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Introduzione
di Roberto Pieracini
Il ritorno ad un periodo, un tempo passato e cercare di valutarne oggi gli effetti
e le conseguenze è difficile, forse anche spiacevole. Non solo per la difficoltà
di una ricostruzione storica, che in questo caso è molto agevolata, Simona
Mazzarelli è riuscita con questa tesi a realizzare un lavoro enorme, una analisi
attenta e meticolosa che nulla ha tralasciato e che costituisce una partenza pri-
vilegiata, senza la fatica del ricordo, ma perché sempre l’analisi di un momento
trascorso porta inevitabilmente ad analizzare il non fatto, a percepirne più le
inefficienze che gli aspetti qualitativi.
Ma ogni promessa è debito, e questa introduzione va fatta.
Grafica di pubblica utilità.
Italia, anni ’85, ’95.
Intendevamo allora con questo termine la comunicazione dedicata al cittadino
da parte dell’amministrazione pubblica.
Come se non fosse “grafica di pubblica utilità” anche la comunicazione interna
di una grande azienda, come se i 50.000 - 100.000 operai, impiegati, dirigenti
e rivenditori di Olivetti, Fiat, Ansaldo non costituissero anche loro una virtuale
città, equivalente non solo come numero ma per dinamiche interne a città
come Pesaro, Ravenna, Modena.
Con le stesse necessità, una comunicazione interna chiara e pulita, che si
proiettasse poi all’esterno nello stesso modo chiaro e onesto.
In realtà quel momento storico esprimeva la necessità di uscire da una logica
Milano-centrica, concentrata nel business del rampante partito socialista che
stava pian piano monopolizzando tutti gli spazi operativi, e caratterizzata da
totale assenza, perlomeno a Milano, di una qualsiasi politica culturale di sini-
stra.
Portare allo scoperto operatori e gruppi di operatori che lavoravano in provin-
cia e che proprio nelle città di provincia, in assenza del privato e dell’industria,
trovarono validi interlocutori nell’Ente pubblico.
Ente pubblico di provincia.
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La stessa associazione Aiap – attorno alla quale tutte queste istanze vivevano
– aveva estrema necessità a ricercare operatori, mondi e interessi nuovi, a de-
centrarsi, superando così, pena il proprio annullamento, una crisi interna che
vedeva ancora molti soci inseguire il sogno dell’Agenzia, retaggio degli anni
’60. Agenzia di pubblicità, naturalmente, credendo reale e naturale la trasfor-
mazione da artigiano grafico = studio, media – grande azienda = agenzia.
In questo difficile percorso abbiamo dimenticato e bruciato quel patrimonio di
cultura della comunicazione verso il pubblico che pur a Milano, a Roma, negli
anni ’70, aveva dato grandi esempi.
In questo percorso, pur intenso e pieno di positive tensioni, nuovo per i rap-
porti che si erano venuti a creare e per la tessitura di luoghi e incontri tra que-
sti, abbiamo privilegiato più il valore della forma che il valore del contenuto.
Invece di riflettere e analizzare le particolarità intrinseche alla nostra formazio-
ne abbiamo voluto credere che fosse l’organizzazione, certamente indispen-
sabile ad affrontare servizi sempre più complessi, il modello necessario e di
riferimento e non la ricerca, il linguaggio, la cultura della professione.
Non siamo riusciti ad affrontare i problemi legati ad un linguaggio adatto alla
comunicazione pubblica, riaffermando il nostro stile personale.
Nello stesso tempo abbiamo, in quegli anni, assecondato non la sinistra al po-
tere ma il potere della sinistra, uguale, ieri e oggi, ad ogni altro potere.
Il credere che la comunicazione di Governo e dell’Amministrazione locale
volesse sfuggire alle regole di mercato e creare le basi per una attività basata
sulla qualità, con un linguaggio nuovo, corretto e onesto e non sulla ricerca del
consenso fu certamente ingenuità.
Abbiamo noi stessi aperto spazi per i nostri più diretti antagonisti, le agenzie
di pubblicità, fidandoci, senza percepirne la unicità dei pochi amministratori
aperti e intelligenti, veri manager della comunicazione, come Stefanini, sindaco
di Pesaro, senza vedere che nello stesso tempo il Direttore della comunicazio-
ne della Presidenza del Consiglio di governi della sinistra, Stefano Rolando, si
riferiva unicamente a agenzie di pubblicità.
Italia, 1995, 2005
Fa sorridere oggi l’accusa di ricerca del consenso e le affermazioni di auto-
nomia, di responsabilità, di dovere morale dell’operatore grafico dinnanzi al
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governo fascista che ci regge e che proprio sul monopolio e sulla manipolazio-
ne della comunicazione raccoglie i suoi maggiori consensi.
La situazione sul territorio è certamente cambiata.
Non si parla più di “grafica di pubblica utilità”; distribuita nel più ampio mondo
di operatori non costituisce oggi ambito di lavoro specifico; come altre speci-
ficità, il disegno del marchio, la corporate identity, l’image, il catalogo prodotti
eccetera non appartiene più in esclusiva all’ambito di lavoro del graphic desi-
gner.
