6Quella che segue è la mappa della libertà pubblicata da Freedom House nel 2008, i
dati si riferiscono, naturalmente, all’anno solare 2007.
■ Non libero
■ Parzialmente libero
■ Libero
■ Dati non disponibili
La percentuale dei paesi classificati come liberi è del 46,6%.
Il dato può essere compreso meglio se si considera il trend globale della
democratizzazione negli ultimi tre/trenta anni.
Anno considerato Paesi liberi Paesi parzialm. liberi Paesi non liberi
2007
-Popolazione in mld.-
90(46,6%)
-3,03(46%)-
60(31%)
-1,19(18%)-
43(22,3%)
-2,39(36%)-
2006 90(46,6%) 58(30,1%) 45(23,3%)
2005 89(46,6%) 58(30,2%) 45(23,4%)
1995 76(39,8%) 61(31,9%) 54(28,3%)
1985 53(31,7%) 59(35,3%) 55(33%)
1975 41(27%) 48(31,6%) 63(41,4%)
La terza ondata ha portato con sé una grande formazione di istituzioni democratiche.
Costituzionalismo e parlamentarismo hanno caratterizzato la vita politica di Asia,
africa ed America Latina
3
.
Il mondo arabo/islamico è però stato escluso da molti studi comparativi e sono state
numerose le affermazioni circa un suo presunto eccezionalismo, con cui si fa
riferimento ad una particolare resistenza al trend democratico. Nella maggior parte
dei casi la mancanza di democrazia nell’area è stata ricondotta al fattore religioso,
3
G. PERRY e M. MICHAEL, Democracy and Democratization, London, Routledge, 1994.
7sollevando così il problema della compatibilità tra islam e democrazia. Questo non è
un problema da poco se si considera che l’intera area è oggi al centro della politica
statunitense di promozione della democrazia.
Anche nei paesi musulmani, così come negli altri paesi in via di sviluppo, si trovano
istituzioni democratiche quali costituzioni e parlamenti. Il problema è capire come
questi funzionino e come interagiscano all’interno di un contesto con delle
caratteristiche diverse da quelle presenti in Occidente dove è avvenuta la prima
democratizzazione. Il mondo arabo ci appare in continua tensione nel tentativo di
trovare una conciliazione tra la modernità ed un governo etico. Dopo il periodo di
colonizzazione, questi paesi si sono trovati spesso dipendenti dall’Occidente
economicamente e culturalmente. La modernizzazione, la democratizzazione e la
globalizzazione sono fenomeni a cui anche questi paesi non si sono potuti sottrarre.
All’interno dei paesi musulmani troviamo una gamma davvero ampia di strutture
politiche impiegate: monarchie, monarchie costituzionali (v. Marocco), democrazie
secolari, repubbliche presidenziali (v. Algeria e Tunisia), repubbliche islamiche,
dittature, eppure tutti questi paesi presentano la necessità di far i conti con l’islam
politico ed il suo ruolo nella sfera pubblica. Da quando il mondo musulmano è
diventato libero dalla dominazione coloniale all’inizio della seconda metà del XX
secolo si è dovuto scontrare con due problemi fondamentali. Il primo problema è
dipeso dal modo in cui loro avrebbero dovuto governare se stessi, il secondo è stato la
conseguenza dell’impatto della modernità con la loro vita e la loro cultura.
Questo impatto aveva già mostrato i suoi effetti durante gli anni di dominazione
europea. Le strutture di governo tradizionali che caratterizzavano questo mondo, non
sembravano adatte a negoziare con i nuovi dominatori. Divenire indipendente ha
costretto il mondo arabo ad affrontare un crisi riguardante la scelta della migliore
forma di governo alla luce di un confronto con l’occidente. Il tema ricorrente a questo
punto non può non essere quello del rapporto tra la tradizione (islam e cultura
musulmana) e la modernità (democrazia).
