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battaglie per l‟unificazione dell‟Italia: nella sua vita non disgiunse
mai l‟arte dalla politica e per questo motivo scelse di inserire nel
proprio repertorio le opere di Alfieri.
Col raggiungimento dell‟Unità le pièces a sfondo politico
sparirono progressivamente dai repertori: gli ideali patriottici
avevano ormai trionfato. Fu in questo periodo che sorse il
fenomeno del Grande Attore, rappresentato da Ernesto Rossi e
Tommaso Salvini, entrambi (sebbene in periodi diversi) allievi di
Modena. Essi operarono in una situazione politica diversa rispetto a
quella delle cospirazioni e delle lotte risorgimentali del tempo del
maestro: i loro maggiori successi si realizzarono quando si era
chiuso il ciclo eroico del Risorgimento, l‟arte drammatica godeva di
un più ampio respiro culturale ed era meno vincolata agli obiettivi
della politica.
Così, dall‟Alfieri si passò all‟apertura verso il repertorio
straniero e, in particolare, alla scoperta di Shakespeare.
L‟introduzione del poeta inglese sulle scene del nostro teatro di
prosa fu un‟operazione attuata non dagli intellettuali italiani, ma
dagli stessi attori, che nelle sue opere vedevano l‟opportunità di
porre al centro dello spettacolo il personaggio e, dunque, la propria
interpretazione.
L‟affermazione del fenomeno grandattorico coincise con la
crisi dei repertori nazionali delle nostre compagnie di prosa, poiché,
al di là dei classici Alfieri e Goldoni, la drammaturgia italiana
offriva poco e gran parte delle più recenti produzioni erano soggette
a rigida censura: Shakespeare, in questo contesto, rappresentò la
modernizzazione della cultura italiana, una nuova libertà ideologica
4
e la presa di coscienza dell‟esistenza di un teatro vivo al di fuori dei
dogmi e dei precetti che il classicismo aveva imposto. Del
mutamento di repertorio avvenuto nella seconda metà
dell‟Ottocento ne parla lo stesso Ernesto Rossi: Degli Oresti, dei
Piladi e dei Paoli, il pubblico ne applaudì una quantità, ed oggi
sono interamente scomparsi dalle nostre scene, e non trovi più un
attore moderno che ti ripeta un verso di Alfieri o di Niccolini, o se
lo ripete, te lo dica correttamente. Ad altre concezioni, senza
rinnegare quelle, più difficili, perché appunto senza tradizioni
fummo entrambi attratti. E’ dovere dell’artista l’andare sempre in
traccia del nuovo, purché bello e su questo tennero gli imitatori1.
Il presente lavoro intende soffermarsi sul passaggio
dall‟affermazione di Modena a quella grandattorica, analizzata
proprio sul terreno delle rappresentazioni alfieriane. Il confronto
mostrerà come, a differenza di Modena, Rossi e Salvini fossero più
interpreti che “critici” della propria epoca: volti a manifestarla, più
che a farla evolvere. Ne è testimonianza il fatto che, in tutte le opere
rappresentate, essi attenuarono o eliminarono ogni riferimento alla
dimensione politica insita nel testo.
Nel II capitolo verrà affrontata la poetica tragica di Alfieri e, in
particolare, si porranno in evidenza quegli elementi della sua
concezione teatrale che lo legarono alla riforma successivamente
operata da Gustavo Modena; in specie: la necessità di una
riqualificazione sociale dell‟artista come premessa per una riforma
teatrale; la concezione del teatro come mezzo di educazione morale
1
E. Rossi, Quarant’anni di vita artistica, 3 voll., Nicolai, Firenze, 1887, cit., vol. I, p. 36.
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e politica del pubblico e infine -da un punto di vista più strettamente
“tecnico”- l‟idea dell‟importanza, per l‟attore, di una perfetta
conoscenza della parte, di una dizione chiara e del momento delle
prove.
