II
Si ha quindi intenzione di analizzare l’impianto narrativo della sua filmografia tentando
di porre in evidenza come siano costantemente presenti due temi fondamentali: da un
lato l’illusione da parte dei personaggi di poter guidare il proprio destino e dall’altro
l’assoluta impossibilità, dovuta al caso e a forze superiori, di attuare tale controllo.
A questo punto si tenterà di mostrare come tale dualità tematica, evidente studiando il
plot di ciascun film, sembri trovare un parallelo a livello visivo. In particolare si
cercherà di mettere in risalto il fatto che due costanti visive del cinema di Stanley
Kubrick, ossia la prospettiva centrale ed il corridoio, potrebbero costituire la metafora
visiva, rispettivamente, dell’illusione da parte del personaggio di poter controllare il
proprio destino (la prospettiva), e della reale condizione in cui lo stesso personaggio si
trova, cioè impotente a decidere della propria vita ed immesso su un tragitto obbligato
(il corridoio).
Per dare sostanza a tali supposizioni, nel secondo capitolo analizzeremo la prospettiva
sia etimologicamente che storicamente. Inoltre dedicheremo il nostro interesse anche al
pensiero quattrocentesco che parrebbe costituire il retroterra culturale in cui la
prospettiva fu ideata. Tornando poi al cinema di Stanley Kubrick, forniremo per ogni
film esaminato un nutrito numero di esempi relativi alla presenza di una strutturazione
dello spazio cinematografico riconducibile al modello della prospettiva centrale.
Nel terzo capitolo ci occuperemo invece del corridoio, seguendo lo schema di
procedimento utilizzato per l’analisi della prospettiva. Infatti studieremo la figura
architettonica del corridoio dapprima etimologicamente e poi storicamente. Vedremo
quindi la funzione che parrebbe avere e poi, come per il precedente capitolo, studiando
le opere kubrickiane, indicheremo dove è rilevabile il corridoio in ogni film analizzato.
Nel quarto capitolo approfondiremo innanzitutto il significato che pare assumere il
corridoio (suddiviso nella nostra ricerca in corridoio scenico, intendendo con ciò il
corridoio come struttura architettonica, ed in corridoio fotografico, comprendendo in
III
questa definizione quel tipo di corridoio creato dal carrello in avanti o all’indietro e
dallo zoom in avanti o all’indietro
2
) nella produzione di Stanley Kubrick, inteso cioè
come un percorso, un tragitto obbligato in cui il personaggio è costretto a seguire
un’unica direzione impostagli. Quindi dedicheremo la nostra attenzione ad un raffronto
diretto fra i due temi narrativi presenti nei film del regista americano ed i due temi visivi
da noi analizzati. In particolare tenteremo di provare che, generalmente, nel momento in
cui un personaggio si illude di guidare il proprio destino, visivamente si riscontra la
prospettiva centrale, mentre quando si trova in una condizione impostagli, nei confronti
della quale non ha possibilità di controllo, è rilevabile la struttura del corridoio.
2
A questo proposito ringraziamo il professor Eugeni che ci ha suggerito di considerare l’uso dello zoom
come costruzione di un corridoio visivo in luogo di quello architettonico.
1
I.1 IL CINEMA COME ARTE DELLA VISIONE
E’ risaputo che i sensi sono cinque: vista, udito, tatto, olfatto e gusto. La prima,
attraverso gli occhi, ci permette di ricevere l’impressione della luce e di distinguere la
forma e il colore degli oggetti. Il secondo senso rende possibile percepire un suono, un
rumore e simili, per mezzo delle orecchie. Con il terzo, i cui organi, diffusi in tutta la
superficie del corpo, sono specificamente più diffusi nei polpastrelli delle dita,
riconosciamo le forme, le condizioni e le qualità esterne degli oggetti. Il quarto senso,
mediante il quale è possibile percepire gli odori, prodotti dalle emanazioni di particelle
sottili e volatili di alcuni corpi, ha la sua sede nel naso. Il quinto, e ultimo, dal quale si
ha la sensazione dei sapori, risiede nel palato e nella lingua.
Questi sensi sono utilizzati nella vita di tutti i giorni, ma quando si assiste ad uno
spettacolo teatrale o ad un film si riducono a due soltanto, la vista e l’udito.
Per la vista esistono eccezioni minime, legate ad un certo tipo di teatro d’avanguardia,
dove gli spettatori hanno la possibilità di utilizzare gli altri sensi. Per il secondo senso
non esistono eccezioni.