A parte le ali più radicali dell’islamismo che rigettano ogni forma di democrazia per
una concezione – peraltro poco definita e nebulosa – di stato islamico, oggi il
desiderio di democrazia è in costante aumento in questi paesi. Il vero problema
rimane dunque quale ruolo possa avere l’islam all’interno della sfera pubblica
musulmana. Non sembra che nel mondo musulmano si sia raggiunto un accordo su
questo. I più secolari dichiarano di avere paura che l’islam politico possa avere uno
spazio importante all’interno della democrazia. Altri affermano come l’islam possa
avere molto di buono da offrire nella sfera pubblica. Azizah al-Hibri nel suo libro
“Islamic Constitutionalism and the Concept of Democracy” arriva alla conclusione
che la sharia (la legge islamica) è totalmente compatibile con un governo
democratico e nella sua struttura risulta simile alla Costituzione americana perché
come questa può essere applicata con il consenso del popolo.
Mernissi, invece, descrive il rapporto tra islam e democrazia come un conflitto per
eccellenza
4
. Contrappone la legge musulmana alla legge dell’Occidente rappresentata
dalla Carta delle Nazioni Unite e descrive efficacemente il gap che è al centro del
4
F. MERNISSI, Islam e democrazia.La paura della modernità, Firenze, Giunti, 2002.
8tema: «…la maggior parte degli stati musulmani ha firmato [la Carta delle NU] e si
trova così governata da due leggi contraddittorie. Una legge garantisce ai cittadini
libertà di pensiero, mentre la sharia, nella sua interpretazione ufficiale basata sulla
ta’a (obbedienza), la condanna. […] Per molta gente, la Carta è come il mostro
Haguza della mia infanzia: ne senti parlare ma nessuno l’ha mai vista. È arrivata
misteriosamente sulle nostre coste ripiegata nelle valigette dei diplomatici e, come la
cortigiana di un harem, non è mai riuscita ad uscire. Con l’età e la reclusione è
diventata, come Haguza, sempre più terrificante a causa della sua invisibilità.».
Il problema del rapporto tra la modernità e le pratiche tradizionali musulmane è
innegabile e non si presta ad una facile soluzione. Il rapporto tra le istituzioni
democratiche e la democrazia, induce a chiedersi quali elementi entrino a far parte
del processo, dando vita allo stacco descritto da Mernissi.
La storia e l’analisi dei tre paesi da me trattati può essere ulite a proposito. Come può
essere utile esaminare le varie dinamiche democratiche e sociali di una monarchia
marocchina di cui si evidenzia la propensione democratizzarsi, di un’Algeria che pare
uscire non senza difficoltà da una guerra civile o di un regime tunisino che si è
progressivamente inasprito senza però suscitare grande reazione da parte della
comunità internazionale.
Quelli che seguono sono gli indici di Freedom House 2008 per questi tre paesi,
nonché la rispettiva ripartizione degli stessi secondo la classificazione di Somaini
5
.
Paese Status
Diritti
Politici
Libertà
civili
Classificaz. Prof. Somaini
ALGERIA Not Free 6 5 Autocrazia dura
MAROCCO* Partly free 5 4 Autocrazia blanda
TUNISIA Not Free 7 5 Autocrazia dura
* Esclusa, naturalmente, la zona del Sahara Occidentale.
Vorrei concludere questa introduzione citando ancora una volta un brano di Mernissi
che a mio avviso dovrebbe accompagnare la lettura di questo lavoro: «Il mondo arabo
sta per spiccare il volo […]. Sta per decollare per la semplice ragione che chiunque,
primi tra tutti i fondamentalisti, vuole il cambiamento. Il fatto che loro propongano di
andare avanti tornando indietro non altera il fatto che desiderino fortemente il
cambiamento. In questa parte del mondo c’è un forte desiderio di andare altrove, di
una migrazione collettiva verso un altro presente. Gli stranieri non lo avvertono, ma
ogni mattina mi sveglio con la radio nelle orecchie e penso: tutto può succedere, forse
tutto cambierà da un momento all’altro.».