E’ profondamente cambiata anche l’azienda, sia essa pubblica o privata.
Difficile trovare oggi manager della comunicazione capaci di interagire con i
progettisti e collaborare con questi alla ricerca di un linguaggio nuovo, unico,
esclusivo per la propria azienda.
Il già visto e lo zapping sono di moda, il riciclo se non la brutale copia impera-
no, mentre sarebbe un dovere portare le necessità riconosciute al pubblico e
difficilmente realizzate, cioè una immagine colta, responsabile e onesta, a tutto
il mondo della comunicazione, non penalizzando la comunicazione industria-
le, ma cercando di vivere le qualità della professione, ovunque esse abbiano
possibilità di esprimersi.
La linea di difesa può essere solo la scuola, la formazione.
Primo risultato positivo di questi ultimi anni, grazie soprattutto a professionisti
che con entusiasmo hanno dedicato tempo e fatica, anche a discapito del
proprio lavoro. Cominciamo a vedere giovani che escono dall’università, dagli
ISIA, pronti ad entrare nel mondo del lavoro preparati, con un bagaglio cultu-
rale e tecnico di alto livello e con una coscienza del proprio ruolo, centrale al-
l’interno del più vasto mondo della comunicazione; altrettanto entusiasmante
è il proliferarsi di riviste, libri che finalmente vengono tradotti e scritti, bagaglio
anche questi indispensabile per la nostra cultura e per sviluppare un’ analisi
critica necessaria.
La tesi di Simona è proprio la dimostrazione di tutto questo.
Rappresenta la fine di un percorso e l’inizio dell’attività di un professionista,
operatore tecnico-culturale che dimostra di avere tutte le conoscenze neces-
sarie per affrontare, e non subire, il mercato.
Il rigore nella ricerca, l’entusiasmo e il piacere della conoscenza e la padronan-
za della messa in pagina ne fanno una grande professionista.
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Cos’è la ‘grafica di pubblica utilità’
1.1 Sulla definizione di grafica di pubblica utilità
La grafica di pubblica utilità è quel settore della grafica che opera per la com-
mittenza pubblica. Ma non solo. Non si tratta semplicemente di una diversità
di committenza. Essa opera nel senso di supportare la gestione della ‘cosa’
pubblica e quindi acquisire una diversa utilità. Si tratta di un’area di indagine
che ha come punto focale d’attenzione la comunicazione visiva dell’ente pub-
blico, cioè l’insieme di istituzioni sociali, politiche, culturali, rivolta all’individuo
inteso come soggetto sociale e non come consumatore.
Lo scopo della grafica di pubblica utilità è quello di produrre fondamentalmen-
te servizi, di considerare il sociale come un insieme di soggetti attivi, di utenti e
cittadini, che contribuiscono in maniera primaria alla struttura della società.
Vi è una netta distinzione tra la comunicazione di pubblica utilità, riferita alla
sfera culturale (per teatri, manifestazioni ed eventi promossi dalle amministra-
zioni pubbliche), sociale (segnaletica e informazione per il miglioramento dei
servizi sociali gestiti dall’ente pubblico), politica (campagne di informazione e
propaganda da parte di partiti politici, organizzazioni sindacali) ed educativa
(campagne volte ad incentivare dei comportamenti in base alla coscienza
civica, utilizzo responsabile delle risorse naturali, attenzione verso le tematiche
ambientali ed ecologiche), e la comunicazione pubblicitaria che è evidente-
mente finalizzata alla vendita di beni o servizi con scopo di lucro. Le accezioni
propaganda e pubblicità sono sempre state utilizzate per quelle forme di
comunicazione che si riteneva avessero un obiettivo pragmatico, cioè quello
di determinare dei comportamenti conseguenti. Questo per distinguere tali
forme da quelle che non miravano a sollecitare azioni o innescare processi, ma
semplicemente a scambiare messaggi ed informazioni.
Il dibattito ruota intorno al ruolo sociale di questa disciplina, all’individua-
zione di interrogativi profondi, complessi e pressanti che evidenziano la crisi
nell’ambito della collettività e che mirano a concrete proposte di intervento,
di progresso, di solidarietà includendo i vari bisogni necessari per la vita degli
individui, fondati sulla giustizia sociale e sulla libertà delle proprie scelte. In
antitesi al modello pubblicitario eccessivamente idealizzato, il quale include la
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sola redditività economica. Mentre l’ideologia pubblicitaria si propone come
modello di scambio, e quindi anche di comunicazione, il rapporto commercia-
le spesso utilizzato come strumento di de-socializzazione e di de-culturalizza-
zione, la grafica di pubblica utilità si propone di realizzare progetti comunicati-
vi di qualità per tutti, per una maggiore umanità, giustizia e solidarietà.
Dal punto di vista dei contenuti questo tipo di grafica svolge una funzione
sociale fondamentale: quella di informare, di contribuire a creare nei cittadini/
utenti una coscienza politica, di suscitare delle riflessioni, di divulgare e rende-
re noto tutto ciò che è d’interesse della società, di denunciare i problemi della
collettività e prospettarne eventuali soluzioni in opposizione alla disinforma-
zione manipolatrice dei messaggi pubblicitari e all’informazione parziale.