Infatti durante un film lo spettatore non tocca niente che riguardi la finzione sullo
schermo, non annusa nulla, dato che il film non odora (ha un certo odore la pellicola,
ma questo in sala non si sente).
Infine non gusta lo spettacolo cinematografico (può gustarlo metaforicamente, ma non
materialmente). Al massimo può gustare un sacchetto di patatine, elemento inerente alla
sala cinematografica e non al film in sé.
2
Quindi la vista e l’udito, sia per uno spettacolo cinematografico, sia per uno spettacolo
teatrale, risulterebbero gli unici sensi indispensabili, anche se la vista sembrerebbe
superiore rispetto all’udito.
Infatti parlando di teatro lo scrittore latino Orazio ha scritto: “Segnius inritant animos
demissa per aurem / quam quae sunt oculis subiecta fidelibus”
1
.
L’attenzione del lettore cade sull’importanza data agli oculi che sono definiti fideles
rispetto alle aures, che è caratterizzato dall’avverbio in posizione iniziale, quindi più
forte: segnius.
Segnis vale, come è noto, tardo, lento, pigro, neghittoso; fiacco, debole.
2
Perciò in
ambito teatrale il senso dell’udito assume una connotazione inferiore rispetto a quello
della vista, è più debole, più fiacco nel dare emozioni allo spettatore.
Le riflessioni di Orazio sembrano tuttora valide, dato che il teatro dal I secolo a.C. fino
ad oggi non ha subito cambiamenti radicali nella sua struttura
3
.
Per quanto riguarda il cinema, potrebbe risultare chiarificatrice una prova pratica.
E’ sufficiente entrare in una sala cinematografica e chiedere all’operatore
cinematografico di far partire la macchina di proiezione senza sollevare la ventola
paraluce. Il risultato sarà che lo sventurato spettatore, totalmente al buio, si sentirà
circondato da rumori, musica e voci, ma, non riuscendo a comprenderne la provenienza,
si troverà completamente impossibilitato a seguire lo scorrere degli eventi sullo
schermo.
1
Quinto Orazio Flacco, Ars Poetica in Le Lettere, Bur, Milano 1989, p. 266, vv. 180-1
2
Ferruccio Calonghi, Dizionario Latino-Italiano, Rosemberg & Sellier, Torino 1964
3
, p. 2492
3
Infatti il teatro, da quello greco fino a quello contemporaneo, si è sempre fondato sulla presenza di attori
che, in uno spazio separato dal pubblico, recitano un determinato testo. Ad ogni modo per una storia del
teatro si rimanda, ad esempio, a Cesare Molinari, Storia del teatro, Laterza, Bari 1996
3
Quindi sembrerebbe che il cinema, ancor più del teatro, sia legato al senso della vista
più che a quello dell’udito.
Questa più stretta unione tra cinema e vista dipenderebbe dalla sua particolare origine.
Infatti, seguendo ad esempio le indicazioni di Gian Piero Brunetta, le basi del cinema,
databili dal XV secolo in poi, poggiarono su una ricerca dell’icononauta
4
.
L’icononauta, viaggiatore delle e fra le immagini, è l’uomo visionario che ha il potere di
muoversi nell’iconosfera, cioè lo spazio delle immagini, di dominare e colonizzare il
tempo e lo spazio, di usare gli occhi come remi per navigare liberamente, alla velocità
della luce. Insomma è colui che ha la capacità di apprendere in modo naturale il
linguaggio delle immagini e di sapersene servire come vero e proprio mezzo di
comunicazione, riuscendo a superare ogni forma di separazione politica, geografica,
linguistica
5
.
Il cinema si pone quindi al termine dell’evoluzione scientifica dell’icononauta,
precisamente alla fine del XIX secolo, quando furono presentati i primi spettacoli
cinematografici dei fratelli Lumière e dei loro concorrenti
6
.
4
Questo neologismo, icononauta, è stato inventato da Gian Piero Brunetta che lo ha coniato per un suo
voluminoso e recente studio Il viaggio dell’icononauta dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei
Lumière, Marsilio, Venezia 1997, dove ha descritto in maniera ampia e accurata gli antecedenti che
portarono l’uomo prima alla scoperta della fotografia e poi a quella del cinematografo. Su tale tema cfr.
anche Bruno De Marchi, Umbra Dei e palpebra del cinema, luce, Euresis, Milano 1996 e René Prédal,
Histoire du cinéma – Abrégé pédagogique, CinémAction – Corlet, Paris 1994, tr. it. Cinema: cent’anni di
storia, Baldini&Castoldi, Milano 1996
5
G.P. Brunetta, op. cit., pp. 15-16
6
J. Deslandes, Histoire comparée du cinéma, vol. I, Tournai-Paris 1966; e J. Deslandes – J. Richard,
idem, vol. II, 1968
4
Una notazione interessante potrebbe essere che tali esibizioni erano presentate come
«fotografie animate», «scene animate» o, più semplicemente e più spesso come
«vedute»
7
.
