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Introduzione
Il titolo di questa tesi, ―La funzione e la figura del i nel gveda‖, implica una descrizione
del i sia in sé stesso, sia nel suo rapporto con la società, e in generale con l‘ambiente a cui
appartiene. ‗Funzione‘ è infatti un termine che indica, in fisiologia, la relazione di un organo
con il complesso dell‘organismo, alla cui esistenza e continuità contribuisce; in tal senso si è
trasposto questo concetto nell‘ambito sociale, indicando il rapporto ‗funzionale‘ tra un
determinato ruolo e la struttura sociale nel suo complesso, ma si può estendere tale
significato anche oltre la società per abbracciare l‘intero ambiente vitale dell‘uomo,
l‘universo stesso, come un grande organismo al quale il singolo appartiene e nel quale
adempie a una determinata ‗funzione‘. Il i si situa certamente in questo contesto cosmico,
particolarmente congeniale alla civiltà del gveda, oltre che in quello della comunità
umana; un contesto cosmico che non può prescindere, nella visione di tale civiltà, dalle
‗potenze‘ divine che lo animano e lo dirigono, assicurandone la prosperità e l‘ordine
funzionale, in cui ogni elemento svolge il suo compito: il Sole sorge e illumina, i fiumi
scorrono, la nuvola manda la sua pioggia, la Terra è stabile e feconda. E‘ tra sfera umana,
cosmica e divina che il i trova la sua posizione centrale di intermediario, la sua ‗funzione‘
essenziale e caratteristica; studiarne la figura equivale naturalmente a studiarne la funzione,
e viceversa, perché il ruolo funzionale del i presuppone la sua specifica natura e le sue
caratteristiche, mentre non si può delineare in modo adeguato la sua figura senza
considerare i suoi modi di rapportarsi attivamente con il contesto in cui è collocato.
Ma oltre ad un‘analisi strutturale, questa tesi vuole essere un lavoro ermeneutico, una
comprensione del ‗fenomeno i‘ da vari punti di vista, utilizzando categorie tratte dalla
fenomenologia delle religioni e dall‘antropologia culturale, cercando di restituirne, per
quanto possibile, il senso più autentico e vitale. Per procedere in tale sforzo ermeneutico, si
è dovuto ricorrere necessariamente agli strumenti della linguistica storica, come l‘etimologia
e la comparazione lessicale in ambito indoeuropeo, ma anche di confronti sul piano dei tratti
culturali con altre culture indoeuropee evolute, per far risaltare le diversità di sviluppi, con
la civiltà indiana posteriore al gveda, per distinguere stadi culturali che rischiano talvolta
di essere confusi ma anche per cogliere possibili ‗anticipazioni‘, e infine con il mondo
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religioso dell‘Asia centrale, in particolare degli altaici, per scoprire le possibili affinità con
lo sciamanesimo, come esso si presenta nelle sue forme più tipiche in un‘area culturale che
poteva essere in contatto con le antiche popolazioni ‗indoeuropee‘ o ‗indoiraniche‘ prima
della migrazione.
Ne risulta un‘immagine della civiltà del gveda come di un singolare crocevia tra mondi
culturali: da un lato ancora segnata da un arcaico lascito indoeuropeo e più specificamente
indoiranico, che include persino tratti sciamanici che la accomunano alle popolazioni turche
sud-siberiane – caratterizzate del resto da un analogo nomadismo pastorale – dall‘altro
immersa in un processo di elaborazione di nuove idee e strutture che porrà le basi di una
nuova civiltà, quella dell‘India brahmanica, processo di cui si vedono le prime evoluzioni
significative nei libri tardi, ovvero il primo, l‘ottavo e naturalmente il decimo . Ma
questa situazione ‗cruciale‘ non significa certo che abbiamo a che fare con un insieme
sincretistico di tratti culturali che attende ancora una valida sistemazione: il gveda ci offre
un sistema grandioso, originale, molto articolato e coerente, costruito con una teologia che
si avvale non di un pensiero astratto, ma di figurazioni simboliche e miti; di tali miti non
mancano ‗varianti‘, caratteristiche del resto di una cultura pienamente orale, in cui non si
cerca, ancora, di costruire un Testo sistematico e definitivo, come si tenderà invece a fare
con i Brāhma a e con i Sūtra. Nel ‗testo‘ rigvedico ci si muove al contrario per allusioni,
interrogazioni, formule enigmatiche, innumerevoli epiteti e locuzioni simili ad ideogrammi,
dove con immagini concrete ormai stilizzate si esprime un concetto sintetico, come la
‗traccia dell‘uccello‘, il ‗sentiero dello ta‘, il ‗grembo dello ta‘ o l‘ ‗oceano nel cuore‘.
