2
metafisica della presenza, considerata come una caratteristica della filosofia occidentale:
sviluppando alle estreme conseguenze il concetto heideggeriano di differenza ontologica, Derrida
oppone alla riflessione filosofica fondata sull’essere, e quindi sulla presenza, il pensiero della
differenza, cioè della contaminazione originaria di essere e non-essere, presenza e assenza,
negando la possibilità della purezza.
In rapporto a ciò, la scrittura è concepita da Derrida come luogo della differenza, che in essa si
inscrive; la scrittura, quindi, è il luogo della contaminazione che decostruisce la presenza assoluta
e con essa la possibilità di un senso pieno, univoco in quanto vero, determinando l’impossibilità
di un significato definito e aderente a sé, in una dinamica di continuo rilancio dei significati
stessi. La scrittura, infatti, rinvia a qualcosa d’altro che però non è univocamente rintracciabile ed
è pronta ad accettare sempre nuovi significati senza mai riconoscersi in uno soltanto; in questo
modo, essa insidia l’identità del senso, scartandosi continuamente a ogni rimando a una presenza
ultima. La dinamica scritturale, infatti, determina costitutivamente una deriva del senso, che si
disperde tramite un movimento di disseminazione, insito nella scrittura stessa, che impedisce alla
molteplicità dei significati di riassumersi in un orizzonte semantico finale. L’unica possibilità di
esistenza della differenza, dunque, è nella scrittura che, con il suo funzionamento, ne espone la
dinamica e gli effetti.
Nell’ambito del concetto di scrittura, assume importanza il discorso riguardante la spaziatura: il
foglio bianco, gli spazi bianchi tra le parole scritte evidenziano il non detto, ciò che è nascosto
nella concettualità tradizionale. Questa ricerca dell’impensato del pensiero e dell’innominabile del
linguaggio si svolge attraverso un lavoro di decostruzione interno al testo, con cui si realizza un
sovvertimento della logica binaria delle opposizioni che caratterizza la metafisica della presenza,
affermando la differenza come contaminazione degli opposti che scardina questa logica. La
strategia decostruttiva procede a partire dalla ricerca nel testo filosofico e letterario degli
3
indecidibili: false proprietà verbali, nominali o semantiche che non si lasciano comprendere
nell’opposizione filosofica binaria e la disorganizzano senza però costituire un terzo termine di
sintesi; in questo senso, l’indecidibilità consiste nella fluttuazione indefinita di un nome o di un
concetto tra i suoi possibili significati, in relazione all’impossibilità di identificarsi totalmente con
uno di essi, evidenziando così l’assenza costitutiva della differenza che nega la possibilità della
piena identità a sé della presenza.
Il concetto di decostruzione, dunque, si determina come la pratica con cui Derrida,
evidenziandone i punti critici, mette in discussione la concettualità metafisica.
Il capitolo prosegue l’argomentazione inerente al concetto di scrittura in relazione alla sua
determinazione come evento di invio e dono; la scrittura, infatti, in quanto disseminazione,
comporta un movimento di dispersione che si connota come evento inviante e destinante, quale
condizione da cui la realtà si produce, attraverso la dinamica della differenza, operante nella
scrittura. Questo accadere della scrittura, come invio da cui comincia l’essere, si caratterizza,
inoltre, come evento di dono, cioè come movimento con cui l’alterità si offre e contamina
l’identità, eccedendola; se infatti la realtà prodotta dalla differenza, attraverso il movimento
inviante della scrittura, si caratterizza come contaminazione, questa dinamica di invio deve
necessariamente connotarsi come offerta dell’altro, che donandosi impedisce la pura identità a sé
dell’essere.
All’interno della pratica scritturale, il concetto di dono implica l’elaborazione di uno stile
disseminante e decostruttivo che distrugge l’istanza metafisica della verità, intesa come totale
identità a sé della presenza, dimostrando che l’unica verità possibile è la non-verità, che si espone
nella scrittura.
Il secondo capitolo espone sinteticamente la posizione di Derrida relativa alla letteratura; in
particolare si argomenta una concezione del testo letterario che si sviluppa coerentemente con le
4
istanze della nozione derridiana di scrittura, sulla base di un’operazione decostruttiva delle
definizioni elaborate dalla critica letteraria, che si alimenta della concettualità metafisica.
A questo proposito, il filosofo francese sottolinea il potere decostruttivo di alcuni testi letterari,
tra cui quello di Mallarmé, in grado di mettere in discussione gli strumenti concettuali della critica
e della filosofia, mostrando la loro incapacità di comprenderli e controllarli.