La veduta è, come si sa, l’atto del vedere
8
.
Il cinema, dato che in origine era sprovvisto di suono
9
, rimase perciò solo ed
esclusivamente immagini. Questo accadde fino al 1927 quando, con il film The Jazz
Singer
10
, il cinema venne “fornito” del sonoro sincronizzato alle immagini e
quest’innovazione mutò completamente la maniera di fare i film
11
.
Da quel momento fino ai giorni nostri il cinema è rimasto uguale; e altre innovazioni,
come ad esempio il colore, non hanno portato mutamenti paragonabili a questo.
Quindi il cinema nacque prima come immagini in movimento e a queste, solo in un
secondo tempo, si aggiunse il sonoro.
Su questo rapporto tra immagine e suono sono stati molti gli studiosi che hanno
espresso la loro opinione e sempre in un’unica direzione, cioè la supremazia della prima
sul secondo.
7
Jacques Aumont, Le point de vue, in Communications, 1983, n° 38, tr. it. Il punto di vista, in L. Cuccu e
A. Sainati (a cura di), Il discorso del film. Visione, narrazione, enunciazione, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 1988, p. 86
8
Fernando Palazzi (a cura di Gianfranco Folena), Novissimo Dizionario della Lingua Italiana, Fabbri,
Milano 1986, vol. II, p. 975
9
In realtà per creare “atmosfera” veniva eseguita della musica da un’orchestra presente in sala, ma tale
contributo non era inerente al film in sé
10
Questa è una data ufficiale. In realtà il processo di invenzione e diffusione della tecnologia sonora si
svolse in fasi diverse nei diversi Paesi, con una quantità di sistemi e brevetti concorrenti.
11
Per una più approfondita analisi di quali mutamenti stilistici causò tale invenzione si rimanda a D.
Bordwell e K. Thompson, Film History: An Introduction, McGraw-Hill, Inc., 1994, tr. it. Storia del
cinema e dei film, Il Castoro, Milano 1997-8, vol. I, pp. 273-93
5
Ad esempio, il semiologo russo Jurij M. Lotman ha sostenuto che “il cinema è la sintesi
di due tendenze narrative, quella figurativa (pittura in movimento) e quella verbale”
12
,
ma ha chiarito che “gli elementi non figurativi del film (la parola, la musica) svolgono
un ruolo subordinato”
13
.
Oppure lo studioso francese Jean Mitry nella sua monumentale Esthétique et
Psychologie du cinéma ha scritto che “un film, ce sont d’abord des images”
14
; ed anche
che “un film est fait pour être vu et uniquement pour être vu”
15
.
Sfogliando poi altri testi di teoria cinematografica - quali sono, per esempio, Film come
Arte di Rudolf Arnheim
16
, Cinema Arte Figurativa di Carlo Ludovico Ragghianti
17
,
Saper vedere il cinema di Antonio Costa
18
, L’immagine-tempo di Gilles Deleuze
19
- si
12
Jurij M. Lotman, Semiotika kino i problemy kinoestetiki, Vaap, Moskva 1972, tr. it. Introduzione alla
semiotica del cinema, Officina, Roma 1979, p. 57
13
Ivi, p. 60-1, cfr. anche Sandro Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche, Parma
1990, p. 6, dove sostiene che “il cinema si presentava, fin dall’inizio, (…) arte della visione”.
14
Jean Mitry, Esthétique et Psychologie du cinéma, Editions universitaires, Paris 1963, vol. I, p. 53
15
Ivi, vol. I, p. 111
16
Rudolf Arnheim, Film als Kunst, E. Rowohl Verlag, Berlin 1932, tr. it. Film come Arte, Il Saggiatore,
Milano 1963, p. 167, dove afferma che “la letteratura si serve delle parole per descrivere; il cinema delle
immagini”
17
Carlo Ludovico Ragghianti, Cinema Arte Figurativa, Einaudi, Torino 1952. Cfr. Antonio Costa,
Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, pp. 93-7, dove viene ripercorso il saggio di Ragghianti, il cui
titolo è esemplificativo dell’opinione del famoso storico dell’arte
18
Antonio Costa, Saper vedere il cinema, Bompiani, Milano 1985, che a p. 25 considera il cinema come
“espressione del momento più avanzato del processo di produzione del visibile”
19
Gilles Deleuze, L’image-temps, Minuit, Paris 1985, tr. it. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1997, p.
