IL PROBLEMA MORALE
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1 IL PROBLEMA MORALE
Ogni teoria, ci par di capire, si propone di rispondere ad un problema. Per elaborare una
risposta soddisfacente essa cerca di interpretare il fenomeno, il dato del reale assunto
come oggetto dell’indagine, così da poterlo successivamente spiegare e quindi, in un
certo senso, dominare e modificare. Nel caso della scienza morale ci pare che l’oggetto
materiale sia la vita umana, l’oggetto formale la sua dimensione pratica, ovvero
l’insieme di scelte, atti o comportamenti, norme, giudizi ecc., che danno forma all’agire
umano. Ogni proposta morale sarà dunque caratterizzabile in base al problema
affrontato, all’obiettivo che si prefigge, al metodo indicato per realizzarlo (il dover
essere, ovvero il dover fare necessario per raggiungere quel dato essere). Così, con una
certa approssimazione, ci sembra possibile e utile associare ai principali sistemi etici3
che si sono succeduti lungo la storia una indicazione del problema morale affrontato e
del metodo suggerito per una sua soddisfacente soluzione (ove l’evoluzione delle
proposte morali evidenzia l’insufficienza delle risposte fornite, almeno a fronte delle
situazioni in cui il problema si poneva).
1.1 L’egemonia della dimensione intellettualistica4
Nell’ambito della storia del pensiero occidentale la ripresa critica delle forme dell’agire
proposte dall’ethos civile assume molto presto, già a partire da Platone, un tratto
intellettualistico, per cui l’uomo è conosciuto a procedere da evidenze altre e anteriori
rispetto a quelle dischiuse alla sua conoscenza dall’esperienza pratica5; in specie,
soprattutto rispetto ai temi della libertà (dell’arbitrio), e dei rapporti tra ratio e voluntas,
esclusiva diventa l’attenzione al profilo delle capacità cognitive del soggetto e ai relativi
limiti. Ancora, questo tratto intellettualistico opera nella distinzione tra i momenti
pratico e morale dell’agire, cioè della struttura formale dell’agire considerata a monte
rispetto alla sua valutazione morale (buono o cattivo, giusto o peccaminoso), come se
3
Con l’espressione “sistema etico” intendiamo una teoria dei costumi, del dover essere, che non si
riferisce tanto ai singoli atti, giudizi, norme, quanto a regole e modi generali dell’agire. In altre parole,
forse anche in modo alternativo, l’etica affronta la questione (generale, appunto) del senso e del valore
dell’esistenza, la morale il problema della coesistenza (Cfr. H. JACOBS).
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In quanto segue, salvo integrazioni specificamente segnalate, il riferimento è a R. PAVESI, Corso di
etica. Possibilità di fondare metafisicamente l’Etica Filosofica e i sistemi etici.
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Il motivo è di ordine culturale: l’ingenuità del senso comune che induce a rappresentare il soggetto
umano ad immagine delle altre “cose” di natura, come se fosse accessibile alla considerazione
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quello morale non fosse, in realtà, l’unico profilo pertinente. Infine rientra nel tratto
intellettualistico il carattere analitico della trattazione (in particolare, con riferimento
alla Summa Tomista,della Secunda Pars), per cui la definizione dei singoli temi avviene
prima che si giunga a dire a proposito del tutto; ma in questo modo ai singoli temi viene
riconosciuta una univocità che in realtà essi possono realizzare soltanto quando siano
considerati nella loro correlazione reciproca6.
