia e del collasso
o della riforma, affascinanti, inquietanti,
entusiasmanti, dell’ ancien règime, comunista
e non; nei tempi della “gentile rivoluzione”,
della guerra civile religiosa, del tirannicidio
o del conflitto hobbesiano fra etnie e clan,
negli anni della più intensa oscillazione fra
universalismo e tribadismo, una donna o
un uomo conoscano l’esperienza della
sofferenza evitabile, della crudeltà fisica e
morale, dell’umiliazione, della degradazione,
le variegate catene rudi o gentili dell’oppressione
e i molteplici volti dell’ingiustizia, ivi una
filosofia dell’emancipazione, della giustizia
e dei diritti esige l’impegno per la liberazione:
di individui e di gruppi, di persone e di popoli»
(Veca, 2008:13).
1. Premessa
Questo capitolo introduce una riflessione sul tema della cittadinanza. Il
lettore non troverà nessuna ricostruzione storica e/o sociale dei tre elementi
costitutivi della stessa: diritti civili, politici e sociali. L‟ oggetto di interesse
non si è mosso sulle dinamiche che hanno portato all‟ampliamento e al
consolidamento dei diversi diritti. Il percorso di analisi parte da una
considerazione abbastanza nota e controversa – non solo nella sociologia –
ossia il dibattito circa l‟origine della diseguaglianza e della stratificazione
2
sociale: gli uomini sono diseguali per natura o la diseguaglianza è una
costruzione sociale? Non intendo ricostruire il pensiero di tutti gli autori
che si sono succeduti sul/nel discorso delle diseguaglianze. Voglio, piuttosto
“applicare” questo aspetto all‟analisi della cittadinanza come forma
esclusiva di appartenenza.
Negli anni ‟90 del secolo scorso gli studi sulla cittadinanza – soprattutto
in campo sociale – sono stati rivalutati e ripresi. Se, secondo alcuni, gli assi
portanti sono tre – misura o estensione, contenuto e profondità – è sul primo
aspetto che è inquadrato questo capitolo introduttivo sulla cittadinanza. Per
misura si intendono le regole e le norme che disciplinano i criteri di
inclusione e di esclusione. Quest‟ultima rimanda all‟idea di confine e il
confine al quale mi accingo a dare peso non è quello meramente territoriale
ma al confine sociale – generatori di chiusura sociale. Per questo motivo mi
sono chiesta: in che modo si determina l‟appartenenza ad una comunità –
perno indiscutibile della costruzione della cittadinanza? Quali sono i
meccanismi che la generano?
L‟aspetto dell‟appartenenza è il perno della cittadinanza. Essa determina
l‟acquisizione di eventuali diritti ed eventuali doveri. E‟ importante
soffermarsi su questo aspetto perché se affermiamo che il godimento di
determinati diritti deriva dall‟appartenenza ad una comunità, è lecito anche
considerare come si crea un tipo di appartenenza (intendo legittima)
piuttosto che un altra. Dunque, sono o non sono discutibili i criteri di
esclusione? A sostegno di questa mia considerazione di partenza ho attinto a
campi di natura diversa: storico, antropologico e sociale.
Nel primo paragrafo, infatti, ricostruisco il significato semantico e storico
– se c‟è – della cittadinanza dall‟antico regime alla nascita dei diritti. Ciò
per evidenziare che l‟appartenenza ad una comunità è sempre esistita nel
determinare i confini sociali: il dentro e il fuori. Non è una ricostruzione
storica dei diritti ma dell‟appartenenza nella storia. Nelle dinamiche
mutevoli della cultura e dei confini sociali. Su che basi si modifica – si
allarga o si restringe - l‟appartenenza?
Su questa domanda si apre il secondo paragrafo, dove presento
l‟argomentazione di T. H. Marshall sulla cittadinanza e alcune teorie
critiche che lo hanno susseguito. Il dibattito è il seguente: la cittadinanza è
3
un processo evolutivo – come lo ha presentato il sociologo inglese - o
conflittuale?
