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1.1 Introduzione
Il Capitolo I descrive e interpreta la transizione dell’Italia verso un
mercato del lavoro “flessibile”. Si tratta di una transizione per molti aspetti
incompiuta, non priva di battute d’arresto e di impennate ma il cui avvio
può grosso modo datarsi dalla metà degli anni Ottanta. Quindi il paragrafo
1.2 descrive gli andamenti occupazionali aggregati e li ricollega alla
maggiore flessibilità introdotta in Italia. Vi si sostiene, secondo Sestito
(2002), che la flessibilità ha avuto un impatto positivo sull’occupazione
aggregata, ma che ancora poco è riuscito a fare sul grande problema irrisolto
del mercato del lavoro italiano, quello del divario tra Nord e Sud. Infatti
dall’inizio del 1995 alla primavera del 2001 si sono creati in Italia un
milione e mezzo di nuovi posti di lavoro. Il ritmo di sviluppo è divenuto
addirittura impetuoso nella seconda metà del 2000. Si è trattato d’un
risultato eccezionale, specie se si considera che quella crescita è avvenuta in
un contesto macroeconomico difficile. Al tempo stesso, quei nuovi posti di
lavoro sono pochi se si tiene conto che molti altri paesi europei hanno fatto
meglio. Questi posti di lavoro sono in prevalenza di tipo nuovo. E’ esploso
il lavoro cosiddetto parasubordinato e lo stesso lavoro subordinato ha
mutato natura. Si dice che è finita l’epoca del posto fisso e a tempo pieno.
Nel paragrafo 1.3 si descriveranno le politiche di risanamento fiscale, il
contesto macroeconomico complessivo, nonché l’esperienza della
concertazione tra governo e parti sociali. Di quest’ultima Sestito dà un
giudizio positivo, ricordando come la stessa abbia favorito la disinflazione.
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Attribuisce invece alla debolezza tecnica e politica dei governi, più che
alla concertazione di per sé, la natura frammentaria e incompleta delle
riforme del mercato del lavoro e del welfare. Scopo di questo paragrafo è
descrivere lo scenario macroeconomico, l’opzione concertativa e
l’evoluzione degli assetti contrattuali. Implicitamente si tratterà anche della
scarsa crescita economica che ha continuato a caratterizzare l’Italia, ma
senza ambire a trovare spiegazioni. L’obiettivo è di descrivere alcuni
elementi essenziali dello sfondo in cui sono maturate le concrete scelte di
politica economica generali e di riforma del mercato del lavoro e del sistema
di welfare.
Nel paragrafo 1.4 si discuterà sul processo di invecchiamento della
popolazione e le tendenze dell’occupazione dei più anziani, la
femminilizzazione della forza lavoro, la crescente presenza degli immigrati
e i processi di accumulazione del capitale. Si presenterà un quadro più o
meno aggiornato della composizione della disoccupazione italiana che è
oggi un po’ meno giovanile (e composta da figli di famiglia) che in passato,
avendo semmai accentuato la propria caratterizzazione meridionale.
Obiettivo di questo paragrafo è di documentare i principali mutamenti
intervenuti nella struttura dell’offerta di lavoro in senso lato, modifiche non
sempre tenute in conto nel disegno delle politiche. Oltre che delle tendenze
demografiche e dell’evoluzione del sistema scolastico e formativo e del
livello di qualificazione delle forze di lavoro si darà conto dell’accresciuta
presenza delle donne nel mercato del lavoro, fenomeno in accelerazione nel
corso degli anni, e della trasformazione dell’Italia in un paese
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d’immigrazione, con una presenza straniera che inizia a consolidarsi e a
porre esigenze d’integrazione civile sociale.
Infine il paragrafo 1.5 considera la composizione dell’occupazione in
termini di tipologie di rapporti di lavoro, guardando in particolare ai
fenomeni delle collaborazioni coordinate e continuative, del part time e del
lavoro a termine (incluso l’interinale) e al loro contributo alla crescita
dell’occupazione. Infatti dal 1999 in poi, in concomitanza con
l’accelerazione della crescita complessiva dell’occupazione, è aumentato il
contributo a quest’ultima che proviene dal lavoro dipendente più
tradizionale (a tempo pieno e indeterminato). In una prospettiva di più lungo
termine, è però dal lavoro dipendente atipico – con ciò intendendosi i
rapporti a tempo parziale e/o determinato, due caratteristiche che spesso si
sovrappongono – che è venuta la parte più considerevole della crescita
dell’occupazione.
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1.2 L’evoluzione dell’occupazione. I fatti
fondamentali.