Denunciare il tratto intellettualistico già operante nella Summa di S. Tommaso
(Angelini ricostruisce criticamente solo la prima secundae7) significa da un lato
riconoscere alla sua opera il carattere di punto d’arrivo del pensiero precedente (vi
confluiscono l’aristotelismo e il pensiero cristiano8), dato che essa offre la prima
articolazione dei più rilevanti problemi di carattere sintetico. Ma appunto ciò
significherebbe che tali problemi erano presenti anche prima, seppur in modo
disarticolato. Significa d’altro canto riconoscere che il pensiero successivo, nella
misura in cui riprendeva quelle stesse questioni, non poteva liberarsi del tratto
intellettualistico che lo affliggeva. Proprio la centralità della Summa tomista, e più in
generale della riflessione scolastica di cui essa è espressione, rende ragione della scelta
di articolare la ricognizione delle forme in cui il problema morale si è posto facendo
perno sull’epoca medievale. La teologia non ha fatto altro che fruire della rilevante
consonanza tra fede cristiana, morale personale e ideale di civiltà prodotta da
oggettivistica della “ragione”, a sua volta definita come facoltà di conoscere senza riferimento all’identità
sintetica del soggetto (cfr. G. ANGELINI, Teologia, p. 563)
6
La consistenza obiettiva dell’intellettualismo scolastico si manifesta tuttavia nella tendenziale riduzione
della teoria morale alla forma del discorso sulla legge (in particolare sulla legge naturale), escludendo
ogni attenzione alle forme morali del soggetto pratico. L’approdo necessario di questa morale, come di
ogni morale intellettualistica, è una figura idealistica, in cui il criterio del valore è rappresentato nella
forma dell’idea, o dell’ideale, comunque determinabile a prescindere dal riferimento preciso alle forme
storiche e pratiche della relazione umana: così, mutuando il tratto naturalistico o cosmocentrico della
rappresentazione antica dell’uomo, la rappresentazione della morale dell’atto umano delineata dalla
teologia scolastica fa perno sui concetti di oggetto, fine, circostanze. Tale rappresentazione suppone
tuttavia che l’identità del soggetto possa dirsi a prescindere dalla sua coscienza, dunque da un punto di
vista che non è il suo. Da sempre l’identità del soggetto sarebbe definita a monte rispetto ad ogni
considerazione dell’agire. Da qui l’indebita pretesa di dire circa la verità a prescindere dalla mediazione
pratica della coscienza e del suo sapere; e di definire l’evidenza assiologica, nella quale soltanto il
soggetto può trovare autorizzazione a volere, senza necessità di riferirsi alle forme dell’esperienza pratica
effettiva. (cfr. G. ANGELINI, Teologia, pp. 10-13; 560 e 563; 559).
7
Cfr. A. BONANDI, Sui manuali, p.878; e G. ANGELINI, Teologia, p. 136.
8
È il metodo scolastico stesso a propiziare il tentativo di sommaria recensione storica che segue, dato che
esso prevede che la quaestio, interrogativo teorico, sia posta a partire dalle almeno apparenti
incongruenze rilevate tra le cose note (tra cui probabilmente molti assunti derivanti dal pensiero dei
filosofi del passato) e le sententiae delle auctoritates, di entrambe le quali si è precedentemente fatto un
inventario.
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quell’esperienza storica9. Considereremo tale esperienza storica come punto d’arrivo
dell’epoca premoderna, la sua dissoluzione come punto di partenza di quella moderna.
1.1.1 Epoca premoderna
Per l’etica greca antica, così come emerge dai poemi e dalle tragedie, il problema
morale era costituito dalla felicità, dal benessere. Il metodo per raggiungere questo stato
era l’appartenenza ad un dato ambiente, familiare ed educativo, che permettesse di
acquisire la virtù (intesa in senso unitario). La condizione virtuosa era considerata non
trasmissibile, quasi appartenente alla dotazione iniziale del soggetto. Dunque, in un
certo senso, innata. Essa si sviluppa nella paideia10, un linguaggio condiviso a livello
comunitario, ethos comune grazie al quale il soggetto sviluppa l’appartenenza
consapevole alla comunità, il senso di identità; le scelte di valore cui tale ethos abilita
rendono il soggetto libero, cioè capace di realizzare la propria identità, nella sua
comunità11. La virtù diventa presto virtù politica, e l’uomo virtuoso tale se contribuisce
al bene della polis cui appartiene. In questo senso la virtù viene insegnata in termini di
conoscenza critica, confrontabile e trasmissibile, grazie al riferimento da un lato a dei
principi primi, universalmente intuibili e verificabili, evidenti di per sé perché rilevati
dalla natura (si configurano come certezze soggettive incrollabili), dall’altro al
ragionamento; nascono le scuole ove insegnano i sofisti: tra essi anche Socrate, il cui
metodo maieutico tendeva a ricollocare le verità e virtù già presenti nel soggetto in un
9
Cfr. A. BONANDI, Il difficile rinnovamento, p. 291, e nota 25 p. 9.
10
Il riferimento è a M. CACCIARI, Gli intellettuali (cfr. S. ZACCHI, La riforma della scuola (1)).