5
Ricordo che F.H. formula un indice che misura il grado di libertà esistente in un paese, variando tra 1 (libertà
massima) e 7 (assenza di libertà), suddividendo gli stati in tre categorie: liberi, parzialmente liberi e non liberi.
La classificazione secondo Somaini raggruppa invece i paesi in cinque classi più una sottoclasse, abbiamo così:
democrazie normali, democrazie di bassa qualità, semi-democrazie (all’interno della quale si trova la sottoclasse delle
“democrazie solo elettorali”), autocrazie blande ed autocrazie dure.
9 -PARTE I-
ANALISI GENERALE DEL PROCESSO DEMOCRATICO
NEL MONDO MUSULMANO
10
Capitolo I. Democrazia e democratizzazione – Definizioni e approcci
1. Cos’è una democrazia
La definizione di democrazia e la descrizione delle sue caratteristiche principali
rappresenta un dibattito che, con momenti alterni, è sempre stato molto prolifico.
La discussione su come la “volontà del popolo” possa essere politicamente
rappresentata ha spaziato infatti dall’antica Grecia alla contemporanea Unione
Europea. In parallelo, gli studiosi si sono interrogati anche su come la democrazia
nasca, e si mantenga, cioè sulla democratizzazione, ovvero sulle condizioni
fondamentali che contribuiscono all’instaurazione e al consolidamento democratico.
La “teoria della democratizzazione” ha conosciuto in tempi recenti un’attenzione
particolare, principalmente legata alle trasformazioni avvenute a seguito del crollo
dell’Unione Sovietica. Esiste così un corpus di teoria classica (in senso lato) della
democrazia e una crescente letteratura sulla democratizzazione, la quale tuttavia non
ha ancora veramente colmato la distanza concettuale tra la teoria classica, largamente
fondata sullo studio delle democrazie liberali di massa, e gli studi dell’area al Medio
Oriente intendendo il mondo arabo in generale (Maghreb e Mashreq).
Da qui discende la necessità di chiarire in modo esauriente il significato dei termini
usati nell’affrontare la questione della democrazia. Infatti “definire la democrazia è
importante perché stabilisce cosa ci aspettiamo da essa” scriveva Sartori
6
.
Sono state proposte numerose definizioni di democrazia, che si distinguono per la
diversa enfasi che pongono sui vari elementi fondamentali della democrazia. In modo
approssimativo, tali definizioni possono essere situate sul continuum che intercorre
tra un approccio formale a un approccio normativo della democrazia, passando per
una definizione empiricamente orientata ed una strutturale.
Nell’approccio formale la definizione di democrazia si focalizza sulle regole che
determinano il gioco politico, ed in particolare sulla competizione elettorale. Secondo
Schumpeter, per esempio, il metodo democratico è lo strumento istituzionale per
giungere a decisioni politiche, in base al quale i singoli individui ottengono il potere
di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare
7
. Nella
riformulazione di Huntington, un sistema è democratico se le massime cariche di
governo sono allocate attraverso elezioni eque, oneste e periodiche, in cui i candidati
possono competere liberamente per il voto popolare e in cui nominalmente ogni
cittadino adulto può presentarsi come candidato
8
. Se questo approccio potrebbe a
prima vista giustificare una visione solo formalistica della democrazia e includere nel
novero delle democrazie regimi che “visceralmente” giudichiamo autoritari, è bene
notare che l’accordo sulle regole tra gli attori politici rilevanti in realtà dev’essere
molto saldo e non permettere nessuna messa in discussione dell’alternanza
democratica. La competizione elettorale è intesa infatti come un accordo tra le parti e
6
G. SARTORI, Democrazia cos’è, Rizzoli, 1993.
7
J. SCHUMPETER, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Etas Kompass, 1967.
8
HUNTINGTON, op.cit.