Più specificamente, Derrida prende in considerazione le nozioni di testo e di titolo, coniate dalla
critica e dimostra come il funzionamento di alcuni testi letterari eccede queste definizioni, in
relazione alla determinazione della scrittura come spazio attivo della differenza; se infatti la
differenza, che agisce nella scrittura, determina l’orizzonte del reale, allora la realtà si costituisce
interamente come scena di scrittura, dunque come letteratura. In relazione a ciò, il concetto di
testo imposto dalla critica e dalla filosofia viene ecceduto dal testo letterario stesso, che si
identifica nell’intera realtà e non si lascia ridurre alla dimensione chiusa della sua definizione
metafisica.
Nell’ambito di queste riflessioni, il filosofo francese rivolge il suo sforzo decostruttivo al
mimetologismo, un aspetto caratteristico della concezione della letteratura prodotta dalla
metafisica. Si tratta, specificamente, di un’interpretazione del concetto di mimesi, che, da Platone
in poi, subordina la scrittura a una funzione imitativa e rappresentativa della realtà; Derrida, sulla
scorta della nozione di differenza in opera nella scrittura, evidenzia l’impossibilità di questa
concezione, dimostrando che tutto il reale si configura come mimesi e che, quindi, la dialettica
imitante-imitato, implicita nel mimetologismo, è strutturalmente impossibile.
Da questo punto di vista, si determina un diverso rapporto tra la letteratura, intesa come copia e
dunque finzione, e il concetto di verità che organizza metafisicamente il reale, poiché il costitursi
della realtà stessa come mimesi e come scrittura esclude la possibilità di un modello originario e
5
vero della letteratura; in relazione a ciò, l’urgenza filosofica della verità crolla, determinando
l’impossibilità della verità, se non come effetto di mimesi, quindi come non-verità.
Il capitolo prosegue, prendendo in considerazione una determinazione ‘luttuosa’ della letteratura,
tramite la quale essa si apre all’intervento della critica. In quanto scrittura, infatti, il testo letterario
si emancipa dal contesto in cui si è prodotto, determinando la ‘morte’dell’autore, che si assenta
dal suo scritto, rimettendolo alla sua dinamica; di conseguenza, nella misura in cui esso si distacca
dal soggetto scrivente e dalla sua intenzionalità di senso, il testo letterario non conserva un
significato univoco e definitivo, ma permette una molteplicità di letture e quindi il lavoro
ermeneutico e di ricerca del senso della critica.
Tuttavia, a questo proposito, Derrida afferma l’impossibilità della pretesa della critica letteraria di
determinare definitivamente il senso di un testo letterario, in relazione all’incapacità dei suoi
concetti di comprendere la dinamica della loro scrittura. In questo contesto, il filosofo francese
considera alcuni filoni della critica letteraria contemporanea, decostruendone le strategie di lettura
del testo.
Il terzo e ultimo capitolo è relativo alla trattazione della poesia di Mallarmé, sulla scorta delle
concezioni derridiane illustrate nella prima parte della tesi, facendo particolare riferimento al
saggio “La double séance” in cui Derrida si occupa nel modo più esaustivo di Mallarmé.
Specificamente si considera il concetto di mimesi, nell’ambito della poesia mallarmeana, in
opposizione al mimesthai di derivazione platonica che interpreta l’opera d’arte come copia imitante
di un oggetto referente imitato: la bontà dell’imitazione è relativa alla sua adeguatezza alla natura
dell’imitato, secondo una concezione della mimesi che trova il suo riferimento nella verità della
copia come verosimiglianza rispetto alla cosa copiata; in Mallarmé, tramite un particolare uso
della sintassi, avviene uno spostamento di questo riferimento alla verità, tale da eluderlo nella
6
dissoluzione dell’opposizione imitante-imitato che libera l’imitazione dalla pertinenza alla verità
dell’oggetto imitato.
In questo senso la poesia di Mallarmé è un’imitazione che non imita nulla, perché evade l’istanza
di aderenza alla cosa imitata, lo scopo infatti è di “dipingere, non la cosa, ma l’effetto che
produce”, una catena di allusioni liberamente collegate tra loro dal gioco sintattico di omonimie,
sinonimie, omofonie che liberano le parole dall’univocità della referenza.
In questo contesto acquista senso la teoria mallarmeana della sospensione, secondo la quale le
cose sono solo alluse e l’indecisione di questa allusione permette alle parole di muoversi da sole,
recidendo ogni senso e ogni referente, a partire dal poeta stesso che si dilegua lasciando
l’iniziativa alle parole, alla loro potenza contemporaneamente costruttiva e distruttiva.
