5
della società, avrebbe tutte le potenzialità per riprendere e innovare le teorie e le pratiche
che fin dal passato hanno caratterizzato la scena artistica, almeno quella occidentale. L’arte
come promozione dell’espressione creativa e di emancipazione delle persone, che si
contrappone invece all’arte al servizio del potere
1
.
Non è un caso probabilmente che il cosiddetto teatro sociale stia vivendo in questo
periodo storico un momento di grande vitalità. Nell’attuale sistema globalizzato di
comunicazione, in cui i confini ed i ruoli di ogni disciplina sono sempre meno definiti,
anche il teatro deve affermare con chiarezza il suo ruolo. Un ruolo che non può prescindere
dal legame forte ed indispensabile che il teatro stesso intrattiene con l’apparato sociale.
Se da un lato, però, questo legame spiega in qualche modo la ragione per cui il teatro
non può evitare di interessarsi delle problematiche sociali, rimangono altre questioni da
chiarire. Perché questo bisogno di mettere in scena non solo i disagi ma anche gli stessi
emarginati? L’emarginato “serve” in qualche modo alla riuscita dello spettacolo? Ed
inoltre, cosa c’è dietro? Sempre e soltanto una pura volontà d’arte o in qualche modo i
teatranti, e soprattutto le istituzioni coinvolte, possono essere spinti anche dalla volontà di
fare un’operazione d’immagine?
In questo lavoro cercheremo di dare risposta a questi interrogativi, analizzando la
comunicazione teatrale che ha come scenario il carcere. È importante sottolineare che il
teatro sociale, pur non condividendo le forme del teatro istituzionale, deve definire una
precisa metodologia di lavoro, individuando le specifiche competenze professionali degli
artisti e dei conduttori dei laboratori ed escludendo del tutto quei progetti che siano
un’operazione d’immagine o di prestigio per le istituzioni committenti. Partendo dal
presupposto che il teatro vive e si nutre principalmente di contributi pubblici, uno dei rischi
principali è, infatti, che si assista ad un proliferare di spettacoli e di progetti relativi
all’ambito sociale, condotti però da artisti completamente impreparati per questo settore,
che adottano metodologie non meditate o inefficaci per le finalità dell’attività stessa. Il
teatro sociale, così come il teatro d’arte, deve essere condotto da operatori, attori, registi
seriamente preparati ad affrontare questo tipo di lavoro per evitare che questa attività risulti
non solo inutile, ma addirittura dannosa.
Proprio analizzando le varie metodologie professionali sulle quali si può fondare
l’attività teatrale in carcere, abbiamo osservato che alcune di queste tecniche sono molto
vicine all’approccio clinico ed utilizzano il mezzo teatrale come strumento terapeutico;
1
BERNARDI C. (2004), Il teatro sociale: l'arte tra disagio e cura, Carocci, Roma.
6
altre tecniche tendono ad occuparsi dei gruppi, delle comunità e di quei comportamenti
sociali che attraverso il teatro possono essere cambiati, portando ad un miglioramento delle
condizioni di vita del gruppo stesso e delle capacità di socializzazione dei singoli; altre
ancora, infine, prestano attenzione alla persona e a riattivare o migliorare le sue possibilità
di autoespressione. Come vedremo più ampiamente nel corso del presente lavoro, queste
tre metodologie si affiancano e vanno di pari passo con le tre tipologie di aspettative che si
attendono all’interno di una comunicazione e quindi anche all’interno della comunicazione
teatrale:
aspettative normative quando ci si attende che le aspettative generalizzate
rimangano stabili nella società; aspettative cognitive, quando ci si aspetta che vi
sia un cambiamento rispetto alle aspettative generalizzate; aspettative affettive
quando ci si attende che le aspettative specifiche (non generalizzate) siano
espresse, cioè ci si aspetta come risultato della comunicazione l’autoespressione da
parte dei partecipanti, anziché l’espressione di aspettative generalizzate all’interno
della società
2
.