11
L’identità del singolo, cioè la percezione che egli ha del proprio valore, dipende dalla sua esperienza
immediata e globale dell’ethos vissuto trasmesso di generazione in generazione; esso è configurato dai
rapporti umani vissuti attraverso linguaggi, istituzioni e regole. Come condizione della coscienza di sé,
dunque, la società concorre alla strutturazione delle evidenze fondamentali del vivere; tra queste rientrano
quelle morali. Il riconoscimento del legame originario dell’io alla società esibisce allora un contenuto
della coscienza, e ciò permette di comprendere la vita sociale come luogo non di dati ma di significati,
non di oggetti ma di azioni. Così è proprio a partire dalla società, più che astraendosi da essa come esito
della sua negazione o del suo superamento, che è possibile porre la questione del bene o del giusto da
compiere, perché è al suo interno che è resa possibile e configurata la grammatica essenziale del vivere
bene, anzi la stessa domanda sul bene comune e sociale. Ciò che inizialmente si nomina come società è in
realtà istituito dalla simbiosi di ethos storicamente determinato, coscienza individuale e domanda di
giustizia. La paideia dunque non assume la forma dell’adattamento alla comunità del singolo pensato
come se fosse isolato, del suo inserimento in essa attraverso delle appartenenze che gli consentono di
apprezzare il proprio valore, la propria identità; la paideia mira invece a rendere percepibili le evidenze
per cui vale la pena impegnare la propria libertà in una delle forme proposte dall’ethos sociale.
L’atteggiamento critico che essa propizia ci sembra l’unico antidoto alla concezione contrattualistica del
debito (dovere) morale, cioè alla sua riduzione a quanto è esigito, perché ad esso funzionale, dal sistema
sociale oggettivisticamente considerato (cfr. A. BONANDI, Teoria sociale. Punto 1: La società come
condizione – Ethos e morale).
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orizzonte più ampio e oggettivo. In altri termini, egli cercava di far tematizzare delle
intuizioni atematiche propiziate dall’esperienza pratica vissuta nella polis d’origine. La
possibilità per la scuola di concentrarsi sullo sviluppo della criticità era legata al fatto
che l’educazione all’appartenenza avveniva prima, e comunque al di fuori, della scuola.
La paideia, dunque, era di tutti, non solo dei filosofi12.
Con Platone la virtù, il vivere bene, non è più una qualità innata, sviluppantesi
attraverso le forme immediate del vivere, ma diventa definitivamente un problema di
conoscenza, di un sapere intellettuale che può essere trasmesso. Il problema della
morale non è più la vita buona realizzata attraverso l’agire, ma la conoscenza delle idee
cui la realtà deve corrispondere. Suo oggetto non è più la vita, ma idee trascendenti
riguardanti Dio, cioè l’essere come tale13. Si tratta del modello teleologico della
perfezione, in cui la bontà della forma di agire suppone una concezione dell’essere del
soggetto cui corrisponde, a priori, una perfezione alla quale esso può essere ordinato14.
L’evidenza di tale perfezione, tuttavia, è accessibile al soggetto che agisce, non ad una
figura di ragione che è attributo di un soggetto “scientifico”, puramente teorico; e lo è
attraverso le forme dell’esperienza pratica, non invece in maniera oggettivistica, nel
quadro di una considerazione “fisica” o cosmologica della natura. Aristotele toglie la
necessità di una fondazione metafisica dei fini dell’agire riducendo il processo morale a
processo razionale e il bene al complesso di beni da gerarchizzare in base al fine da
perseguirsi (teleologismo), dove però i fini da realizzare rimangono quelli che la
ragione riconosce corrispondenti alla propria natura. E tuttavia tale riconoscimento
rimane possibile nella misura in cui il soggetto è predisposto ad esso, se è già buono.
Dove la bontà dipende dall’educazione ricevuta nella famiglia e nelle forme immediate
del vivere sociale.
Il dissolversi del riferimento ad una polis come ambito di un ethos condiviso porta
alla ricerca di autonomia nell’allontanamento dal maestro15. Il problema morale non è
Per il rapporto tra paideia e criticità, cfr. nota 15 a p. 6.
12
Cfr. G. ANGELINI, discussione (cfr. S. ZACCHI, La riforma della scuola (2)).
13
La fondazione metafisica dell’etica, che presuppone l’esistenza di due livelli distinti della realtà,
postula la conoscibilità dell’essere in base al quale il dover essere è definito: in specie, di Dio (Cfr. R.