Nell‟ultimo paragrafo mi addentro nel cuore della cittadinanza come
appartenenza e dei meccanismi di inclusione ed esclusione – perno poi
dell‟intera tesi. Due sono le dimensioni che propongo come criteri di
inclusione: quella mutevole della cittadinanza come identità (con l‟esempio
delle tre città rinascimentali italiane) e quella religiosa. Quanto influenza la
religione e l‟identità culturale (simboli, credenze, valori) nella visione
dell‟appartenenza e dell‟ordine sociale?
Il contributo non è esaustivo ed esauriente ma offre la possibilità di
inquadrare il tema della cittadinanza da una diversa prospettiva e per una
diversa riflessione oggi e nella storia.
2. Sull’appartenenza: significati e sviluppi
« “Cittadinanza” è un‟espressione utilizzabile per mettere a fuoco il
rapporto politico fondamentale e le sue principali articolazioni: le
aspettative e le pretese, i diritti e i doveri, le modalità di appartenenza e i
criteri di differenziazione, le strategie di inclusione ed esclusione» (Costa,
2005:3-4). Da questa polivalente e completa definizione di Pietro Costa
possiamo iniziare a comprendere che la cittadinanza ha molte facce. La più
utilizzata – soprattutto attualmente – dibattuta e conosciuta, come sostiene
lo stesso autore, è la prospettiva giuridica. Numerosi autori che si sono
occupati dell‟argomento sottolineano questa prevaricazione – sia nel senso
comune che negli studi scientifici e sociali – del lato giuridico del concetto
(Zincone, 1992). La definizione di cittadinanza – nella cultura giuridica –
indica due aspetti importanti: la distinzione tra cittadino e straniero (che
affronterò nel secondo capitolo) e la sua connotazione formale, infatti la
cittadinanza giuridica è: «[…] l‟ ascrizione di un soggetto – per connessioni
territoriali o legami di parentela – a uno Stato nazionale» (Zolo, 1999:3).
4
La cittadinanza indica l‟appartenenza di una persona alla massima
organica collettività politica: lo Stato1. La cittadinanza moderna, dunque,
nasce nello Stato-nazione nel quale sono riconosciuti e assegnati - agli
individui - alcuni diritti (civili, politici e sociali) e doveri, sotto la sua
autorità (Isin, 2002): «nell‟ambito del moderno stato-nazionale la
cittadinanza è definita principalmente in termini giuridici, come un insieme
di diritti e di doveri, stabiliti da un ordinamento giuridico positivo. Tutti
coloro che condividono questo status giuridico sono membri della comunità
politica, e la comunità politica non è altro che un insieme di individui aventi
gli stessi diritti e doveri giuridici» (Zolo, 1999:167). Tali diritti variano da
Stato a Stato, ma uno stato democratico moderno è tenuto a sostenere la
combinazione dei diritti e dei doveri di cittadinanza .
Questo tipo di discorso inizia a farsi strada dopo la rivoluzione francese
del 1789:«è negli anni della rivoluzione che si prende a guardare alla società
del passato come ad un regime “antico”: il regime dei privilegi e della
diseguaglianza contrapposta all‟epoca nuova dei diritti e della libertà […]»
(Costa, vol.II, 1999:IX).