Percorrendo queste tre linee ed analizzando allo stesso tempo le diverse metodologie di
lavoro utilizzate in carcere, è possibile individuare a grandi linee tre tipologie d’intervento.
Ogni tecnica potrà, infatti, essere messa in relazione con le aspettative che ci attendiamo
dall’utilizzo della tecnica stessa ed in base a queste definiremo quindi diverse linee
d’intervento: quelle che definiremo metodologie ispirate ad aspettative normative,
descrivono le tecniche che intervengono sull’individuo, ma in particolar modo sulla sua
capacità di adeguamento alle norme del sistema sociale, come il Teatro dell’Oppresso;
quelle che definiremo metodologie ispirate ad aspettative cognitive, sono le metodologie
orientate al cambiamento e all’apprendimento e racchiudono, dunque, quelle tecniche che
si pongono come obiettivo principale un cambiamento sull’individuo, poiché mirano ad
insegnargli qualcosa e a forgiare le personalità individuali, come nel caso della
Drammaterapia e dello Psicodramma; quelle che, infine, definiremo nel presente lavoro
come metodologie ispirate ad aspettative affettive descrivono tecniche più vicine
all’ambito teatrale, come il laboratorio teatrale, che vedono nell’autoespressone della
persona un momento essenziale. Sono aspettative, infatti, sensibili alle condizioni
2
BARALDI C. (2003), op. cit., p. 30.
7
contingenti, per le quali viene attesa la conferma come forma di conforto. Si tratta di
aspettative non generalizzabili, a differenza delle aspettative normative, perché
riconoscono l’unicità e la specificità degli interlocutori e creano imprevedibilità sociale. In
questo senso, le aspettative affettive sono cognitivamente irrazionali e normativamente
devianti, poiché non fissano criteri generali per trattare i risultati deludenti della
comunicazione ma prestano attenzione alla specificità dell’individuo, di qualunque tipo
essa sia.
Il teatro in carcere può essere, infatti, un importante strumento nelle mani dei detenuti.
Il teatro è una forma d’arte che nasce dalla libera espressione dell’uomo e dalla
estrinsecazione del sé e che in questo contesto si trova a confrontarsi con l’istituzione
carceraria, un ambiente estremamente chiuso, barricato, estraneo alla città, dove il detenuto
è costretto a rinunciare alla gestione autonoma della propria vita, del proprio tempo, dei
propri desideri. La condizione esistenziale del detenuto è, dunque, una condizione alienata,
che difficilmente ha modo di aprirsi al dialogo e spesso anzi è costretta a chiudersi
nell’incomunicabilità. Il teatro in carcere scardina questo meccanismo.
Nonostante ciò, in realtà, esiste un notevole problema, ossia il ritorno alla reclusione
dopo ogni laboratorio oppure dopo ogni spettacolo, nei casi di vere e proprie compagnie
teatrali. In questa fase bisogna prendersi cura di ogni singola persona, facendo attenzione
che il detenuto non si abitui troppo a vivere questa esperienza solo come scoperta degli
altri ma soprattutto come occasione per se stessi. Se consideriamo, infatti, che il tempo
profuso dagli attori-detenuti per la rappresentazione degli spettacoli viene generalmente
“detratto” dall’utilizzo dei permessi premio personali di cui questi dispongono quando
giungono nei termini per ritornare a casa e dalle loro famiglie, comprendiamo anche che
genere di investimento possa rappresentare questa attività per loro.
Il carcere cancella l’identità culturale delle persone detenute mentre il teatro interviene
fortemente e agisce sui carcerati attraverso la memoria e il dialogo, che sono i suoi
presupposti fondamentali. Per approfondire meglio come il carcere agisca
sull’individualità di chi ne entra a far parte, ad un certo punto della propria vita, è utile
esaminare le teorie di Michel Foucault riguardo la costituzione del soggetto e la funzione
del carcere nell’età moderna, esplicitate nel suo testo fondamentale, Sorvegliare e punire:
nascita della prigione
3
. Per Foucault quello che porta alla nascita del carcere è
un’operazione che egli definisce di partage, cioè di separazione: nell’Ottocento, per
3
A questo proposito si vedano: FOUCAULT M. (1961), Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano;
ID. (1975), Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Einaudi, Torino.
