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Introduzione
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Ha influito la prevalenza nel paese di una tradizione di storia delle relazioni
internazionali attenta soprattutto alla politica di potenza, e quindi portata a
trascurare lo studio delle organizzazioni internazionali, simboli di una
politica diversa dalla realpolitik. Ha pesato inoltre la storia poco felice dei
rapporti fra l’Italia e tali organizzazioni, a cominciare dall’ostile
atteggiamento del fascismo verso la Società delle Nazioni fino alla
decennale esclusione del paese dalle Nazioni Unite.
Sepolta dal giudizio di irrilevanza di una storiografia attenta soprattutto alla
politica di potenza – giudizio rafforzato, peraltro, nel caso delle Nazioni
Unite, dall’emarginazione cui la guerra fredda costrinse l’Organizzazione –
la scelta societaria dell’Italia è rimasta a lungo poco studiata. Si è così
mancato di approfondire uno degli aspetti più originali della politica estera
del paese nel secondo dopoguerra, l’attenzione, appunto, per la
cooperazione internazionale, di cui solo negli ultimi anni si è cominciato a
valutare l’importanza. Se infatti le Nazioni Unite - e le loro agenzie – non
sono state oggetto di rilevante attenzione da parte degli storici, esse, al
contrario, sono state per i responsabili italiani uno degli ambiti privilegiati
della politica estera del paese; da come si potrà evincere andando avanti
nella lettura di questa tesi.
La nuova classe dirigente venne alla luce “politicamente” insieme alle
Nazioni Unite e sul nuovo organismo appuntò subito la sua attenzione. Essa
aveva nel proprio bagaglio ideale e culturale concezioni della politica estera
notevolmente diverse da quella fascista e aveva inoltre sotto gli occhi gli
esiti tragici di una politica di potenza condotta fino all’estremo. Cattolici,
comunisti, partiti laici, pur muovendo da aspirazioni e considerazioni
diverse, erano accomunati dal rifiuto della realpolitik e dal favore per la
cooperazione internazionale e condividevano non pochi aspetti del Great
Design roosveltiano. Seguirono quindi con grande interesse la nascita di un
organismo internazionale che - si pensava – avrebbe permesso di condurre
su basi rinnovate, cooperative e non più conflittuali, le relazioni tra gli Stati.
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Introduzione
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Sulle Nazioni Unite si appuntarono non solo le speranze e le attese dei
responsabili italiani ma anche di larga parte della società civile attenta alle
problematiche internazionali, di intellettuali, giuristi internazionalisti,
giornalisti di vario orientamento, che nel corso di un lungo e intenso
dibattito auspicarono la nascita di un organismo con poteri sopranazionali.
Come la Resistenza incarnava le speranze di rinnovamento della vita
politica interna, così l’attenzione per l’Onu e l’unità dell’Europa
rappresentavano il desiderio diffuso di una nuova politica estera. La
Conferenza di San Francisco si aprì il 25 aprile 1945, lo stesso giorno della
liberazione dell’Italia!
Alle speranze seguirono le delusioni, tra cui la prima, quasi immediata,
legata alla mancata partecipazione dell’Italia alla Conferenza. Nonostante
ciò la fiducia nella cooperazione internazionale non venne meno e trovò
ampio eco nell’Assemblea Costituente. L’articolo 11 della Costituzione, che
definisce le linee ispiratrici della politica estera italiana, è espressione
appunto degli ideali di pace e cooperazione internazionale allora
profondamente sentiti dai costituenti, in sintonia peraltro con le aspirazioni
di gran parte degli italiani, ed è anche il frutto di realistiche valutazioni degli
interessi del paese.
Le delusioni tuttavia continuarono. Lo scoppio della guerra fredda con la
conseguente esclusione dell’Italia dall’Onu raffreddò le attese della classe
dirigente italiana, che con l’ammissione del paese al nuovo organismo aveva
sperato anche di alleggerire le pesanti conseguenze della sconfitta. .
È nota la poco edificante vicenda che vide l’Italia esclusa dalle Nazioni
Unite per dieci anni a causa dei veti incrociati delle superpotenze ed è del
pari nota la costanza con cui l’Italia reiterò la sua domanda di ammissione
per ben cinque volte nel corso del decennio, pur essendo ormai partecipe di
altre importanti esperienze di cooperazione internazionale a livello europeo
e mondiale.
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Introduzione
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L’ingresso dell’Italia all’Onu nel 1955 coincise con il dilatarsi degli
orizzonti internazionali, conseguente alla decolonizzazione, e con
l’affermarsi nel paese del neoatlantismo, una linea di politica estera attenta
al processo di decolonizzazione e volta alla ricerca di una maggiore
autonomia internazionale. Tale linea favorì anche una forte attenzione per le
Nazioni Unite.