Da questo momento in poi si instaura un nuovo ordine che arriva fino ai
giorni nostri ed entrano in scena i diritti dell‟uomo – con la Dichiarazione
dei diritti dell‟uomo e del cittadino – e in particolare due concetti chiave: il
soggetto giuridico e la nazione. «L‟elemento primario e fondante è la
nazione come insieme di “tutti” i soggetti eguali (che però prevede almeno
due criteri di esclusione, lo straniero, per un verso, il “privilegiato”, per un
altro verso)» (ivi, 1999:29). La nazione, dunque, è un sistema inclusivo che
genera differenze ed eguaglianze. Perché? «l‟eguaglianza dei diritti non
postula […] affatto l‟eguaglianza dei mezzi, delle fortune, delle condizioni
[…]. Entro la sfera dei diritti le differenze meramente sociali sono invisibili;
esse tornano però a contare nel momento in cui si mettono a punto le
condizioni di accesso al governo della civitas. La condizione di cittadinanza
viene così a racchiudere in sé tanto l‟eguaglianza quanto la diseguaglianza»
1
Ministero dell’Interno: Direzione centrale per i diritti civili, la cittadinanza e le minoranze
(2003), La cittadinanza italiana. La normativa, le procedure, le circolari,
http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/cittadinanza/Una_pubblic
azione_sulla_cittadinanza.html.
5
(ivi, 1999:29-30). Vi sono diverse categorie di soggetti che hanno una
comune condizione: l‟appartenenza alla nazione.
Questa ultima nasce per garantire quell‟ordine2 che serve a far rispettare i
diritti dell‟uomo: «l‟individuo si compie umanamente non solo in quanto
titolare di uno spazio di libertà, ma anche in quanto soggetto politico attivo,
partecipe della vita della nazione» (Costa, 2005:54-55).
Molti autori stranieri parlano di “legal statute” o “legal status” (Isin,
2002; Ellis, 2006), per indicare l‟appartenenza ad uno stato-nazione e
l‟eguaglianza nei diritti e nei doveri di tutti i beneficiari di questo “status”. I
cittadini vengono riconosciuti - legalmente - in quanto individui con diritti
politici (i c.d. diritti attivi di cittadinanza: il diritto di votare e il diritto di
farsi eleggere, quindi di rappresentanza).
L‟aspetto che intendo riprendere è il perno della cittadinanza:
l‟appartenenza. Essa non è una prerogativa della società moderna, della
concessione di diritti e di doveri. L‟appartenenza ad una comunità –
qualsiasi essa sia – è sempre esistita e ha sempre generato inclusione,
privilegi, esclusività di una classe piuttosto che un‟altra. Per comprendere la
sua formazione e la sua evoluzione ho fatto ricorso alla storia, alla filosofia
e alla sociologia. La storia fornisce una ricostruzione non solo di periodi, di
epoche ma anche di valori, di credenze di norme che aiutano a capire di
come l‟appartenenza ad una comunità non è mai statica e di come essa sia
legata alla cultura del tempo che la ospita. La filosofia offre una chiave di
lettura riflessiva tramite diverse figure abbastanza note di filosofi e di modi
di vedere l‟appartenenza dell‟uomo; come la stessa sociologia che si
interroga sulla nascita della società. Essa segue due prospettive: quella
organica (naturalismo sociale) e quella volontaristica (contrattualismo);
mentre la prima prospettiva richiama alla naturale socievolezza umana –
proprietà per cui la nascita della società è naturale; la prospettiva
contrattualista vede nel contratto volontario la nascita della società (Cipolla,
2000). Queste due prospettive rimandano immediatamente alla costruzione
– storica e filosofica – della cittadinanza e dell‟appartenenza. Questo per
2
Il concetto di ordine può essere un filo conduttore di tutto il tragitto storico della
cittadinanza. Tutte le diverse epoche storiche, le diverse concezioni e i diversi autori di
riferimento, parlano – implicitamente ed esplicitamente – di ordine. Libertà, diritti,
individuo, appartenenza, comunità politica, doveri, in ogni epoca storica sono retti da un
ordine che li “legalizza” (Costa, 1999, vol 1-2; 2005).
6
intendere che le discipline si intrecciano l‟una con l‟altra per meglio
comprendere i concetti dell‟analisi.
La parola cittadino deriva dal latino civis o civitas che significa essere
membro dell‟antica città-stato – in particolare della Repubblica Romana.