8
arginare la criminalità, questa operazione separa i cittadini per bene dai criminali e per
marcare questo confine vengono istituite le carceri, dove vengono appunto isolati i
delinquenti. Il carcere nasce dunque come luogo di isolamento. In realtà, sostiene sempre
Foucault
4
, il carcere non ha niente a che vedere con la funzione sociale e di recupero che
gli si vuole attribuire, anzi, al contrario è una vera e propria fabbrica di delinquenza che
non è capace di combattere il crimine ma, al contrario, lo incrementa. Ma questo ha poca
importanza perché comunque il cittadino per bene si sente sicuro grazie a questa divisione
sociale che è stata fatta tra gli onesti ed i disonesti.
Nell’analisi di un’istituzione bisogna distinguere varie cose. In primo luogo quella
che si potrebbe chiamare la sua razionalità o il suo fine, cioè gli obiettivi che si
prefigge e i mezzi di cui dispone per raggiungere questi obiettivi: in definitiva, il
programma dell’istituzione così come è stato definito. In secondo luogo, gli effetti.
Solo molto raramente gli effetti coincidono con il fine: così, l’obiettivo del carcere-
correzione, il carcere come strumento di riparazione all’errore commesso
dall’individuo, non è stato raggiunto. L’effetto è stato invece contrario e la
prigione ha piuttosto rinnovato i comportamenti di delinquenza. Quando l’effetto
non coincide con il fine, si hanno parecchie possibilità: o si attua una riforma o si
utilizzano questi effetti per un qualcosa che non era stato previsto all’inizio ma che
può benissimo avere un senso e un’utilità. Questo qualcosa potremmo chiamarlo
l’uso: così la prigione che non ha avuto effetti correttivi, è invece servita come
meccanismo di eliminazione. Il quarto livello di analisi è costituito da quelle che
potremmo definire configurazioni strategiche: a partire da questi usi in un certo
senso imprevisti, nuovi ma nonostante tutto, fino ad un certo grado volontari, si
possono costruire nuove condotte razionali, diverse da quelle del programma
iniziale, ma che rispondono pur esse a degli obiettivi e nell’ambito delle quali
possono collocarsi i giochi tra i diversi gruppi sociali
5
.
Su questa base teorica è possibile affermare che la detenzione, così com’è concepita
dall’Ottocento fino ai giorni nostri, non è uno strumento in grado di “riabilitare” i carcerati,
ma è una forma, un nuovo potere tecnologico che come molte altre, tipo gli ospedali, le
4
Cfr. FOUCAULT M. (1975), op. cit.
5
Si veda l’intervista fatta da Foulek Ringelheim a Michel Foucault nel 1990, tratta dal sito internet
http://www.ecn.org/filiarmonici/foucault.html
9
scuole e le caserme
6
, viene utilizzata dalle “discipline”.
L’attore in quanto artista produce un’energia tale che la pratica teatrale lo aiuta a non
cedere all’alienazione della vita carceraria; in questo senso agiscono sia i laboratori che le
attività sceniche le quali contribuiscono ad un notevole rafforzamento della persona e ad
un arricchimento di risorse fisiche e mentali. Perché il teatro è fondato sulla possibilità di
esprimersi sia mentalmente che fisicamente: l’attività mentale stimola il pensiero e rende
manifesta l’interiorità, la sfera emotiva, mentre l’attività fisica coinvolge il corpo
rendendolo libero di esprimersi attraverso il gesto e di relazionarsi continuamente con gli
altri.