Tale codice simbolico permette di creare una tela di corrispondenze tra piano umano e
cosmico, terreno e divino, esteriore ed interiore, in un sistema in qualche modo sempre
aperto a nuove acquisizioni, a nuove combinazioni, a connessioni audaci, sempre però su un
ordito tradizionale e formulare. Il i è l‘iniziato di questo ricco patrimonio di metafore, di
‗nomi segreti‘ che sono ritenuti cogliere in qualche modo l‘essenza stessa delle entità che
designano, e che vanno a costituire il contenuto e la modalità della sua espressione poetica.
Si è scelto di far procedere l‘indagine sulla base di citazioni di strofe o versi degli inni, via
via analizzate e commentate, accumulando così una serie progressiva di informazioni per
poi delinearne una rappresentazione strutturata sempre aperta a modifiche o revisioni,
procedendo a posteriori, vagliando varie interpretazioni, e cercando di tradurre il testo con
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la maggior fedeltà possibile. Ogni qual volta si è presentato un elemento oscuro importante
per l‘indagine, si è cercato di chiarirlo subito, per poi riportare il discorso all‘argomento
principale. In alcuni momenti un passo particolarmente significativo ha potuto aprire un
nuovo orizzonte interpretativo, richiedendo così una riflessione generale più estesa, che è
servita poi da base per una più comprensiva interpretazione di ulteriori citazioni.
Si è suddiviso il lavoro in grandi paragrafi: dopo una prima presentazione della figura del
i, si sono analizzate le varie proposte di etimologia; quindi si è passati all‘importante
tematica del rapporto tra i antichi e attuali, per poi considerare il raggruppamento dei
sette i nelle sue varie attestazioni. Si è poi estesa la ricerca alle diverse definizioni del
poeta-sacerdote offerte dagli inni, per completare il quadro di tale figura e far risaltare, per
contrasto, il senso specifico del termine . Infine, si è analizzato nei particolari il rapporto
dei i con gli dèi, per andare oltre l‘idea generica e stereotipata del rapporto sacerdotale, e
prendere in considerazione dinamiche di ispirazione, e in certi casi ‗possessione‘, da parte
degli dèi, e le relazioni speciali che si instaurano tra certe divinità (come Indra e gli Aśvin) e
i poeti-sacerdoti. Nella conclusione si è poi voluto riassumere l‘esito della ricerca riguardo
ad alcuni termini o categorie su cui essa si è imperniata.
Si auspica quindi, con il presente lavoro, di aver contribuito alla comprensione dell‘identità
del i, ovvero dell‘autore stesso del gveda, soggetto forse un po‘ trascurato dalla filologia
vedica, spesso più interessata all‘oggetto degli inni, ovvero gli dèi ed i miti, che al soggetto
che dietro gli inni si cela. Comprendere il i all‘interno degli inni rigvedici equivale a far
luce sulle origini di una figura che avrà una lunga storia, che giunge fino ai nostri tempi,
nella civiltà indiana, può aiutare a comprendere la cultura vedica nella sua struttura e nel suo
divenire, e può preparare il terreno a confronti con le figure di poeti, veggenti, sciamani o
sacerdoti appartenenti ad altre civiltà antiche, figure che spesso, come gli stessi i, sono
ritenute aver posto le fondamenta ideali di quelle civiltà, le quali hanno continuato a riferirsi
e ad attingere a tali antichi detentori di sapienza.