264, dove sostiene che “il cinema è arte innanzitutto visiva”
6
trova sempre la tesi secondo la quale, al cinema, le immagini sono sempre più
importanti del suono.
In conclusione si ribadisce che il cinema attiva, come il teatro, sostanzialmente due
sensi, la vista e l’udito, ma soprattutto nel cinema solo la prima risulta fondamentale;
infatti il cinema è nato e si è sviluppato muto, scoprendo solo dopo trent’anni il sonoro.
7
I.2 L’INQUADRATURA
I.2.1 Il limite e la selettività
Il cinema, arte della visione, diventa veramente visibile solo nel momento in cui viene
proiettato su uno schermo cinematografico, il quale possiede determinate caratteristiche.
Innanzitutto ci sono schermi di varie dimensioni: “superfici ridotte, come gli schermi di
molte salette d’essai o culturali, che propongono un’esperienza di fruizione assai simile
a quella domestica della televisione, ma anche superfici assai ampie, che rendono
possibile la massima resa delle componenti spettacolari del cinema”
20
.
Tuttavia, per quanto grande sia, uno schermo cinematografico non può contenere lo
spazio, dato che questo è un “luogo infinito e illimitato di cui le cose materiali occupano
una parte con la loro dimensione definita”
21
. Di conseguenza la prima caratteristica
dello schermo è il fatto di essere una superficie finita.
Una seconda notificazione, derivante dalla prima, consiste nel fatto che uno schermo
cinematografico, in quanto finito, non può racchiudere l’intera realtà circostante, ma
soltanto un “ritaglio delle dimensioni dello schermo”
22
; quindi uno schermo è finito e
limitante
23
.
20
Francesco Casetti e Federico di Chio, Analisi del Film, Bompiani, Milano 1998
10
, p. 69
21
Salvatore Battaglia (a cura di), Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino 1998, vol. XIX, p.
750
22
Jurij M. Lotman, op. cit., p. 42
23
Si ha una conferma di tale conclusione anche sfogliando un dizionario etimologico come il M.
Cortelazzo e P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1997. Infatti lo
schermo è definito una “superficie bianca su cui vengono proiettate le immagini della pellicola
fotografica o cinematografica” (vol. V., p. 1151). La superficie indica un “ente geometrico che delimita
8
Una terza peculiarità risiede nella semplice funzione riflettente dello schermo
cinematografico, definito, appunto da Jean Mitry come “le cadre de l’image
considérablement agrandi”
24
. Perciò uno schermo cinematografico, di solito bianco, ha
come unica funzione quella di riflettere l’immagine ingrandita che vi viene proiettata.
Ne deriva che la finitezza e la funzione limitante non sono caratteristiche proprie dello
schermo, ma sono conseguenti di un’attività precedente.
Infatti, se durante la visione di un film, invece di guardare le immagini sullo schermo, si
alza lo sguardo, si noterà un fascio di luce proveniente dalle nostre spalle che colpisce
lo schermo davanti a noi, dando vita al film che stiamo guardando. Questo fascio
luminoso è prodotto dal proiettore cinematografico.
Attraverso tale macchina viene proiettata sullo schermo, mediante lo scorrimento e
l’arresto della pellicola, costituita da un numero variabile di fotogrammi, una serie di
immagini di varia durata. La pellicola in arresto viene illuminata dalla lampada
all’interno del proiettore e così l’immagine impressionata su quel singolo fotogramma,
passando attraverso un obiettivo di focale variabile, appare ingrandita sullo schermo
25
.
Quindi l’immagine che al cinema vediamo molto grande si riduce, in realtà, alle
modeste dimensioni di un fotogramma della larghezza di 24,89 mm e dell’altezza di
18,67 mm
26
.
un corpo” (vol. V, p. 1297). Infine il verbo delimitare ha il significato di “segnare il limite, il confine”
(vol. II, p. 320).