L’andamento dell’occupazione complessiva in Italia negli ultimi quindici
anni può dividersi in tre fasi (Fig. 1.1). La prima, fino al 1991, è
caratterizzata da una crescita costante, se giudicata sulla base degli
incrementi assoluti, più contenuta se posta in confronto con la crescita del
PIL: tra 1986 e1991 questo aumenta in media del 2,6% all’ anno,
l’occupazione solo dello 0,4. Il secondo periodo, il triennio 1992-94, vede
una caduta dell’occupazione forte e senza precedenti nel periodo post-
bellico, per l’intensità e anche per il sincronismo con cui riflette
l’andamento del PIL. Nella terza fase, avviatasi alla metà del 1995
l’occupazione è tornata ad aumentare: molto lentamente fino a tutto il 1997;
in maniera significativa nel 1998 e nel 1999; a un ritmo ragguardevole,
grazie anche allo sviluppo più sostenuto del PIL, nel 2000.
Da un punto di vista anche qualitativo il primo periodo, con occupazione
in aumento e senza una stretta connessione con il ciclo appartiene al passato.
E’ nelle successive due fasi che vi sono invece novità rilevanti. La caduta
dell’occupazione nel triennio1992-94 colpisce per la sua entità (un milione e
duecentomila unità, pari al 5,7%, tra il luglio del 1991 e l’ aprile del 1995) e
per la sua repentinità (nel secondo semestre del 1992 si concentra quasi
metà del calo totale ora citato). Non ve ne erano precedenti nel periodo post-
bellico.
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Due autorevoli osservatori (cfr.Bertola e Ichino, 1995) hanno ricollegato
la caduta del 1992-94 alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro, una
serie di allentamenti delle rigidità esistenti essendo in effetti documentabile
fin dalla metà degli anni Ottanta.
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Fig 1.1. L'occupazione in Italia (migliaia di unità; dati destagionalizzati
e ricostruiti per il periodo 1982-92).
Italia
19.500
19.700
19.900
20.100
20.300
20.500
20.700
20.900
21.100
21.300
21.500
1981 1983 1985 1987 1989 1991 1993 1995 1997 1999 2001
Centro-Nord
14.000
14.200
14.400
14.600
14.800
15.000
15.200
15.400
15.600
15.800
16.000
1981 1983 1985 1987 1989 1991 1993 1995 1997 1999 2001
Mezzogiorno
5.000
5.200
5.400
5.600
5.800
6.000
6.200
6.400
6.600
6.800
7.000
1981 1983 1985 1987 1989 1991 1993 1995 1997 1999 2001
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La loro intenzione non era quella di demonizzare la flessibilità ma di
ricordare come essa comunque implichi una più accentuata volatilità
dell’occupazione e una sua maggiore sincronia con gli andamenti della
produzione. Nella fase recessiva dell’epoca, quindi, più imprese del solito,
per via proprio della maggiore flessibilità, stavano licenziando il personale.
Un problema veniva semmai evidenziato nel fatto che l’incertezza
sull’avvenuta transazione verso assetti istituzionali più flessibili comportava
che le imprese si ritrovavano nella situazione di dover valutare se assumere
o meno dipendenti, comunque poche dato il momento recessivo, erano restie
a farlo (risolvendosi a farlo, semmai, solo con assunzioni a tempo
determinato).
E’ una tesi convincente ma parziale. Della fase di successivo aumento
dell’occupazione quella tesi contribuisce a spiegare l’iniziale stallo nel 1995
(quando, nonostante una crescita del PIL di tre punti percentuali,
l’occupazione aveva a stento interrotto la sua fase calante) e la successiva
sincronia nei movimenti dell’occupazione e del PIL ( man mano che gli
assetti flessibili venivano percepiti come maggiormente acquisiti). Per
completezza, vanno infatti ricordati alcuni fattori ulteriori sottostanti quella
brusca flessione dell’occupazione. Nei primi anni Novanta sono infatti
venuti a maturazione importanti processi di ristrutturazione straordinaria di
settori produttivi che negli anni precedenti avevano sostenuto i livelli
occupazionali. E’ questo il caso del commercio al dettaglio: la grande
distribuzione iniziava a soppiantare la piccola distribuzione, in passato
rifugio di chi non riusciva a trovare un lavoro stabile altrove, ma che non
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teneva ormai il passo d’un sistema distributivo con minori ricarichi resi più
avvertiti dal forte calo del loro reddito disponibile.
Più in generale, le vicende differenziate dei diversi settori hanno avuto
una certa rilevanza tanto nella fase di calo che in quella di successivo
aumento dell’occupazione complessiva, contribuendo soprattutto a
spiegarne l’ammontare in confronto con quello del PIL. La caduta
dell’occupazione nei primi anni Novanta era particolarmente forte rispetto a
quella del PIL anche perché aveva coinvolto, per la prima volta dopo molti
anni, un settore ad alta intensità di lavoro come i servizi, colpiti dallo
spostamento della domanda finale verso quella di origine estera a seguito
della svalutazione del settembre del 1992. Quella stessa svalutazione aveva,
favorendo prima la relativa tenuta e poi lo sviluppo (nel triennio1993-95)
del comparto manifatturiero non aveva invece avuto rilevanti effetti positivi
sull’occupazione, innalzando soprattutto la produttività del lavoro.