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§1. COS‘E‘ UN I?
La risposta a tale quesito non è immediata, perché il termine antico indiano non ha un
significato univoco, né un‘etimologia trasparente. Inoltre, negli sviluppi del pensiero
indiano, la figura del i ha assunto valori diversi da quelli che presentava nel periodo del
gveda.
Un quadro sufficientemente esauriente lo offre il dizionario di Monier-Williams, che così
enumera i vari significati alla voce íshi (le sottolineature sono aggiunte): ―a singer of sacred
hymns, an inspired poet or sage, any person who alone or with others invokes the deities in
rhytmical speech or song of a sacred character (e.g. the ancient hymn-singers Kutsa, Atri,
Rebha, Agastya, Kuika, Vasish ha, Vy-a va), RV.; AV.; VS.& c.; the Rishis were regarded
by later generations as patriarchal sages or saints, occupying the same positions in Indian
history as the heroes and patriarchs of other countries, and constitute a peculiar class of
beings in the early mythical system, as distinct from gods, men, Asuras, & c., AV. X, 10,
26; Br.; AitBr.; K ty r.; Mn. &c.; they are the authors or rather seers of the Vedic hymns,
i.e. according to orthodox Hind ideas they are the inspired personages to whom these
hymns were revealed, and such an expression as ‗the Rishi says‘ is equivalent to ‗so it
stands in the sacred text‘; seven Rishis, sapta ishaya or sapta ishaya or saptarshaya ,
are often mentioned in the Br hma as and later works as typical representatives of the
character and spirit of the pre-historic or mythical period; […] in astron. the seven Rishis
form the constellation of the Great Bear, RV. X, 82, 2; AV. VI, 40, 1; Br.; vG .; MBh.
& c.; (metaphorically the seven Rishis may stand for the seven senses or the seven vital airs
of the body, VS. XXXIV; Br. XIV; K ty r.); a saint or sanctified sage in general, an
ascetic, anchorite (this is a later sense; sometimes three orders of these are enumerated, viz.
Devarshis, Brahmarshis, and R jarshis; sometimes seven, four others being added, viz.
Maharshis, Paramarshis, rutarshis, and K arshis), Mn. IV, 94; XI, 236; ak.; Ragh. & c.;
the seventh of the eight degrees of Brahmans, Hcat. […]‖
Vediamo quindi, secondo l‘interpretazione di Monier-Williams, come nella figura del i,
che nel gveda pare principalmente cantore di inni sacri, si sia poi accentuata la saggezza,
l‘ispirazione e la santità, fino ad essere tradotto comunemente con ‗veggente‘ (ing. ‗seer‘).
In particolare il gruppo convenzionale dei sette i (già presente negli inni vedici) è
divenuto il rappresentante del periodo mitico, dei primordi della civiltà. Gli antichi i
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secondo la tradizione induista sono i saggi che hanno rivelato, dopo averli ‗visti‘, i Veda
(ovvero la ‗sapienza‘ stessa), i quali costituiscono la Rivelazione fondamentale (la , o
‗ciò che è stato udito‘), tramandata oralmente senza alterazioni. La loro natura di poeti è in
un certo senso negata, perché si nega che gli inni siano una loro creazione, in quanto ritenuti
eternamente esistenti come Parola divina
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, ed anche la loro funzione sacerdotale passa in
secondo piano. La figura del i appare, insomma, astratta dal suo contesto originario,
conformemente ad una nuova ideologia religiosa. Ma negli inni del gveda, è una
qualifica strettamente legata alla funzione rituale della lode degli dèi all‘interno del
sacrificio. Secondo la concezione vedica, il sacrificio ( ) doveva essere sempre
accompagnato da un inno che esaltava le qualità e le azioni delle divinità invocate e
chiedeva ad esse protezione, ricchezza, discendenza, vittoria sui nemici: i erano coloro
che dovevano comporre e recitare questi inni, fungendo quindi anche da sacerdoti, tramiti
tra il mondo umano e divino. Naturalmente questo ruolo implicava che i non fossero
persone comuni, ma uomini particolarmente ispirati, capaci di comporre inni efficaci, e, per
quanto riguarda certi capostipiti di famiglie di poeti-sacerdoti, si credeva che fossero in
rapporto diretto e privilegiato con una divinità. Il carattere di ispirazione e di conoscenza
superiore sembra però indicato più da altri attributi, come -, -, -.