Il capitolo successivo procede illustrando, a grandi linee, lo
sviluppo del teatro italiano nel corso dell‟ottocento, partendo dai
tentativi di nascita delle compagnie stabili, passando per la
constatazione del loro fallimento col ritorno delle compagnie di giro
e finendo con l‟analisi delle sue caratteristiche strutturali (come, ad
esempio, il sistema dei ruoli). Naturalmente il capitolo prenderà in
esame il fiorire del fenomeno grandattorico e delle sue
caratteristiche, determinate dal ruolo centrale assegnato al
protagonista.
Il IV e penultimo capitolo è dedicato, nello specifico, agli
attori che costituiscono l‟oggetto d‟analisi del presente elaborato; a
cominciare da Gustavo Modena, che nella prima metà
dell‟Ottocento, propose l‟allontanamento dalla recitazione
declamatoria e convenzionale a favore di uno stile più spontaneo e
naturale; e che, soprattutto, affermò l‟autonomia della recitazione
sul testo. Della portata innovativa della concezione di Modena è
testimone l‟attività della compagnia che egli fondò nel 1843, e che
diresse cominciando a distaccarsi dal sistema dei ruoli sui quali
erano organizzate le compagnie convenzionali.
Essendo inoltre, nell‟attore, l‟attività teatrale strettamente
collegata con l‟impegno politico (è nota la sua partecipazione alle
battaglie risorgimentali), il capitolo si soffermerà sulla commistione
tra arte e politica che avvicina Modena ad Alfieri e, allo stesso
6
tempo, costituisce uno degli elementi di maggior distacco dagli
allievi. Si procederà poi, per evidenziare quale fosse, in concreto, la
concezione teatrale dell‟attore, all‟analisi della sua interpretazione
del Saul, costruita sull‟idea del personaggio come veicolo non solo
di emozioni, ma anche di precisi messaggi politici e sulla
compresenza -tipica del suo stile- del registro tragico e comico (ciò
che viene comunemente definito come linguaggio del “grottesco”).
Affrontando l‟Oreste, invece, sottolineeremo l‟allontanamento di
Modena dalla recitazione convenzionale a favore della realtà.
I due Grandi Attori, Ernesto Rossi e Tommaso Salvini
(entrambi “allievi” di Gustavo Modena), costituiscono l‟argomento
dell‟ultimo capitolo.
Per quanto riguarda Rossi si parlerà della sua concezione del
personaggio drammatico, visto come sintesi di ideali universali, e
del suo concentrarsi sulle resa delle emozioni e delle passioni. La
sua interpretazione dell‟Oreste offre un chiaro esempio di come la
recitazione dei Grandi Attori fosse frutto di una creazione
autonoma, lontana dagli stereotipi recitativi.
Per quanto riguarda lo stile di Salvini, si porrà l‟accento sulla
preparatoria “toeletta dell‟anima”: indispensabile all‟attore per
entrare nel personaggio ed eliminare la riproposizione meccanica
dei sentimenti. La sua interpretazione del Saul ci offre lo spunto per
un confronto tra l‟attore e il suo maestro, Gustavo Modena, mentre
quella di Oreste rivela la volontà di Salvini di interpretare sempre
personaggi coi quali sentiva di avere quello che in futuro
Stanislavskij avrebbe definito come un rapporto di “analogia”.
7
Le ricerche utili alla stesura dell‟elaborato sono state effettuate
negli archivi della Biblioteca teatrale di Roma Burcardo e alla
Biblioteca Nazionale.