Ma civitas è anche la traduzione latina del termine greco polites – che
significa cittadino - (Isin E. F. et all., 2002) mentre politeia designa la
cittadinanza, indica chi può essere chiamato cittadino: « […] πολτης
[polites] only as a member of a community who is fit to govern» (Ellis S. G.
et all., 2006:26). Non a caso, quindi, nel nuovo dizionario di sociologia la
cittadinanza è inserita nel concetto di città3, del cittadino “moderno” che
abita la città. Non è del tutto fuori luogo questa attribuzione per due motivi:
il primo è in riferimento all‟etimologia della parola stessa di cittadinanza,
come abbiamo appena visto, e il secondo motivo rimanda alla città – nel
Medioevo – come prerogativa essenziale per essere definito cittadino e
godere dei privilegi che questo status comporta.
La cittadinanza non evoca lo Stato, come si è portati a pensare, bensì la
città: «[…] proprio grazie alla sua ricca polisemia, può essere una comoda
via d‟accesso al discorso medievale della cittadinanza: momento di
sovrapposizione di “astratto” e “concreto”, città di uomini e ordinamento
giuridico, luogo specifico e snodo di un ordine universale, città degli uomini
e città di Dio, la civitas è il teatro ideale per la rappresentazione medievale
del rapporto fra l‟individuo e la comunità politica» (Costa P, 1999:4). E‟
difficile rintracciare il cittadino nel Medioevo, occorre distinguere un
aspetto della cittadinanza: quello dei diritti che scaturiscono da
un‟appartenenza o quelli che la cultura attribuisce ad un soggetto (Costa,
1999). Più che ai diritti di cittadinanza, dunque, occorre guardare al corpo4
di individui che formano la città. Il linguaggio medievale, infatti, è intriso di
3
Non esiste la voce cittadinanza vera e propria ma dal concetto di città viene fuori: «Oggi,
nei paesi progrediti, i costumi urbani configurano l’immagine caratteristica del soggetto di
diritti civili e politici, cui attribuisce il diritto di “cittadinanza”» (Demarchi et all.,
1992:364).
4
Il medioevo è un universo ordinato - retto dalla “metafora della verticalità - : «*…+
nell’ordine cosmico, e nell’ordine politico-sociale, gli enti si dispongono secondo la logica
del “basso” e dell’ ”alto”» (Costa, 1999:6). Dunque, in questo ordine, le diseguaglianze
sono naturali. Il simbolo del corpo è la figura più diffusa nel Medioevo e nella città: «*…+ la
città, quale che sia l’estensione semantica attribuita al termine, è tale in quanto l’insieme
di individui che la compongono trova una sua riconoscibile unità e interna strutturazione
grazie all’impiego della figura del corpus» (Costa, 1999:11).
7
relazioni familiari, di entità “superiori” che regolano la vita umana nel
grande cerchio della metafora del corpo. Questa ultima legittimava le
disuguaglianze e le esclusioni generate dall‟appartenenza proprio perché
ogni “organo” – quindi ogni uomo o ogni donna, indipendentemente dal
ruolo occupato, era indispensabile alla formazione della città – era
indispensabile al buon funzionamento dell‟intero corpo. Una prima
considerazione è doverosa in questo passaggio: nel medioevo le
diseguaglianze erano legittime. L‟ordine naturale è da rintracciare nella
metafora e nelle relazioni naturale regolate da un‟entità divina – così come
sosteneva anche Tommaso D‟Acquino.
Non bisogna fare l‟errore di guardare al passato con le concezioni
presenti, altrimenti si rischia di ricondurre la cittadinanza antica ai diritti e ai
doveri - come siamo abituati a vederla con la concezione moderna. Occorre
calarsi nella società del tempo in toto per capire che più che di diritti e di
doveri, la cittadinanza era: «[…] una complessiva strategia personale e
familiare, […] un insieme di oneri e privilegi che costituisce il contenuto (di
volta in volta variabile) dell‟appartenenza del soggetto alla comunità
politica» (Costa, 1999:16).