PAVESI, Corso di etica. Il problema dell’Etica filosofica oggi).
14
Insieme a quello teologico, il principio della perfezione rappresenta il modello fondamentale al quale I.
Kant riconduce i principi della moralità di carattere razionale nel celebre bilancio che egli ne traccia nella
seconda sezione de Fondamenti della metafisica dei costumi (Cfr. G. ANGELINI, Teologia, p. 195).
15
Nella cultura della Grecia classica principi e valori del patrimonio comune non erano trasmessi nella
loro immutabilità, come nella cultura egizia od indiana: lo scopo non era conservare, ma trasformare. Per
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più l’integrazione nella comunità, ma il dominio della realtà ottenuto preservando la
vita, intesa in senso soggettivo e dunque a prescindere dal nesso con la comunità,
dall’irrazionalità di passioni, emozioni, desideri16. Infatti il bene da realizzare non è più
quello della polis, preminente (per Platone) o comunque corrispondente (per Aristotele)
al bene dei singoli cittadini. Anzi: in un contesto diverso da quello delle città-stato
greche, caratterizzate da sistemi partecipativi, l’iniziazione ad un ethos condiviso viene
vista come asservimento alla polis, la trasmissione di un principio di identità come
prevaricazione17. I sistemi etici che si sviluppano considerano il soggetto non più dal
punto di vista della collettività cui appartiene, ma della sua individualità. In altri
termini18, se fino al III sec. a. C. in Grecia l’armonia e l’ordine che che potevano
sottrarre la vita individuale al caso e al caos erano ricercati attraverso la mediazione
della saggezza civile, i sistemi etici che si affermano nel periodo abbandonano la
speranza che una qualche sapienza possa fare da istanza unificatrice del reale,
limitandosi così alla soddisfazione dei soli bisogni fondamentali, essendo ogni altra
esperienza, compreso il piacere, fumo (cinici); alla tranquillità dell’animo attraverso
una vita sobria, con poche cose, per evitare che il piacere di perseguire un fine degno, il
bene morale, sia divorato da desideri divenuti insaziabili (epicureismo)19; o ancora alla
accettazione come unico criterio di verità, stante l’inattendibilità di ogni altra
conoscenza, del sentire individuale momentaneo (lo scettico sospende ogni giudizio per
liberarsi dalla vanità delle opinioni del suo ambiente attraverso l’epoché). Unico
sistema etico che non rinuncia a ricercare un senso ed una verità nella totalità di quanto
accade nel mondo umano, e nella realtà in generale, è lo stoicismo20, che indica la via
questo l’educazione puntava non alla ripetizione ma alla criticità (con riferimento a M. CACCIARI, Gli
intellettuali, cfr. S. ZACCHI, La riforma della scuola (1)).
16
Il razionalismo greco fu, fin da Socrate, sospettoso di tutto ciò che non aveva misura e forma delimitata
agli occhi della ragione. Sulla scorta di esso, la tradizione teologica egemone di fatto irrigidì il dualismo
di carne e spirito, di passione e ragione. Così ratio e sensus, e quindi appetitus rationis (voluntas) e
appetitus sensitivus, sono considerati rigidamente separati. Ne consegue il primato della ratio
sull’appetitus sensitivus (primato politico, non dispotico, come lo qualifica S. Tommaso al seguito di
Aristotele), e la natura razionale della legge naturalie o legge morale. La dissociazione e il conseguente
rapporto gerarchico conducono alla pratica sottrazione di ogni valore assiologico all’appetitus sensitivus:
ogni inclinazione umana non in grado di mostrare la sua “razionalità” (cioè la sua corrispondenza al fine
costituito dal bene comune – l’etica greca è tutta etica politica), è dequalificata allo stadio di appetitus
sensitivus, ossia istinto irrazionale scaturente da un bisogno cieco, inattendibile sotto il profilo etico (cfr.
G. ANGELINI, Il senso, pp. 412-413).
17
Il riferimento è a G. ANGELINI, discussione (cfr. S. ZACCHI, La riforma della scuola (2)).
18
Con riguardo ai sistemi etici di seguito presentati il riferimento è a A. BONORA, Qohelet, pp. 44-46.
19
Non sfugga la contiguità di questa proposta etica con quella del Buddhismo.
20
Cfr. G. ANGELINI, Teologia, pp.63-64.