Nel periodo in esame, facendo attenzione alle numerose documentazioni
tanto vaste quanto diversificate, che ho potuto raccogliere, l’Italia guardò
infatti all’Onu come uno degli ambiti privilegiati per la sua azione. Dopo la
fine dei governi di solidarietà nazionale, specie la classe dirigente cattolica –
che ebbe a lungo la responsabilità della conduzione della politica estera
italiana – conciliò nella cooperazione internazionale l’apparente
contraddizione tra la costruzione di una comunità internazionale e la tutela
degli interessi nazionali. Alla base della scelta societaria ci furono però
anche altri, non meno importanti motivi. La diplomazia multilaterale sembrò
più adatta di quella tradizionale a perseguire gli interessi di una media
potenza come l’Italia; inoltre le Nazioni Unite avrebbero potuto consentire
al paese qualche autonomia rispetto agli alleati maggiori, in particolare
rispetto agli Stati Uniti, i cui interessi non sempre coincidevano con quelli
italiani. Appoggiare l’azione dell’Onu significava per l’Italia, paese di
frontiera tra Est e Ovest e fra Nord e Sud, favorire la distensione e attenuare
le tensioni legate alla decolonizzazione e all’incipiente scontro tra i paesi
industrializzati e in via di sviluppo. Al tempo stesso il richiamo
all’Organizzazione favoriva una unità di consensi sulla politica estera
italiana, specie tra maggioranza e opposizione di sinistra. Collaborare con le
Nazioni Unite, valorizzarne il ruolo significò dunque per l’Italia rafforzare il
proprio ruolo sulla scena internazionale; i suoi interessi coincisero quindi in
un certo senso con quelli dell’Organizzazione.
La diplomazia multilaterale affiancò quella bilaterale tradizionale con
l’intento di conseguire gli obiettivi del paese senza prevaricare gli altri e con
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Introduzione
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la costante aspirazione a definire regole certe di comportamento
internazionale, a favorire la stabilità e la distensione.
Tale lavoro, ricostruisce la trama dell’azione italiana alle Nazioni Unite
avendo cura di collocarla nel più ampio contesto delle relazioni
internazionali del paese e tenendo conto dell’evolversi della realtà politica
interna e internazionale. Il lavoro getta così luce anche su aspetti fino ad ora
poco noti di vicende già studiate nel quadro delle relazioni bilaterali
dell’Italia.
Inoltre, tale lavoro non limita la sua analisi all’ambito più specificamente
politico-diplomatico, ma indaga con attenzione anche l’azione italiana per il
disarmo e quella per la cooperazione allo sviluppo, senza tralasciare altri
problemi non meno importanti, emergenti allora sul piano internazionale,
come la tutela dei diritti umani. Ed è merito precipuo di tale lavoro quello di
ricondurre ad unità i tanti aspetti di una politica estera, che, nonostante
incertezze, contraddizioni, velleità, seppe conciliare con efficacia la ricerca
della pace e della stabilità internazionale con la tutela degli interessi del
paese.
L’esordio dell’Italia all’Onu risentì della fase di transizione attraversata
allora dal paese, dove il centrismo volgeva al tramonto e si aprivano, sia
pure faticosamente, le prospettive del centrosinistra. Il legame atlantico fece
allora spesso premio sulla dimensione societaria della politica estera
italiana, guidata dal liberare Gaetano Martino, convinto sostenitore della
cooperazione internazionale ma fortemente attento alle ragioni
dell’atlantismo. E se da un lato si concepì l’Onu come “il teatro della
solidarietà occidentale”, secondo la felice definizione di Fabio Grassi,
dall’altro si tentò di farne un terreno privilegiato per non nascoste ambizioni
del paese.
Questa linea politica, in un primo momento convisse con quella
neoatlantica, dando luogo a non pochi atteggiamenti contradditori, come in
occasione della crisi di Suez; fu poi gradualmente sostituita da un’altra più
vicina agli ideali delle Nazioni Unite e l’Italia cominciò a offrire un forte
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Introduzione
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appoggio alla loro azione. Nel corso degli anni Sessanta, nel clima della
coesistenza competitiva, e grazie all’avvio delle esperienze dei governi
aperti ai socialisti, fautori anch’essi di un ruolo attivo delle Nazioni Unite, la
politica italiana nell’ambito dell’Organizzazione divenne parte di una più
generale politica di distensione e cooperazione internazionale.