A questo punto la teoria di Foucault s’incrocia con la riflessione di Armando Punzo,
uno dei primi registi in Italia a credere e a portare avanti l’esercizio teatrale in carcere, e a
creare una compagnia teatrale stabile, la Compagnia della Fortezza che opera nel carcere di
Volterra. Secondo lui il lavoro teatrale nelle carceri è legato ai concetti di limite e
resistenza
7
. Il teatro rappresenta lo strumento per combattere quel limite che all’interno del
carcere si concretizza in maniera abnorme e questo suo pensiero ci permette quindi di
chiarire meglio anche l’altro, fondamentale, confine all’interno del quale il teatro sociale si
muove: quello tra terapia ed espressione artistica.
Spiega Punzo che,
c’è una grande differenza fra l’utilizzare il teatro come mezzo affinché i detenuti
capiscano, crescano, si liberino, e l’affrontare il teatro come una prova, per poi
scoprire di essersi liberati, di aver capito, di essere cresciuti. […] Nel carcere c’è
un mondo inespresso che non altre possibilità di venire alla luce
8
.
Il pensiero di Punzo e la riflessione teorica di Michel Foucaul convergono su un punto
che è senz’altro un momento chiave all’interno del presente lavoro, ma anche nell’ambito
di una riflessione più ampia sulle finalità del teatro in carcere: la differenza che sussiste,
cioè, tra fine ed effetto, per utilizzare le parole dello stesso Foucault, o tra mezzo e prova
come spiega invece Punzo. Il teatro in carcere non può porsi come fine l’azione
terapeutica, né può essere un mezzo nelle mani della terapia. Il teatro in carcere può, però,
pur non essendo e non volendo nemmeno essere una terapia, rappresentare una prova per i
6
Cfr. FOUCAULT M. (1975), op. cit.
7
Cfr. PUNZO A., Limite e resistenza, in BERNAZZA L. E VALENTINI V. (1998) (a cura di), La Compagnia
della Fortezza, Rubbettino, Saveria Mannelli.
8
Cfr. PUNZO A., Limite e resistenza, op. cit., p. 47-50.
10
detenuti e di conseguenza produrre in essi l’effetto che, forse, potrebbe generare un’azione
terapeutica. La pratica teatrale ha tutti i mezzi, infatti, per stimolare un miglioramento delle
capacità di espressione personali, delle capacità di socializzazione, della comprensione
delle dinamiche e dei meccanismi che si nascondono dietro a determinati problemi sociali.
Questi aspetti sono degli effetti che la pratica teatrale produce, specialmente in ambito
sociale, ma fine ed effetto sono due concetti dal significato molto diverso.
Il teatro che agisce nel carcere o più in generale nell’ambito sociale, non ha finalità
terapeutiche o educative, proprio perché il teatro non può essere assimilato ad una terapia,
ma può comunque provocare degli effetti che riguardano da vicino il miglioramento delle
capacità e delle competenze individuali, proprio come nelle migliori aspettative di un
trattamento terapeutico.
11
Capitolo 1 – SISTEMI SOCIALI E TRATTAMENTO DELLA
DIVERSITÀ
Il teatro non ha categorie, ma si occupa della
vita. Ecco l’unico punto di partenza, e non c’è
nient’altro di veramente fondamentale.
Il teatro è la vita […]. Si va a teatro per trovare
la vita, ma se non c’è differenza tra la vita fuori
dal teatro e quella al suo interno, allora il teatro
non ha senso.
[Peter Brook, La porta aperta]
1.1 Comunicazione e mutamenti sociali nella società moderna
Per capire meglio quali siano la funzione e gli obiettivi del fare teatro in carcere ed in
generale in ambito sociale, risulta necessario analizzare i processi culturali che
caratterizzano la società moderna, primo tra tutti il processo di globalizzazione, che
condiziona ed influenza ogni aspetto della società moderna, producendo dei risultati che
caratterizzano fortemente la modernità. È interessante anche osservare come venga inteso
il trattamento della diversità all’interno dei diversi sistemi sociali che si sono succeduti e
nell’ambito della società moderna, in quanto l’oggetto di questo lavoro si riferisce proprio
all’esperienza teatrale applicata ai cosiddetti diversi, a coloro che vivono ai margini, ai
soggetti discriminati ed isolati.