11
un più generale rispetto dello stato di diritto (rule of law) il quale a sua volta prevede
un apparato istituzionale atto a proteggerne i principi. Per esempio, Diamond ha
esaminato per tutti i paesi del mondo una serie di indicatori di elezioni “libere e
corrette”, includendo nell’analisi aspetti quali la competenza ed indipendenza degli
organi addetti all’amministrazione e al controllo delle elezioni, l’imparzialità con cui
le istituzioni trattano tutti i candidati, l’assenza di regole che favoriscano di fatto
l’élite al potere, oltre alla percentuale di voto raggiunta dal primo partito e al numero
di anni in cui non si è verificato un cambiamento al vertice
9
. Dalla sua analisi i paesi
escono tutti come “autoritarismi”, suddivisi in “competitivi”, “egemonici” (è questo il
caso dei tre paesi del Maghreb da me trattati) ed infine “chiusi”.
Una seconda posizione nel dibattito sulla democrazia viene offerta da un approccio
empiricamente orientato, ovvero da quel gruppo di autori che si preoccupa di
identificare le dimensioni misurabili di una democrazia in modo più ampio e preciso
al tempo stesso. Un esempio di attenzione alle componenti della partecipazione
politica, diverse ma necessarie alla competizione elettorale, è rappresentato per
esempio da Dahl, il quale definisce democrazie tutti i regimi contraddistinti dalla
garanzia reale di partecipazione politica più ampia possibile della popolazione adulte
maschile e femminile e dalla possibilità di dissenso e opposizione
10
. La definizione di
Dahl sottolinea tre aspetti fondamentali della democrazia. In primo luogo, introduce
la questione della partecipazione politica, e quindi dei diritti politici, intesi
principalmente come elettorato attivo e passivo, e di chi è titolare di tali diritti.
Inoltre, Dahl enfatizza l’importanza della possibilità di esprimere dissenso e
opposizione, sottolineando quindi l’esistenza anche dei diritti civili come condizione
fondamentale per l’esistenza della democrazia. In questo caso, i diritti civili sono dati
dal diritto di associazione, libertà di espressione, e così via. Il terzo aspetto è
rappresentato dalla presenza di garanzie reali che mettano i cittadini in condizioni di
poter godere di tali diritti politici e civili.
Su questo tipo di approccio o su una sua variante si fondano gran parte delle ricerche
che mirano a giudicare il livello di democrazia raggiunto o meno da tutti i paesi del
mondo. Uno degli indici più utilizzati, è sicuramente quello della già citata istituzione
americana Freedom House. Tale indice viene costruito proprio sulle due dimensioni
dei diritti politici e civili centrali nella definizione di Dahl ricordata sopra. Gli
studiosi di Freedom House, infatti, rispondono in maniera affermativa o negativa a
dieci domande sui diritti politici (distinti in “processo elettorale”, “pluralismo politico
e partecipazione”, e “funzionamento del governo”) e quindici sui diritti civili (distinti
in “libertà di espressione”, “libertà d’associazione”, “stato di diritto”, e “diritti della
persona”). Su questa base viene poi formulato un indice che misura il grado di libertà
esistente in un paese.
La strada più sicura per una transizione ad una solida democrazia, secondo Dahl,
passa per un allargamento solo graduale dei diritti politici, lasciando tempo perché la
pratica della competizione e del dissenso si consolidino in una ristretta minoranza
9
L. DIAMOND, Thinking about hybrid regimes, 2002.
10
R. DAHL, Poliarchia. Partecipazione e opposizione, Bologna. Il Mulino, 1980.
12
prima di essere allargate all’intera popolazione. Tuttavia, questa strada indicata da
Dahl incontra oggi numerosi ostacoli. Che soprattutto nel mondo arabo sembrano
particolarmente insormontabili. La mobilitazione nazionalista nei paesi arabi, sia in
epoca di decolonizzazione che negli anni successivi, ha infatti creato delle condizioni
completamente diverse rispetto per esempio all’Inghilterra settecentesca.
L’“irruzione delle masse in politica” è un fenomeno largamente condiviso anche dal
mondo arabo, nonostante i recenti tentativi di “depoliticizzare” il dibattito pubblico e
l’enorme numero di ostacoli che la partecipazione politica incontra oggi.