L’Italia guardò all’Onu per favorire la soluzione delle crisi internazionali, il
disarmo, l’indipendenza dei paesi coloniali e la cooperazione Nord-Sud. E
spesso si distinse anche per una notevole capacità propositiva, ad esempio,
in occasione di crisi internazionali affrontate dall’Organizzazione e nelle
discussioni sul disarmo.
La politica societaria fu tuttavia costantemente frenata dai settori più
rigidamente filoatlantici dello schieramento politico italiano; incontrò,
specie inizialmente, non poche resistenze da parte di alcuni autorevoli
esponenti della diplomazia, legati alla prassi tradizionale e fervidi
sostenitori del legame con Washington; venne ostacolata dalla collocazione
internazionale del paese e dovette fare i conti con i limiti strutturali dello
stesso.
Un altro tema importante, non di minore interesse, fu senz’altro la politica
italiana nei confronti del Terzo Mondo, che, come si è detto, ebbe nelle
Nazioni Unite un ambito privilegiato. L’Italia per diversi e noti motivi era
portata a sentirsi vicina alle istanze dei paesi che stavano allora
affacciandosi sulla scena internazionale. Questo atteggiamento contrastava
con quello delle potenze coloniali sue alleate; si pose quindi il problema di
conciliare l’anticolonialismo con la solidarietà occidentale, problema che i
governi centristi risolsero quasi sempre salvaguardando quest’ultima.
L’Italia tentò tuttavia di uscire dalle strettoie della sua posizione
proponendo senza successo ai paesi occidentali di istituire meccanismi di
consultazione permanente fra i membri dell’alleanza atlantica sui temi in
discussione alle Nazioni Unite. A ispirare prudenza verso il processo di
decolonizzazione fu anche il tentativo austriaco di riaprire in seno all’Onu la
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Introduzione
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questione dell’Alto Adige, tentativo che costrinse l’Italia ad evitare prese di
posizione che potessero essere utilizzate dall’Austria a sostegno delle sue
tesi. Un certo peso ebbe anche il desiderio di contrastare l’espansione
dell’influenza sovietica nel Terzo Mondo. Così, spesso l’Italia votò in
sintonia con i paesi occidentali o sostenne la tesi della “domestic
jurisdiction” in merito ai problemi come l’apartheid, Cipro o l’Algeria. Tale
atteggiamento mutò in parte all’inizio degli anni Sessanta con il nuovo
ministero Fanfani, in coincidenza anche con la nuova ondata di
decolonizzazione e una volta superata la questione dell’Alto Adige. L’Italia
si aprì allora maggiormente alle istanze dei paesi di nuova indipendenza e
appoggiò l’azione dell’Onu, ad esempio, i occasione della crisi in Congo,
mentre sull’apartheid si attestò su una posizione volta a favorire la
conciliazione e il dialogo, mirando in tal modo a non rompere con il
Sudafrica, con cui conservava intensi rapporti commerciali. Stretta tra i
vincoli della solidarietà atlantica, le esigenze economiche e il desiderio di
apertura ai paesi di nuova indipendenza, l’Italia non sempre riuscì a
mantenere una linea di condotta coerente e spesso finì per rifugiarsi
nell’astensione, con ciò evidenziando tuttavia una posizione differente da
quella degli alleati.
L’apertura verso i nuovi paesi e il favore per l’azione delle Nazioni Unite a
loro sostegno si manifestarono anche nell’impegno dell’Italia per la
cooperazione multilaterale allo sviluppo. La politica italiana di aiuto allo
sviluppo divenne significativa soprattutto a partire dall’inizio degli anni
Sessanta allorché la preferenza del paese per il canale multilaterale si
manifestò nella valorizzazione del fattore umano e nel sostegno accordato
all’assistenza tecnica, strumento allora più congeniale alle possibilità
italiane.
Il tentativo dell’Italia di muoversi con qualche autonomia e in modo più
rispondente ai suoi interessi e ai suoi orientamenti si manifestò anche nella
vicenda del riconoscimento alla Cina del seggio alle Nazioni Unite, a favore
del quale l’Italia cautamente si impegnò, nonostante l’atteggiamento
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Introduzione
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contrario degli Stati Uniti. Spingevano in tal senso motivazioni di politica
interna e il desiderio di aperture commerciali con la Cina, ma anche la
convinzione che il contributo di quest’ultima sarebbe stato decisivo per la
pace nel Vietnam. Per raggiungere quest’ultima, obiettivo fortemente sentito
nel paese, i responsabili italiani tentarono a più riprese, ma senza successo,
di valorizzare il ruolo dell’Onu.