Per comprendere meglio i mutamenti sociali in oggetto, chiariamo innanzitutto cosa
intendiamo quando parliamo di comunicazione, un termine tanto utilizzato quanto forse
sfuggente nel suo significato profondo. La comunicazione è frutto del coordinamento tra
un’azione comunicativa e le sue interpretazioni, che non sono univoche ma sono tante
quanti sono gli interlocutori che partecipano alla comunicazione
9
. La sola azione
comunicativa, dunque, non dà vita ad una comunicazione, ma ha necessariamente bisogno
di un soggetto che la comprenda e che partecipi al coordinamento
10
. Ciò che deriva da
questa coordinazione, cioè l’informazione, non è qualcosa di oggettivo, ma è a sua volta
9
Cfr. BARALDI C.(2003), Comunicazione interculturale e diversità, Carocci, Roma.
10
Si veda PEARCE B. W. (1993), Comunicazione e condizione umana, Angeli, Milano.
12
una costruzione sociale, che trova realizzazione solo nel momento in cui l’azione
comunicativa viene compresa. L’azione di comprensione, e quindi di interpretazione,
ricopre un’importanza fondamentale nel sistema comunicativo
11
.
Gli elementi fondamentali ed accettabili della comunicazione vengono selezionati ed
ammessi da una struttura che è definita forma di comunicazione. Con questa espressione ci
si riferisce appunto ad una struttura che orienta la comunicazione, selezionando ciò che
ammesso e ciò che invece deve essere escluso da un certo processo comunicativo. In
questo modo la forma di comunicazione agisce sulle parti principali della comunicazione:
il contenuto della comunicazione (l’informazione), il ruolo dei partecipanti alla
comunicazione (particolarmente rilevante è ad esempio la distinzione tra i contributi dei
ruoli, riproducibili, e quelli delle persone, unici ed autonomi), i risultati immediati e le
conseguenze future della comunicazione (le forme di aspettative)
12
. La forma della
comunicazione è dunque data dall’insieme di tutti questi elementi, che appunto definiscono
i confini di una determinata comunicazione.
Le forme comunicative, però, devono essere considerate anche alla luce di una serie di
mutamenti socioculturali che si sono sviluppati molto lentamente nel corso dei secoli e che
hanno visto il cambiamento della struttura fondamentale della società. Niklas Luhmann
13
sottolinea come i cambiamenti delle forme di comunicazione siano andati di pari passo con
il graduale passaggio da una struttura sociale all’altra: ne deriva che anche la
comunicazione è strettamente connessa ai cambiamenti socioculturali che hanno trovato
attuazione nel corso della storia. Guardando indietro, il primo momento di cambiamento in
cui possiamo iniziare a parlare di comunicazione interculturale, si ha nel passaggio dalla
società segmentata alla società gerarchica: mentre la prima struttura sociale è
caratterizzata da un certo isolamento e quindi vede il prevalere di una sostanziale
omogeneità al suo interno, le comunità gerarchiche si contraddistinguono, invece, per
l’emergere di disuguaglianze e quindi per la comparsa di una prima forma di diversità a
livello sociale. Con questa prima manifestazione della diversità anche la forma di
comunicazione attraversa una fase di mutamento, passando dalla forma monoculturale,
com’era in passato, ad una iniziale forma di comunicazione interculturale, che riconosce
l’esistenza di una pluralità di interpretazioni e visioni tra i partecipanti alla comunicazione.
11
Cfr. BARALDI C. (2003), op. cit.
12
BARALDI C. (2003), op. cit.