Prima di approfondire tali aspetti con citazioni dal gveda, è necessario affrontare il
complesso problema dell‘etimologia del termine.
§2. LE RADICI ETIMOLOGICHE
Secondo Hermann Grassmann, il sostantivo indica ―der Sänger, als der Lieder
ergiessende‖ (ovvero che ‗effonde, riversa‘ gli inni), derivato dalla radice , a cui dà
tre valori: il ‗Grundbedeutung‘ è ‗sich schnell bewegen, dahin schiessen‘, e in questo senso
è attribuito alla lepre, al carro, al serpente e al falco; il secondo valore è ‗schnell fliessen,
strömen‘, proprio dei liquidi (‗Flüssigkeiten‘), e il terzo ‗etwas herbeiströmen‘. Come si
attua il collegamento semantico tra il sostantivo e questa radice verbale? Grassmann fa
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Si veda per es. J.Muir, Original sanskrit texts, vol. III, pgg. 282-3, in cui passa brevemente in rassegna le
posizioni caratteristiche di alcuni ‗darśana‘, sistemi di pensiero ortodossi: ―The Vai eshikas represent the
eternal vara (il Signore, Dio personale creatore e reggitore dell‘universo) as the author of the Veda. The
M m nsakas and Vedantists either affirm that it is uncreated, or derive it from the eternal Brahma (suprema
Realtà impersonale).‖
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notare l‘uso di , con il preverbio , e come oggetto (‗bell‘inno, lode
eccellente‘), nel senso di ‗far scorrere, effondere la lode eccellente verso (il dio)‘, quindi
applicato all‘ambito poetico-rituale. E aggiunge queste osservazioni: ―Der Uebergang der
Bedeutung ist ganz der entsprechende, wie ihn z. B. arc zeigt, was ursprünglich
‗abschiessen‘, dann ‗Lieder ergiessen, singen‘, dann ‗Strahlen schiessen, strahlen‘ bedeutet.
Die letztere, ‗Strahlen ergiessen‘, ist vielleicht da anzunehmen, wo die die
sieben Hauptsterne des grossen Bären bezeichnen.‖ Grassmann suppone quindi che
possa essere legato, nella sua accezione astronomica, all‘atto di ‗irraggiare‘.
Tatiana Elizarenkova, nell‘introduzione al suo Language and style of the vedic is, nota
che il verbo (che lei rende con ‗to gush forth, flow swiftly; rush forth‘) è attestato
prevalentemente nel IX libro del gveda, quello interamente dedicato al Soma, la sacra
bevanda usata nei sacrifici solenni e capace di stimolare l‘ispirazione poetica. Il verbo
indica quindi prevalentemente lo scorrere del soma nel contesto rituale, e tale scorrere del
soma può essere assimilato all‘effondersi della parola poetica, che, come il soma dev‘essere
purificato dal setaccio, dev‘essere purificata dal cuore e dalla mente ( ), prima
di essere offerta agli dèi in forma di inno. La Elizarenkova sintetizza così la sua ipotesi:
―The ritual orientation of the verb could give rise to the nominal derivative with its
complex semantics: a participant in a rite who drinks the sacrificial liquid and pours out
praises in the form of a hymn.‖ Per la studiosa russa, dunque, la figura del è
inestricabilmente connessa con il soma, oltre che con la produzione poetica finalizzata al
sacrificio. Essa nota anche che il verbo (da cui è derivato), che significa ‗mettere
in movimento, cominciare a muoversi, sorgere, stimolare, essere stimolato‘ (per lo più
transitivo), frequentemente regge un complemento oggetto di nomi come ‗voce‘, ‗parola‘,
‗inno‘, ‗lode‘, ‗preghiera‘; per es. (I.116.1) ―Metto in
movimento lodi come il vento le nubi‖.