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Cap. I
La poetica tragica di Vittorio Alfieri
Il teatro italiano tra la fine del Settecento e la prima metà
dell‟Ottocento si presenta in una situazione difficile. A dominare
era ancora la tradizione attorica della Commedia dell‟Arte, ma
ormai senza quella vitalità che l‟aveva caratterizza nel Cinquecento
e nel Seicento; aveva, infatti, perso le sue motivazioni culturali ed
era quindi soggetta ad una stanca ripetitività. Vittorio Alfieri (1749-
1803) si convinse che per superare questa crisi bisognasse iniziare
col riconoscere la natura speciale dello spettacolo teatrale che, per il
poeta, si presentava come il risultato dell‟interazione tra: attori,
autori e spettatori. Egli trattò questo problema nella sua opera
Parere dell’autore sull’arte comica in Italia, scritto nel 1785, nella
quale affrontava una questione tecnica come la recitazione senza
confinarla in uno spazio settoriale, ma collegandola alla totalità
dell‟espressione teatrale. Innanzitutto, per superare la crisi,
bisognava partire dalla formazione di un nuovo tipo d‟attore2 che,
come in un rapporto di causa ed effetto, sarebbe nato con la
comparsa di una nuova drammaturgia e quindi di nuovi autori. Nel
2
Anche Modena molto tempo dopo Alfieri ritenne che il rinnovamento della scena italiana
fosse possibile solo attraverso la formazione e l‟educazione di un nuovo tipo di attore. Proprio
per questo nel 1843 creò una compagnia in cui, secondo il suo progetto, dovevano essere
formati i giovani attori non avvezzi al vecchio stile declamatorio. E allo stesso modo Alfieri era
convinto che “gli altri attori diverranno sottili ed esatti, a misura che saranno educati”
consigliando anche di rivolgersi a “giovani di onesta nascita” di sani costumi”. V. Alfieri,
Parere sull’arte comica in Italia, 1865, cit., p. 55.
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Parere egli affermava che con nuovi autori tragici e comici, gli
attori facilmente si formeranno a poco a poco da sé, per semplice
forza di natura3 e qualora non avessero dovuto pensare alla propria
sopravvivenza, recitando oggi il Brighella e domani l’Alessandro4.
Alfieri riteneva che per riqualificare artisticamente l‟attore
fosse indispensabile elevarlo sul piano sociale. Gli attori del suo
tempo, infatti, ricoprivano una posizione subalterna all‟interno della
società, e quindi per il poeta avrebbero dovuto ricevere più rispetto
per poter così anche adempiere nel migliore dei modi alla loro
funzione culturale5.
Durante le recite organizzate in casa propria a Firenze, alle
quali Alfieri partecipava talvolta anche come attore, egli prese
coscienza di ciò che era necessario per la formazione degli attori6.
Per quanto riguarda l‟aspetto tecnico della recitazione, l‟autore
nel Parere elenca quali erano secondo lui i principi che un buon
attore avrebbe dovuto seguire: imparare la parte a memoria in modo
da non dover ricorrere, sulla scena, all‟aiuto del suggeritore7;
3
Ibidem.
4
Ibidem.
5
La maggioranza della popolazione considerava questa classe di artisti come una “turba di
commedianti” che non veniva neanche ammessa come testimoni ai processi, perché considerati
istrioni e saltimbanchi e quindi bugiardi. In seguito anche Gustavo Modena intraprenderà una
dura polemica contro una gerarchia sociale che relegava gli attori all‟ultimo gradino della
scala e che contrastava la restituzione della dignità culturale al teatro. Lo stesso concetto sarà
poi fatto proprio anche dai Grandi Attori.
6Tutti dicevano e pareva anche a me, di andar facendo dei progressi non piccoli in quell’arte
difficilissima del recitare: e se avessi avuto più gioventù, e nessun altro pensiero, mi parea di
sentire in me crescere, ogni volta ch’io recitava, la capacità e l’ardire, e la riflessione, e la
gradazione dei tuoni, e la importantissima varietà continua dei presto e adagio, piano e forte
[…] che, alternati sempre a seconda delle parole, vengono a colorir la parola, e scolpire direi
il personaggio. […].Parimenti la compagnia addestrata al mio modo migliorava di giorno in
giorno; e tenni allora per cosa più che certa, che se avessi avuto i denari, tempo, e salute da
sprecare avrei in tre o quattr’anni potuto formare una compagnia di tragici, se non ottima,
almeno assai, o del tutto diversa da quelle che in Italia si van chiamando tali, e ben diretta su
la via del vero e dell’ottimo. Cfr. V. Alfieri, Vita, Ep. IV, cit., cap. XXIII.
7
Lo stesso concetto sarà uno degli insegnamenti che Gustavo Modena trasmetterà ai suoi
allievi.