24
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 166
25
Per una più esauriente descrizione del funzionamento del proiettore cinematografico si rimanda a Pietro
Macellapi, Corso per l’operatore cinematografico, Anec Lombardia, Milano 1994
26
Mario Bernardo, L’immagine filmata. Manuale di ripresa cinematografica, La Nuova Italia Scientifica,
Roma 1992, p. 70 e Mario Bernardo, Tecnica dell’inquadratura, in F. Borin e R. Ellero (a cura di),
L’inquadratura cinematografica, Circuitocinema – Quaderno n° 50, Venezia 1994, p. 34. Sulle
dimensioni di un fotogramma è doverosa una precisazione, dato che le misure appena fornite riguardano
9
Il fotogramma
27
, dato che è l’immagine rimpicciolita che apparirà sullo schermo,
riproduce le sue stesse caratteristiche, cioè finitezza e funzione limitante.
Di fatto, quindi, il quadro dello schermo e quello del fotogramma sarebbero omologhi,
dal momento che l’elemento rilevante non risiederebbe nelle dimensioni ma
consisterebbe nel fatto che “toutes les lignes compositionnelles de l’image se rapportent
(…) au couple de lignes horizontales et verticales de ce quadrilatère qui fait fonction de
référentiel absolu”
28
.
Mitry ha sottolineato giustamente come il quadro o del fotogramma o dello schermo
abbia una funzione di referenziale assoluto, nel senso che durante la creazione del film
si deve tenere conto della natura finita e limitante di tale quadro.
Per creazione del film si intende sia il momento letterale (la sceneggiatura) sia il
momento pratico (le riprese).
la cosiddetta full sceen aperture (silent). A questo proposito è utile leggere cosa scrive Mario Bernardo
nel suo manuale, L’immagine…, cit., a p. 71: “Nel formato accademico 35 mm, che in proiezione diviene
1,33:1, il rapporto di 1,375:1 del negativo occupa verticalmente lo spazio tra quattro perforazioni mentre,
tra il centro di un fotogramma e il seguente vi sono 19 mm. Però, non tutto questo spazio è occupato
dall’immagine. Il fotogramma è spostato verso il bordo destro del supporto, per lasciare liberi i 2,13 mm
della colonna sonora ottica. Sopra e sotto l’immagine si trova una striscia di emulsione non esposta, di
spessore variabile a seconda del formato scelto, che si chiama interlinea. Oltre al formato accademico, nel
35 mm sono diffusi l’1,66:1, l’1,75:1 e l’1,85:1, e il negativo Cinemascope con rapporto 1,18:1 sul
negativo, con un’immagine decompressa in proiezione per suono Stereofonic Perspecta Sound di rapporto
2,55:1 (oggi, tuttavia, con in nuovi sistemi stereofonici, il formato Cinemascope è 2,35:1)”
27
Stephen Heath nel suo testo Questions of Cinema, Macmillan Publishers Ltd., London 1981, a p. 35
nota come il “frame describes the material unit of film (the single transparent photograph in a series of
such photographs printed on a lenght of cinematographic film, twenty-four frames a second) and, equally,
the film image in its sitting, the delimitation of image on screen”
28
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 172
10
Infatti, anche se in maniera diversa, in queste due situazioni si deve o pensare (nel
primo caso) o girare (nel secondo), tenendo sempre conto del limite del quadro
cinematografico.
Se ne ha una palese dimostrazione durante le riprese quando il regista, con tutto lo
spazio infinito a sua disposizione, è costretto a scegliere che cosa deve essere ripreso;
cioè che cosa entrerà nel quadro della macchina da presa e che cosa, invece, ne resterà
fuori. Quanto scelto verrà impresso sulla pellicola e, dopo essere stato sviluppato e
stampato, arriverà al proiettore e quindi sullo schermo.
Di conseguenza, in questo processo risultano fondamentali due elementi: il quadro
dell’immagine (il referente assoluto di Mitry
29
), con la sua finitezza e la sua funzione
limitante e la scelta compiuta dal regista, di cui si tratterà nel sottoparagrafo I.2.4
quando verrà studiato lo stile.