Jan Gonda, invece di risalire a una radice antico indiana, chiama in causa una possibile
parentela col tedesco rasen ‗smaniare, essere furioso‘ e il lituano ar ùs ‗violento, acceso‘.
Da questa etimologia ricava l‘ipotesi che il termine ―may likewise, in prehistorical
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times, have arisen to express some such idea as the German begeistert‖
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, che viene tradotto
generalmente ‗entusiastico‘, ed appartiene anche al campo semantico della poesia. La
tendenza di Gonda è quindi di riportare il termine (in modo analogo si comporta con e
-) all‘ispirazione, piuttosto che all‘ambito rituale, come fanno invece Grassmann e la
Elizarenkova. La sua idea è quella del poeta-veggente, figura presente in molte culture
‗arcaiche‘, che deriva la propria ispirazione da un dio o da una facoltà superiore di visione
spirituale, spesso anche nella forma della ‗possessione‘, come suggerisce in particolare il
tedesco rasen.
La fonte di Gonda per questa comparazione è il dizionario etimologico di Mayrhofer
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nella
prima edizione, che più precisamente cita il medio altotedesco r sen, e, oltre al già
menzionato termine lituano, l‘armeno her ‗Zorn‘. Tale termine è riconosciuto come
imparentato con da Pokorny
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, nella trattazione della radice ere-s- (varianti ers-, s-,
eres), che significherebbe ‗fließen, von lebhafter Bewegung überhaupt, auch, umherirren‘ e
‗aufgebracht, aufgeregt sein‘.
Ad essa riconduce, oltre al verbo , il verbo , che traduce ‗zürnt, will übel,
benimmt sich gewalttätig‘, il sostantivo - ‗Neid, Eifersucht‘, e l‘avestico .r. i- ‗Neid‘,
a cui accosta direttamente il vedico -, che rende con ‗Dichter, Seher‘, giustificando
l‘evoluzione semantica con un significato ricostruito di ‗Rasender‘. Dalla stessa radice fa
derivare il greco ‗Gott der Rache‘. La scelta di Pokorny come quella di Mayrhofer è
dunque di attribuire il termine all‘idea del furore, invece che all‘idea dello scorrere o
dell‘effondere, nonostante entrambi i campi semantici siano ascritti alla stessa radice
indoeuropea.
Successivamente Mayrhofer, nella nuova edizione del dizionario
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dichiara però che il
concetto etimologico di - non è conoscibile con certezza, e mette in primo piano il
confronto con l‘antico avestico .r. i , a cui dà il significato di ‗Gottesbegeisterter‘. Ancora
una volta il riferimento è all‘ispirazione, all‘ , piuttosto che al contesto
rituale. Inoltre cita l‘etimologia di Grassmann da -, e afferma che è possibile anche una
interpretazione come ‗*Schreier‘, dalla radice verbale ras- ‗ruggire, gridare; lodare‘.
2
J. Gonda, The Vision of the Vedic Poets, pg. 40
3
M. Mayrhofer, Kurzgefaßtes etymologisches Wörterbuch des Altindischen, I. Band, Heidelberg 1956.
4
J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, Bern 1959-1969.
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Anche Monier-Williams, in fondo alla voce íshi, porta a confronto termini di altre lingue
indoeuropee, ovvero l‘irlandese arsan, che traduce ‗a sage, a man old in wisdom‘, e arrach
‗old, ancient, aged‘.