Spingere al ragionamento suscitando interesse per un determinato argomento
richiede, da parte del grafico, non solo un maggiore impegno a livello compo-
sitivo-formale, ma anche e soprattutto un forte impegno etico. Questo parti-
colare tipo di grafica è caratterizzata dall’utilizzazione di stili propri e linguaggi
specifici, differenti da quelli della comunicazione commerciale o pubblicitaria
e da quelli della comunicazione d’impresa: non si possono produrre messaggi
di interesse pubblico così come si fa per un qualsiasi catalogo di vendita di
prodotti di consumo indirizzato ad un gruppo di consumatori che si intende
persuadere.
1.2 Il rapporto con la pubblicità
La parola pubblicità è molto abusata, spesso in maniera troppo generica, come
spiegano efficacemente Gelsomino D’Ambrosio e Pino Grimaldi: «Oggi che
anche il livello medio di alfabetizzazione sa ragionevolmente distinguere, per
esempio, tra parole come psichiatria e psicologia, psicoanalisi e psicoterapia,
quando si trova di fronte ai sistemi di comunicazione, circoscrive tutto con
semplicità e traduce in pubblicità, parola buona per tutte le occasioni»
1
.
Giovanni Anceschi dà la seguente definizione di pubblicità:
Per pubblicità si intende ogni singolo annuncio pubblico tendente a promuovere la vendita di
un bene o di un servizio, oppure a diffondere un’idea o comunque ad ottenere presso il pub-
blico dei destinatari un particolare effetto che corrisponda agli interessi dell’annunciante. Più
specificatamente, si intende l’aggregato di fenomeni comunicativi, di tecniche manipolato-
rie, di tecnologie della riproduzione e della diffusione, e contemporaneamente il complesso
delle capacità professionali, creative e operative, delle elaborazioni concettuali e degli sforzi
economici attivati nel contesto del processo di produzione, distribuzione e consumo delle
1
D’Ambrosio, Gelsomino, Grimaldi, Pino, Lo
studio grafico, Edizioni 10/17, Salerno, 1995,
p. 187.
12 13
merci, con l’intento di determinare, modificare o almeno influenzare l’andamento delle
vendite.
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All’interno dell’eterno conflitto fra grafica e pubblicità, i pubblicitari vedono
i creativi come esecutori assoggettati alle logiche strategiche e di marketing
dell’universo pubblicitario, mentre i grafici considerano la grafica pubblicitaria
come uno dei tanti minuscoli sottoinsiemi del grande campo del progetto vi-
suale. La grafica, in generale, non sollecita spinte al consumo come fa invece
la pubblicità, ma è legata alla percezione e alla fruizione dei servizi. Questa è
la definizione di grafica riportata da Anceschi nell’Enciclopedia Europea Gar-
zanti:
La grafica è quel settore della produzione artistica visiva che utilizza la tecnica del disegno
(in contrapposizione alla pittura) e soprattutto alcuni procedimenti tecnici di moltiplicazione
come l’incisione, la litografia, la serigrafia. Quest’eccezione convive, ma tende progressi-
vamente a essere soppiantata, con un uso del termine indicante sia i prodotti sia le varie
fasi della progettazione di quel tipo di artefatti che adempiono a funzioni (principalmente
o esclusivamente) comunicative. Il suo significato tende cioè a coincidere con quello della
locuzione anglosassone visual o graphic design.
3
Il visual designer con il progetto d’identity tende a distinguere, a rendere unica
un’entità da tutte le altre entità che agiscono nell’ambiente sociale, a suscita-
re sensazioni familiari, a differenza della pubblicità che tende ad omologare.
Questi meccanismi sono perfettamente conosciuti e consolidati dall’industria,
mentre gli enti pubblici per soddisfare il proprio bisogno comunicativo si rivol-
gono in genere all’agenzia pubblicitaria, che utilizza lo stesso tipo di linguag-
gio sia per l’immagine di un detersivo che per quella dell’istituzione. Infatti i
migliori progetti di grafica sistemica in Italia si devono alle più grandi aziende
private e a qualche rara esperienza pubblica. Spesso la pubblicità, nell’ambito
dei servizi offerti all’istituzione si limita ad effettuare semplici operazioni di
cosmesi, di restyling per propagandare, per incitare all’azione attraverso la
tecnica deduttiva. In tale logica propagandistica il fruitore viene visto come un
semplice destinatario, se non addirittura come un potenziale elettore nel caso
delle campagne elettorali condotte con le tecniche pubblicitarie.
1.3 Le differenze di linguaggi e mezzi rispetto alla pubblicità
La pubblicità è per eccellenza il medium di massa. Naturalmente parlare di
pubblicità vuol dire fare riferimento alla cultura di massa, all’elemento pubbli-
2
Anceschi, Giovanni, Monogrammi e figure, La
casa Usher, Firenze, 1981, p. 103.
3
Anceschi, op. cit, p. 93.