L‟appartenenza è uno dei concetti-chiave della cittadinanza, che si parli
del passato e/o del presente. Qui subentra, un‟ ulteriore distinzione: tra
individuo e comunità. Il dibattito è sull‟appartenenza stessa: il cittadino – e
quindi gli oneri che questo status comporta – è colui che appartiene alla
comunità o è il singolo individuo? Ovviamente vi sono periodi storici che
valorizzano la comunità – la civiltà medievale - e altri che valorizzano
l‟individuo – il giusnaturalismo, nonché diversi paradigmi e diverse figure
di riferimento.
Così definisce la polites (il cittadino) Aristotele: «[…] as someone who
rules and is ruled in turn, making “citizenship” conceptually inseparabile
from political governance» (Isin E. F. et all., 2002:106).
Il Medioevo, dunque, è il momento della città, dell‟appartenenza a questo
corpo, non solo territoriale ma anche giuridico. E qui subentra il secondo
punto della nostra definizione, ossia l‟appartenenza alla città e la morfologia
della stessa: «[…] occorre evitare un‟acritica identificazione della comunità
politica con lo Stato. Lo Stato non è una realtà immutabile e perenne, ma
appartiene ad una precisa congiuntura storica: lo Stato è la forma politica
8
caratteristica della modernità e presuppone la sinergia di elementi ideali e
strutturali ignoti all‟antica Grecia non meno che all‟Europa medievale.
Quando ci riferiamo al mondo antico o al mondo medievale conviene
parlare non già di Stato, ma più semplicemente di città» (Costa, 2005:7).
La definizione di cittadino di Aristotele conferma e trova piena
giustificazione in questo contesto. Il cittadino è colui che partecipa
pienamente alla vita politica della città e, in Aristotele, non vige
l‟uguaglianza dei cittadini, bensì l‟ordine naturale della diseguaglianza: «è
cittadino dunque, per un verso, solo l‟individuo maschio e adulto, collocato
al vertice del microcosmo famigliare, e, per un altro verso, solo l‟individuo
che possa esercitare la virtù e occuparsi, in condizioni di eguaglianza con gli
altri cittadini, della cosa pubblica, proprio perché libero da preoccupazioni
economiche e da attività servili, affidate ad altri, schiavi o meteci che siano»
(ivi, 2005:10). Questo discorso trova piena legittimazione e pieno consenso
se ci inseriamo nel discorso medievale fatto in precedenza: ogni essere
umano ha un ruolo all‟interno della società, che sia di prestigio o meno esso
ne và del buon funzionamento della comunità e del volere divino.
Un altro autore che continua la tradizione gerarchica della società, tipica
medievale, è Jean Bodin. In un periodo delle grandi monarchie – tra il „500
e il „600 – egli valorizza la figura del sovrano. Questo ultimo è al vertice
della gerarchia così come il pater familias è al vertice della gerarchia del
microcosmo familiare (Costa, 1999). Il distacco dalla tradizione medievale
sta nella definizione del cittadino, non più come membro che partecipa
attivamente alla vita della città ma è il suddito che sottostà al sovrano: «in
quanto membro di una città, l‟individuo potrà dirsi un bourgeois, ma è un
citoyen soltanto in quanto suddito del sovrano […]» (Costa, 2005:24).
Bodin critica Aristotele per aver confuso la città con lo Stato e per aver
assegnato la cittadinanza nell‟esercizio della partecipazione alle cariche
pubbliche, poiché sono due cose distinte e separate: «[…] solo separando la
cittadinanza dal legame con la inesauribile varietà degli oneri e dei privilegi
dei cittadini è possibile giungere ad una nuova definizione centrata sul
rapporto di sovranità e soggettività. E‟ cittadino quel soggetto che, in quanto
incluso (quale che sia la sua condizione) nella zona di influenza di un
sovrano, si differenzia da qualsiasi altro che, in quanto escluso da quella
9
zona, si definisce essenzialmente come non cittadino, come straniero»
(Costa, 1999:76).