Una terza posizione nel dibattito è rappresentata dall’approccio strutturale. Che mira
ad identificare le condizioni socio-economiche strutturali per lo sviluppo di una
democrazia. Rueschmeyer, Stephens e Stephens
11
, per esempio, sottolineano gli
enormi ostacoli che incontra le formulazione degli interessi da parte delle classi più
basse, e come questo costituisca il vero punto cruciale di ogni transizione
democratica. La transizione, infatti, va necessariamente ad intaccare gli interessi non
solo dell’élite governante, ma anche di un’ampia fascia di borghesia che ha costruito
il proprio status socio-economico sulla collusione con un potere fondamentalmente
autoritario. Pertanto, il processo di transizione deve necessariamente coincidere con
una riformulazione delle forme e delle strutture di potere (materiale e non), al fine di
garantire l’espressione e la rappresentanza dei diritti socio-economici e politici delle
classi disagiate. Mentre larga parte della letteratura classica sulle democrazia
suggerisce che parti della borghesia si allineino con gli strati inferiori per la conquista
del potere, il punto sollevato da Rueschmeyer, Stephens e Stephens indica invece la
possibilità chela borghesi astringa un’alleanza con la classe governante contro gli
esclusi, ovvero le grandi masse. Questa possibilità può rappresentare un ostacolo
fondamentale alla democratizzazione soprattutto in casi, come quello del mondo
arabo, in cui lo Stato è stato fondato sull’esclusione di alcune parti della cittadinanza,
anche attraverso un utilizzo ricorrente a varie forma di populismo.
È bene a questo punto fare un passo indietro, ed inquadrare il contributo
dell’approccio strutturale alla democrazia in un più ampio dibattito relativo al
rapporto tra i fattori economici e democrazia. I primi studi sono stati proposti da
Lipset, che ha poi ripreso più volte la questione. Secondo Lipset, la democrazia si
accompagna ad un certo grado di sviluppo economico. Tanto più una nazione è
economicamente sviluppata, tanto più essa sarà propensa ad intraprendere u a
transizione democratica. Le “regressioni autoritarie” degli anni ’70 in America Latina
hanno tuttavia sollevato dubbi relativamente a questa relazione lineare. Da un lato, i
teorici della dipendenza hanno capovolto i termini della questione, suggerendo che il
grado di penetrazione e di dipendenza dalle potenze esterne ha un effetto fortemente
negativo sulle nuove democrazie. Lo sviluppo economico, dopo un certo punto,
diventa dunque controproducente. Dall’altro, Lipset e altri sulla sua scia hanno
raccolto il suggerimento sulla relazione curvilinea tra sviluppo economico e
democrazia, ma hanno precisato che la curva ha la forma di una “N”, in cui la
relazione tra democrazia e sviluppo è positiva in un primo momento e sul lungo
11
D. RUESCHEMAYER, E. STEPHENS e J. STEPHENS, Capitalism development and democracy, Cambridge, Policy
press, 1992.
13
periodo, ma conosce un momento di relazione inversa che giustifica le transizioni
autoritarie di regimi parzialmente sviluppati
12
.
La teoria di Lipset è stata criticata da chi, come per esempio Vanhanen, suggerisce
che la variabile fondamentale non consiste nel livello di sviluppo economico, ma nel
grado di distribuzione delle risorse tra i cittadini: ad una maggiore uguaglianza nella
distribuzione delle risorse corrisponde una maggiore propensione di un paese a
transitare verso la democrazia
13
. Vanhanen utilizza una serie specifica, e in parte
criticabile, di indicatori di uguaglianza nella distribuzione delle risorse, che lo porta
ad identificare la maggioranza dei paesi arabi come un caso deviante.
Quantificare gli aspetti strutturali o anche solo i fondamenti socio-economici della
democrazia è veramente difficile e spesso vano. Tuttavia, poiché il fine di comparare
le condizioni attraverso regioni diverse rimane, possiamo citare in merito l’indice di
sviluppo umano delle Nazioni Unite, che mette in correlazione tre indicatori del
benessere sociale, culturale ed economico: 1) la qualità della vita, misurata secondo
l’aspettativa di vita; 2) l’accesso alla conoscenza, misurato dal tasso di
alfabetizzazione nella percentuale adulta e dalla percentuale di scolarizzazione; 3) lo
standard di vita economico, secondo il Pil pro-capite. Sotto questo punto di vista i
paesi arabi presentano invece un aspetto molto variegato e differenziato.