Per approfondire la nozione di quadro sembra utile partire dalla definizione che viene
fornita dal dizionario: “un oggetto, pezzo o spazio quadrato; una pittura su tavola o su
tela messa in telaio”
30
. Se, poi, si legge quanto scritto da Gianfranco Folena su questo
termine si trovano diversi spunti di riflessione: “Tornando alla protostoria di quadro,
vediamo dunque che le prime documentazioni e le premesse dell’affermazione pittorica
del termine si collocano nello scorcio del Quattrocento e agli inizi del Cinquecento. Il
che mi pare che renda plausibile (…) che questa accezione pittorica del termine sia un
ispanismo, e lo confermerebbe anche la resistenza dell’ambiente fiorentino. In spagnolo
cuadro, col femminile cuadra, è medievale e attestato ai primordi della lingua nel senso
proprio e specifico di ‘pittura, dipinto’. Non è escluso che negli ambienti artistici italiani
29
A questo riguardo è utile un’altra riflessione dello studioso francese: “les choses devenues image – une
image constituée dans un cadre – sont relatives à ce cadre et lui sont liées phénoménalement ” (in op. cit.,
vol. I, p. 170)
30
M. Cortelazzo e P. Zolli, op. cit., vol. IV, p. 1008
11
ci sia un’evoluzione semantica autonoma a partire dall’accezione architettonica
(‘riquadro’[spazio quadro, porzione quadrangolare di una superficie]
31
) nei casi in cui il
termine non è riferito alla pittura o indica comunque l’utilizzazione figurativa di una
superficie squadrata. Ma certo nella fissazione progressiva del significato pittorico di
quadro, fino alla cancellazione del tratto geometrico del significato, l’impatto del
termine spagnolo è stato decisivo”
32
.
A parte la notazione sull’origine ispanica, che in questa sede è di relativa importanza, è
interessante sottolineare come il termine quadro prima di indicare il dipinto
individuasse il supporto, anzi, la forma geometrica del supporto, cioè la cornice.
In particolare Aumont l’ha definita “ciò che fa sì che l’immagine non sia né infinita né
indefinita, ciò che circoscrive l’immagine, che la fissa”
33
, essa “oltre che limite fisico
(…) è anche e soprattutto limite visivo dell’immagine: ne regola le dimensioni e le
proporzioni”
34
.
Insomma il quadro cinematografico, inteso sia come cornice sia come il materiale
inscritto in esso, divide lo spazio della sala cinematografica in due parti: lo spazio che
non vi entra, definito fuori quadro, e quello che viene inquadrato, nel senso che si trova
nel quadro
35
.
31
Ivi, vol. IV, p. 1088
32
Gianfranco Folena, La scrittura di Tiziano e la terminologia pittorica rinascimentale, in Umanesimo e
Rinascimento a Firenze, all’interno di AA.VV., Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, Leo S.
Olschki, Firenze 1983, vol. III, tomo II, pp. 835-6
33
Jacques Aumont, L’œil interminable. Cinéma et peinture, Librairie Séguier, Paris 1989, tr. it. L’occhio
interminabile. Cinema e Pittura, Marsilio, Venezia 1991, p. 70
34
Ivi, p. 71
35
Giulia Carluccio nel suo studio intitolato Cinema e Racconto. Lo Spazio e il Tempo, Loescher, Torino
1988, a p. 47 definisce il quadro in questi termini: “Per quadro possiamo intendere la dimensione
virtualmente statica dell’immagine dinamica e trasformazionale determinata in base al sistema di
12
Jean Mitry spiega in maniera molto chiara tutto questo: “En rapportant à ses [du cadre]
côtés les lignes et les volumes des choses représentées on peut composer l’image
exactement comme un peintre compose son tableau; on peut lui donner une structure
expressive en «cadrant» d’une certe manière le fragment de réalité visé car tout ce que
contient le cadre lui devient relatif au sens géométrique du mot. En lui-même, ce
«contenu» est indépendant de quelque cadre que ce soit mais, par le fait qu’il est
présenté dans un cadre, il s’ordonne relativement à lui”
36
.
Quindi la messa in quadro, detta comunemente inquadratura, può essere definita
l’azione che “ritaglia il reale oggetto della sua ripresa, ma, contemporaneamente, (…) è
la condizione necessaria all’emergere del discorso filmico”
37
.
Di conseguenza “a cominciare da questa delimitazione la porzione di realtà profilmica
rappresentata diventa filmica, l’iconico si incrocia con il diegetico, la storia diventa
discorso”
38
.
posizionamento e strutturazione di un campo visivo o porzione di spazio profilmico nei limiti e nella
superficie del rettangolo o quadro dello schermo, che ne è supporto di iscrizione”.
36
Jean Mitry, op. cit., vol. I, p. 167
37
André Gardies, L’espace du récit filmique: Propositions, in D. Chateau, A. Gardies, F. Jost (eds.),
Cinémas de la modernité: films, théories, Klincksieck, Paris 1981, tr. it. Lo spazio del racconto filmico, in
L. Cuccu e A. Sainati, op. cit., p. 57
38
Giulia Carluccio, op. cit., p. 47