Nella Grecia Antica la cittadinanza, dunque, era comunitaria e
comportava la partecipazione alla comunità e alle cariche pubbliche:
«cittadini erano i figli dei genitori, a loro volta liberi cittadini, di solito
possidenti e guerrieri cui era proibito occuparsi di commercio: i cittadini
potevano ricoprire cariche pubbliche e amministrare la giustizia,
combinando in questo modo il ruolo sociale con obblighi e diritti. […] I
cittadini infatti appartenevano completamente alle rispettive città e tutti gli
aspetti della loro vita privata – dall‟istruzione al matrimonio, dal modo in
cui si vestivano al modo in cui esprimevano il proprio dolore – riflettevano
la loro totale appartenenza ad essa […]» (Rossi, 2000:3-4).
Nel primo seicento si fa strada un nuovo tipo di “cultura” opposta a
quella dell‟antica Grecia, del Medioevo e dell‟ assolutismo: il paradigma
giusnaturalistico. Con tale prospettiva subentra nel dibattito una nuova
ipotesi: il cittadino è il singolo individuo. Due sono le innovazioni rispetto
al passato: lo stato di natura dell‟uomo e il contratto sociale: «è con una
decisione contrattuale che gli esseri umani escono dallo “stato di natura” e
fondano la società civile, il rapporto comando obbedienza, insomma,
l‟ordine politico» (Costa, 2005:26). Questo paradigma si distacca dal
medioevo perché concentra l‟attenzione sull‟individuo in quanto tale (con
l‟accostamento di concetti quali libertà ed eguaglianza), abbandonando il
concetto di ordine naturale. Come il contratto sociale è artificiale così
l‟ordine politico. Anche a questo paradigma sono legate diverse figure
storiche, nonché diversi “sotto-paradigmi” – ovvero diverse articolazioni del
filone predominante del giusnaturalismo.
La concezione contrattualistica della società si sviluppa con Thomas
Hobbes – ripreso anche dal dibattito sociologico che ho accennato all‟inizio
del paragrafo circa la nascita della società e le due prospettive di
interpretazione: quella contrattualistica e quella naturalistica – che si
contrappone alla visione aristotelica che considerava l‟uomo socievole per
natura. Secondo il filosofo, la società non è basata su un ordine naturale e
divino – come proponeva il Medioevo – m si basa su un ordine artificiale.
L‟uomo è visto da Hobbes in una duplice chiave: una condizione naturale e
una artificiale. La prima è la condizione con la quale nasce ogni soggetto, la
10
seconda è la costruzione dell‟ordine sociale per mezzo del sovrano. Ma
perché Hobbes definisce il sovrano una costruzione artificiale? Egli incentra
il suo discorso sulla conflittualità innata dell‟uomo. Per questo motivo non
può esistere un ordine naturale, senza il sovrano che «[…] è costruito
artificialmente dal consenso di soggetti che individuano in esso la
conciliazione di un ordine, di una pacifica convivenza che la ragione indica
come proprio essenziale “teorema”, ma che la natura umana non è in grado
di realizzare spontaneamente» (Costa, 1999:171), e ancora: «i soggetti che
consensualmente “inventano” il sovrano agiscono secondo lo schema
“autore-attore”, creano la persona artificiale del sovrano e trovano in essa
una unità altrimenti impossibile […]» (ivi, 1999:172-173).