La possibilità di questa sospensione nasce dall’indecidibilità del senso delle parole, ciò che
Derrida, facendo esplicito riferimento a un termine ricorrente nel lessico di Mallarmé, chiama
imene, nel senso di uno spazio intermedio, che separando due cose ospita in sé la compresenza di
esse, confuse insieme nell’indecisione del senso; in relazione a ciò si colloca il discorso sulla
spaziatura all’interno del testo poetico, così come il frequente rimando lessicale al bianco, che,
similmente all’indecidibilità rappresentata dall’immagine dell’imene, giocano il loro ruolo tra i due
opposti dell’estrema fecondità semantica e del vuoto di significato, impedendo alla polisemia di
raccogliere il suo senso in un orizzonte e determinando la scrittura mallarmeana come
disseminazione.
In questa prospettiva, si rileva nella poesia mallarmeana una crisi e una perdita del senso, che,
associata alla sospensione del rimando alle cose e all’assenza dell’autore che scompare dietro al
gioco delle parole, introduce una dimensione nichilista all’interno dell’opera poetica di Mallarmé;
in particolare, questo aspetto nichilistico si concreta nella negazione di una giustificazione
trascendentale del reale, che viene corroso, fino ad annientarsi, dall’azione della poesia, che lo
7
riduce a non-essere. Tuttavia, il nichilismo mallarmeano, nei luoghi stessi in cui compare in
riferimento, per esempio, all’idea di assenza, di morte o esplicitamente del nulla, viene superato
tramite la sua elaborazione poetica, impedendo la chiusura dell’immaginario poetico nella
dimensione nichilistica.
Accanto all’aspetto teoretico, in Mallarmé emerge anche un’esperienza storica del nichilismo, nel
senso di una riflessione sul suo tempo, che prende in considerazione l’economia dei valori,
costatandone il crollo; in particolare, Mallarmé registra l’importanza assunta dall’economia in tutti
i settori dell’esistenza e la rapporta all’estetica, constatando la caduta del valore letteratura, in
relazione alla dinamica di continua traslazione del valore, imposta dal circolo economico. Il poeta
assiste, dunque, al crollo del valore della poesia, che egli, da un lato, tenta di ripristinare come
affermazione della parola poetica e, dall’altro, distrugge nella consapevolezza della
convenzionalità e della finzione della poesia: ciò che emerge da questa posizione ambivalente è
che l’attribuzione del valore scavalca una motivazione interna alla poesia, così come il riferimento
all’artificiosità dell’arte in quanto finzione, poiché il valore risiede semplicemente nel suo
conferimento; di conseguenza il valore della poesia è relativo a ciò che le attribuisce significato e
verità, quindi è rimandato alla critica, che con il suo lavoro conferisce il valore alla letteratura.
A questo proposito, la scrittura evidenzia il suo carattere testamentario in relazione all’assenza, in
un certo senso, alla ‘morte’ dell’autore, che rimette la decisione del senso della sua poesia alla
critica. Tuttavia, questo legato testamentario lasciato da Mallarmé si rivela un inganno, poiché la
sua poesia si struttura in modo tale da rendere impossibile la determinzione di un senso totale che
la comprenda; di conseguenza, essa nega la possibilità stessa del lavoro della critica, poiché la sua
dinamica scritturale ne eccede irriducibilmente l’orizzonte concettuale.
8
PRIMO CAPITOLO
COORDINATE DERRIDIANE: ANALISI DEI CONCETTI FONDATIVI DEL
PENSIERO FILOSOFICO DI JACQUES DERRIDA
1.1. DERRIDA E LA TRADIZIONE FILOSOFICA: METAFISICA DELLA PRESENZA
E DECOSTRUZIONE
Nell’elaborazione del suo pensiero Jacques Derrida rivolge una continua e profonda attenzione
alla storia della filosofia, attraverso una rilettura dei testi filosofici che si estende dal pensiero
greco a quello contemporaneo.
In diversi luoghi della sua produzione, Derrida infatti recupera e analizza il pensiero antico,
soprattutto in riferimento a Platone, a cui dedica il saggio La pharmacie de Platon, e all’opera di
Aristotele, la cui trattazione compare all’interno di numerosi testi derridiani, come Ousia et grammé;
contemporaneamente, coltiva lo studio filosofia moderna, specificamente Rousseau, il cui
pensiero viene ampiamente analizzato all’interno di De la grammatologie, dove ricorre spesso anche
la citazione di Leibniz e Descartes.
Tuttavia, l’opera più incessante di rilettura si rivolge al pensiero contemporaneo. Hegel, Husserl e
Heidegger sono i filosofi con cui Derrida dialoga continuamente e che in modo più profondo ne
hanno influenzato la filosofia sia attraverso una critica e quindi un loro superamento, che tramite
un recupero di concetti e problematiche. Non a caso, sono numerosissime le opere derridiane che
ospitano la trattazione del pensiero di questi filosofi (le raccolte di saggi L’écriture et la différence e