Ci troviamo qui in un campo semantico totalmente diverso, quello dell‘anzianità (o
l‘antichità) identificata con la saggezza, difficilmente identificabile con il concetto di ,
che non è specificamente caratterizzato come un anziano. E‘ vero che i i mitici sono ‗gli
antichi‘ per gli autori più recenti, ma non è questa la loro caratteristica principale, inoltre
tale antichità è sovente espressa con termini specifici come e .
Non è chiaro da dove Monier-Williams abbia tratto il confronto con i due termini, che
comunque hanno passato la scrematura delle comparazioni incerte che l‘autore dichiara di
aver compiuto per l‘ultima edizione del dizionario
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; il primo si trova più normalmente nella
forma arsid, ricondotta da Vendryes a un composto dell‘avverbio *peres- ‗prima, avanti‘ e
la radice *sth - ‗stare‘.
Lo stesso Monier-Williams non sembra dare molto peso a questa comparazione, visto che
all‘inizio della voce pone come radice il verbo -, anche se non quello della prima classe a
cui dà il significato di ‗to flow, flow quickly, glide, move with a quick motion‘, ma quello
della sesta classe che traduce ‗to go, move; to stab, kill; to push, thrust‘, sulla base del
Commento all‘U ādis tra, IV, 119. Cita poi il dizionario di T r n tha Tarkav caspati che
offre questa esegesi ispirata a una concezione posteriore al gveda:
‗va con la conoscenza oltre il ciclo delle rinascite‘. Infine, propone un‘altra
etimologia: ―perhaps from an obsolete ish for di , ‗to see?‘‖, ipotesi che concorda con
la classica interpretazione del come ‗veggente‘, e che ritroviamo in Nirukta II.11:
. Tale etimologia, però, è apparsa del tutto inaccettabile agli
studiosi moderni.
5
M. Mayrhofer, Etymologisches Wörterbuch des Altindoarischen, I. Band, Lieferung 4, Heidelberg 1988.
6
A pg. XX dell‘introduzione, alla fine della sezione dedicata al piano dell‘opera e ai miglioramenti della
nuova edizione (pubblicata nel 1899), così scrive: ―Finally, I have thought to shorten some of the articles on
mythology, and to omit some of the more doubtful comparisons with the cognate language of Europe.‖
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§ 3. LA FIGURA DEL I NEGLI INNI DEL GVEDA
§3.1 Il i come pathik t-
In una formula esemplare, l‘inno X.14 ci offre una significativa definizione della funzione
degli antichi i, nella str. 15cd:
‗questo omaggio [sia rivolto] ai i nati in antico, i primi creatori del sentiero‘.
Si tratta di un inno funebre, e perciò si potrebbe pensare che il sentiero sia quello che
conduce al mondo di Yama, il primo uomo, che ha aperto agli altri uomini il cammino per
l‘aldilà, come si dice nella seconda strofa dello stesso inno. Qui tuttavia non si parla di
Yama, ma dei primi i, e il sentiero ( -) che hanno creato (o preparato), potrebbe
essere quello del sacrificio, dello ta (ordine cosmico e rituale), che è anche il modo di
procedere che assicura il mondo dei Padri dopo la morte, e quindi la Via, percorsa per primi
da essi stessi, che porta alla loro dimora ultraterrena.
Può essere utile citare un passo della , XVIII. 52:
/
‗Quelle tue ali senza vecchiaia, che volano, con cui i demoni respingi, o Agni, con esse ci
sia concesso salire al mondo dei bene operanti, dove i i sono andati, i nati per primi,
antichi‘
In questo passo, che non dovrebbe essere molto distante cronologicamente dal X libro,
vediamo che i i antichi hanno raggiunto il mondo dei - ‗coloro che agiscono bene‘: e
bisogna ricordare che l‘azione ( ) per eccellenza, soprattutto per i i, è il sacrificio.
Possiamo notare che l‘epiteto -, tradotto dal Graßmann ‗Weg bereitend, Bahn
machend‘, si trova solo in altri quattro casi, e sempre applicato a divinità: in II.23.6 è
B haspati, il signore della parola sacra, sacerdote degli dèi, che è definito qui