Specularmente, nella fase di crescita dell’occupazione dal 1995 in poi, il
contrasto con la dinamica contenuta del PIL si spiega in parte col fatto che a
svilupparsi sono stati principalmente i settori dei servizi, in cui comunque il
ritmo di crescita tendenziale della produttività del lavoro è più contenuto.
In tutte e tre le fasi in cui si è suddiviso il passato quindicennio,
l’occupazione nel Mezzogiorno è stata caratterizzata da una performance
deludente: nella prima è cresciuta di meno di quella del resto del paese;
nella seconda ha registrato un calo egualmente notevole; nella terza ha
evidenziato una crescita complessiva più contenuta, con uno scalino
positivo nel 1998 (in parte ascrivibile a programmi straordinari di politica
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del lavoro) e segnali più incoraggianti solo nel biennio 2000-2001. Mentre il
Centro-Nord ha ormai superato ampiamente i livelli del precedente picco
ciclico, il Mezzogiorno ne è ancora ben al di sotto.
La differenza nei livelli occupazionali tra le due aree del paese è meglio
apprezzabile esprimendo l’occupazione come quota della popolazione in età
attiva (convenzionalmente quella tra 15 e 64 anni). Nel 2000, a fronte di un
livello del 60% nel Centro-Nord, il Mezzogiorno era al 42%. IL divario
occupazionale tra le due aree del paese è particolarmente accentuato per i
più giovani. La tendenza al calo dei tassi d’ occupazione di questi ultimi –
pur se da giudicare in maniera sostanzialmente positiva perché da
riconnettere ad un aumento dei tassi di scolarizzazione - è stata più
accentuata nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord. Tra le donne la differenza
tra le due aree rimane marcata sino ai cinquant’anni, età oltre la quale si
riduce progressivamente. Tra i maschi, la differenza tra le due aree rimane
significativa, anche se di minore entità, nelle classi d’età centrali (trentenni e
quarantenni), invertendosi invece di segno oltre i cinquant’anni, età oltre la
quale la presenza di soggetti con più anni di contribuzione consente un ritiro
precoce dal mercato del lavoro nelle regioni del Centro-Nord.
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Tab 1.1. Tassi di occupazione per sesso, età e area geografica
(valori %)
Classi d' età Centro- Nord Sud Italia
Centro-
Nord Sud Italia
Centro-
Nord Sud Italia
Maschi Femmine Totale
15-24 anni1: 1985 37,3 28,6 34,0 31,0 12,7 23,8 34,2 20,6 29,0
1990 39,9 24,0 33,8 34,3 11,9 25,3 37,2 17,9 29,6
1995 36,3 18,9 29,1 29,3 9,1 20,9 32,9 14,0 25,1
2000 37,9 19,0 29,6 31,6 9,9 22,1 34,8 14,5 26,0
25-29 anni: 1985 86,1 77,6 82,8 59,5 28,7 47,2 72,5 51,9 64,4
1990 85,7 69,6 79,7 65,3 26,6 50,1 75,4 47,1 64,6
1995 78,5 55,0 70,1 59,6 22,7 46,0 69,2 38,7 58,1
2000 77,8 52,1 68,4 63,7 23,3 48,7 70,9 37,7 58,6
30-49 anni: 1985 95,8 93,6 95,1 48,9 36,1 44,6 72,0 64,6 69,5
1990 95,3 90,6 93,6 56,3 36,8 49,3 75,5 63,5 71,2
1995 93,4 82,8 89,8 58,0 33,7 49,5 75,8 58,1 69,6
2000 94,2 82,1 90,0 65,0 34,5 54,2 79,8 58,0 72,2
50-59 anni: 1985 77,8 79,8 78,4 26,0 25,2 25,8 51,3 51,6 51,4
1990 75,5 77,5 76,1 27,5 24,4 26,6 50,8 50,3 50,7
1995 65,6 71,7 67,5 27,7 24,8 26,8 46,3 47,5 46,7
2000 64,8 70,7 66,7 33,7 27,1 31,5 49 48,5 48,8
60-64 anni: 1985 35,5 44,4 38,3 9,6 11,1 10,0 21,6 27,0 23,3
1990 32,8 40,7 35,3 11,2 9,2 9,8 20,4 25,3 21,9
1995 28,2 34,6 30,3 7,5 7,8 7,6 17,3 20,4 18,3
2000 26,9 36,9 30,0 7,8 7,7 7,8 17,2 21,5 18,4
15-64 anni1: 1985 72,5 68,4 71,1 37,8 25,3 33,4 54,9 46,4 51,9
1990 72,0 65,0 69,6 42,1 25,2 36,1 57,0 44,8 52,6
1995 70,0 58,4 65,9 42,3 23,1 35,4 56,2 40,6 50,6
2000 71,9 59,5 67,5 48,0 24,6 39,6 59,9 42,0 53,5
1
14-24 e 14-64 per gli anni 1985e 1990
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT, indagine sulle forze di lavoro.