13
LUHMANN N. E DE GIORGI R. (1993), Teoria della società, Angeli, Milano.
13
In questo modo viene dunque riconosciuta per la prima volta la diversità
14
. Tipica ed
innovativa di questa struttura societaria è la consapevolezza che una totale ed univoca
adesione ai medesimi orientamenti culturali non sia in alcun modo possibile e dunque
ammette il manifestarsi di una pluralità di visioni, anche divergenti, all’interno della stessa
società. La diversità culturale, la mancata condivisione degli stessi simboli e l’ammissione
del pluralismo, possono produrre come effetto anche l’instaurarsi di una certa
conflittualità: ecco che la comunicazione interculturale si pone come una forma di
comunicazione che accetta ed ammette l’affermazione positiva della diversità culturale.
La prima forma di comunicazione interculturale individuabile storicamente è
l’etnocentrismo
15
. In questo caso la diversità culturale nella comunicazione è osservabile
nella forma di gerarchia e di differenza di valore tra i gruppi sociali partecipanti alla
comunicazione. Questa diversità è caratterizzata dal fatto che nella comunicazione sono
presenti un Noi, generalmente associato a valori positivi, e un Loro che al contrario è
portatore di valori negativi. La diversità dunque si esprime in questo sistema a seconda che
si venga inclusi o esclusi da uno dei due gruppi: chi rientra nell’altro gruppo per le sue
caratteristiche personali, non rientra nei confini del Noi e di conseguenza viene classificato
come “diverso”. In questo modo, vengono create delle categorie e gli individui, in base ai
valori e ai caratteri di cui sono portatori, ne vengono inclusi o esclusi. Ecco che, con la
differenziazione e contrapposizione rispetto a ciò che presenta caratteristiche diverse e con
il senso di appartenenza invece al gruppo a cui ci si sente affini, viene costruita l’identità
dei soggetti, come ad esempio l’identità etnica. La condivisione, infatti, di simboli e di
caratteristiche comuni riconducibili alla propria appartenenza etnica, dà luogo molto
agevolmente a forme di comunicazione etnocentrica, poiché gli individui si sentono
accomunati o al contrario differenziati proprio in seguito al riconoscimento ed adesione ad
un determinato gruppo sociale: Noi, accomunati da determinate caratteristiche, etniche per
esempio, siamo diversi da Loro, che presentano altre specificità lontane da Noi.
Il tipo di società in cui, per la prima volta, la diversità viene non soltanto accettata ma
anche riconosciuta come un valore, è la società differenziata per funzioni, che alla struttura
gerarchica sostituisce dei nuovi sistemi di funzione (come possono essere il sistema
giuridico o il sistema familiare). Questo è un mutamento socioculturale che riveste
un’enorme importanza ed è strettamente legato all’emergere di una società moderna in
Europa. La rilevanza che questa nuova fase ricopre nel trattamento della diversità è
14
BARALDI C. (2003), op. cit.
15
Ibidem
14
fondamentale: la diversità delle forme culturali per la prima volta non viene soltanto
accettata e riconosciuta, ma addirittura considerata come un valore positivo. Adesso, alla
struttura gerarchica della società, fonte principale di differenziazione nel passato, si
sostituisce una nuova struttura societaria, composta stavolta da un pluralismo di sistemi
sociali indipendenti l’uno dall’altro, ma analogamente importanti ed ognuno di questi
opera autonomamente una selezione delle forme culturali rilevanti al proprio interno.