Locke continua a parlare di “diritti del soggetto” ma nella prospettiva
inversa a quella proposta da Hobbes. Egli, infatti, non vede la concessione
dei diritti come un rimedio al conflitto bensì il contrario: i diritti del
soggetto sono il perno dell‟ordine naturale stesso (Costa, 2005). Il problema
è nell‟ordine politico: questo non può esistere senza una regola altrui (senza
sovrano) e senza un accordo (senza un contratto sociale). Mentre il perno
dell‟ordine naturale non è il sovrano ma Dio: «[…] dal comando
imperscrutabile di Dio dipende la forza vincolante della legge, mentre alla
ragione è affidato il compito di determinare i contenuti (che però si
presuppongono conformi alla natura razionale dell‟uomo» (Costa,
1999:275).
Nel contrattualismo di Locke gli individui nascono con delle leggi morali
che gli danno diritti e doveri. A suo avviso, però, lo stato naturale è precario
e incline al conflitto, per questo motivo gli uomini si accordano nel formare
un organo comune – il popolo.
Nei due autori si assiste ad una diversa interpretazione del
contrattualismo: Hobbes lo vede il rimedio alla naturale conflittualità
dell‟uomo e alla stabilizzazione di un ordine sociale; Locke, al contrario,
vede nell‟ordine sociale una precarietà che non può esistere senza contratto.
Una figura che integra le due logiche è senza dubbio quella rousseviana.
Rousseau distingue tra l‟individuo e la società: il primo, nel suo stato di
natura, ha le proprie leggi morali, la propri autoconservazione e la propria
disciplina che, però, è costretto a modificare quando si mette in relazione
con gli altri, dunque, in società. È dai rapporti sociali che scaturisce il
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contratto sociale:«ineguaglianza, ingiustizia e conflitto sono inseparabili dai
rapporti sociali e formano la situazione di partenza del contratto. […] il
conflitto che precede e motiva il contratto richiede una soluzione morale (e
non semplicemente politica, come per Hobbes), perché dipende
dall‟ineguaglianza ingiusta che segna il corso accidentale della storia.
Tuttavia la dimensione morale di tale conflitto non determina direttamente il
contratto (come ritiene Locke), perché le norme morali naturali sono
inaccessibili per gli uomini indipendenti e divenuti sociali» (Rousseau,
1997:X-XI).
Sulla base di queste premesse che egli distingue fra “uomo naturale” e
“uomo civile”: «il passaggio dallo stato civile non cancella la sua
condizione naturale ma la traspone in un contesto (la città) dove si rafforza e
si definisce: la condizione di cittadino ingloba la condizione di uomo, per un
verso proteggendola efficacemente (gli incerti privilegi e possessi dello stato
naturale divengono veri e propri diritti di proprietà), per un altro verso
condizionandola in vista del bene comune (il sovrano interviene limitando la
proprietà e riducendo le diseguaglianze)» (Costa, vol. II, 1999:526).
Ed è alla cittadinanza, all‟appartenenza alla città, che Rousseau lega la
libertà vera e propria, poiché si lega alla legge e alla volontà generale
(Costa, vol. II, 1999; Rousseau, 1997). Nella volontà generale c‟è la volontà
del soggetto e dunque la sua libertà – grazie alle norme del contratto sociale.
A questo punto, riassumendo brevemente, possiamo dire che
l‟appartenenza e i criteri di appartenenza non sono statici, perché statica non
è la società.
Nel Medioevo, abbiamo visto, l‟appartenenza dei soggetti è data da un
ordine naturale che è retto da una struttura gerarchica che va dalla famiglia
alla società. Ogni diseguaglianza è legittima perché funzionale al “corpo”
sociale e politico. La cittadinanza è data dalla partecipazione alla città,
perno dell‟attività pubblica e politica.
Con la nascita delle monarchie nazionali, la cittadinanza viene affiancata
alla sudditanza – per Bodin il cittadino è il suddito.
E‟ nel 1700 – con la nascita della borghesia con la quale viene ad
identificarsi il nuovo assetto societario – e in particolare con la rivoluzione
francese, che il medioevo e/o l‟età pre-moderna viene chiamata “antica. I
diritti si fanno strada a partire dal giusnaturalismo con la centralità del