Questo sistema, molto più complesso del precedente, riconosce il pluralismo di valori e
significati che possono essere attribuiti alle varie funzioni, quindi contribuisce ad
incrementare notevolmente la complessità della società. Allo stesso tempo si può affermare
che in questo modo nasce la “cultura moderna europea”, caratterizzata proprio da questo
nuovo pluralismo culturale
16
. Poiché alle diverse funzioni può essere attribuita una
molteplicità di valori, la grande novità risiede nel fatto che nella nuova forma societaria è
ammesso un pluralismo di forme culturali diverse fra loro ma aventi identica e paritaria
importanza all’interno della società. Questa caratteristica fa in modo che decada quella
contrapposizione Noi/Loro, precedentemente esistente, proprio perché, essendo
riconosciuto il pluralismo culturale, non sussiste più il dominio di un gruppo su un altro in
base a criteri di gerarchia. È così che nascono codici differenti, come l’amore, la fede, la
giustizia, che all’interno della struttura sociale sono essenziali e rilevanti nello stesso
modo.
Una caratteristica importante di questa nuova società moderna è che con il superamento
della codificazione gerarchica, si supera anche la concezione della diversità culturale come
diversità tra gruppi sociali e invece la diversità viene sempre più strettamente connessa
all’espressione della persona.
1.2 Il trattamento della diversità culturale
Grazie al processo appena descritto, la diversità tende a divenire una questione che
riguarda principalmente la persona, ma il suo valore positivo nella società rimane
indiscusso. Chiaramente il significato della diversità viene costruito nel tempo e si pone in
stretta relazione con i mutamenti socioculturali che si verificano: il processo di
globalizzazione, che si sviluppa e caratterizza tutto il XX secolo, ha prodotto degli effetti
16
Ibidem
15
che sicuramente hanno influito sulla costruzione del significato della diversità. L’avvento
della società globalizzata ha posto nuovamente in primo piano il dibattito sul valore della
diversità culturale intesa come identità di gruppi e in secondo luogo, mettendo in luce per
la prima volta in modo veramente allargato l’esistenza di una molteplicità di forme di
diversità, ha anche evidenziato la grande frammentazione del contesto sociale, che mai
come adesso era stata osservata in modo così approfondito.
Questo processo fa sì che la diversità divenga un fatto “quotidiano”: si assiste, cioè,
grazie anche a questo enorme cambiamento sociale, alla “normalizzazione” della diversità
all’interno della società, ma in questo modo emergono violentemente anche tutte le
discriminazioni e le disuguaglianze legate al concetto di diversità. Infatti, la
globalizzazione nella società differenziata per funzioni porta alla diffusione
dell’individualismo e con questo dà quindi rilievo alle prestazioni di ruolo, creando nuove
forme di disuguaglianza basate stavolta sulle diverse prestazioni. In questo modo, si
determina una non-inclusione delle diversità, a meno che non siano legate all’appartenenza
di gruppo, quindi la forma di comunicazione interculturale che continua a sussistere è di
tipo etnocentrica, anche se con degli elementi diversi rispetto a quelli che presenta nelle
società di tipo gerarchico.
L’adesione alla cultura della modernità sembra che si attui attraverso
la libera analisi critica delle tradizioni ricevute; la tensione personale verso
l’autoaffermazione, in rapporto all’etica della responsabilità individuale e del
rischiare se stessi nei propri impegni; la separazione netta fra la sfera pubblica e
la sfera privata e soprattutto fra la sfera laica e quella religiosa; il decadere dei
vincoli tradizionali tribali, o di clan, e anche del peso della famiglia allargata; in
rapporto a quest’ultimo fattore, la sostituzione dell’etica (universale) del diritto a
un’etica (particolaristica) del privilegio; inoltre, la libera contrattualità di tutte le
forme di cooperazione (dalla cooperazione d’impresa alla cooperazione sessuale
nelle coppie); la libertà di accesso alle informazioni e all’istruzione; e infine
anche, con tutto ciò, la mobilità delle identità individuali.
17
Il paradosso che compare adesso nella società differenziata per funzioni è quello del
pluralismo monoculturale: questo tipo di società, infatti, pone come valori fondamentali ed
17
JERVIS G. (1997), La conquista dell’identità. Essere se stessi, essere diversi, Feltrinelli, Milano, pp. 53-54.