Chiude l’ampio spettro di definizioni della democrazia l’approccio normativo. Gli
autori che propongono definizioni in questo senso hanno messo l’accento su una serie
di valori ritenuti cruciali per fondare una democrazia. Sartori, per esempio, evidenzia
l’importanza di un nucleo “etico-politico” di valori liberali e democratici su cui
costruire il compromesso elettorale
14
. In altri termini, il gioco delle regole o
l’allargamento dei diritti civili e politici avviene solo in un clima di reciproca fiducia
e di rispetto per alcuni principi fondamentali, come per esempio il rispetto della
proprietà privata. Anche Morlino evidenzia l’importanza di un accordo di base per la
“risoluzione pacifica dei conflitti” tra i vari attori politicamente rilevanti. Egli
sottolinea inoltre il fatto che una democrazia contemporanea dovrebbe realizzare
libertà ed uguaglianza per i suoi cittadini
15
. Si porta così alle estreme conseguenze il
dibattito tra la democrazia come forma di governo e i diritti sociali, economici e
culturali. Tutti questi spunti sottolineano come sia importante dunque mantenere una
triplice prospettiva sulla questione della democrazia nel mondo arabo. Mentre, in
primo luogo è necessario tenere un occhio sulla definizione di democrazia come
traguardo eticamente imperativo, in secondo luogo, ci si chiede se il processo
attualmente in corso possa essere definito in termini di democratizzazione, con tutte
le difficoltà e la mancanza di certezze che questo campo della letteratura propone. La
terza prospettiva necessaria infatti è la realtà sul terreno, ovvero il modo in cui le
regolazioni de facto o da iure della partecipazione politica si realizzano nel mondo
arabo in un’ampia gamma di regimi dalle varie sfumature autoritarie. In quest’ottica
12
S. LIPSET, L’uomo e la politica, Milano, Comunità, 1963.
13
T. VANHANEN, Prospects of democracy, A study of 172 countries, London, Routledge, 1997.
14
G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Bologna, il Mulino, 1957.
15
L. MORLINO, Democrazie e democratizzazioni, Bologna, il Mulino, 2003.
14
il vocabolario della scienza politica si va arricchendo di una serie di espressioni atte a
cogliere la natura ibrida di molti di questi regimi quali “semi-democrazie” e così via,
che alcuni, come ad esempio Brumberg hanno classificato lungo un continuum cha va
dalla “piena autocrazia” (quella dell’ex-Iraq di Saddam seguito dalla Siria) alla
“autocrazia liberalizzata” del Marocco di Mohamed VI
16
.
Laddove già da tempo è stata chiarita la differenza tra liberalizzazione, che
rappresenta un’apertura pilotata dall’alto e pertanto facilmente reversibile, e
transizione democratica, che invece costituisce una rottura con il precedente regime
non democratico, solo recentemente si è cercato di esprimere delle differenziazioni
all’interno della categoria degli autoritarismi. Una possibilità è data dalla distinzione
sopra menzionata operata da Diamond, a seconda del grado crescente di controllo
sulla competizione elettorale, dove presente, la quale è ormai una caratteristica di tutti
i regimi presenti nel mondo. Un’altra distinzione, ad opera di Carothers
17
, indica un
problema più specifico che affligge i paesi del Medio Oriente che non possono essere
più identificati come autoritarismi ma non sono nemmeno democrazie, ovvero la
presenza di un attore (sia esso un movimento, un partito, una famiglia in senso esteso
o un leader specifico) dal potere dominante. In questi casi, all’interno di un quadro di
apparenti istituzioni democratiche, esiste effettivamente un’arena politica, pur
limitata, così come un’opposizione, per quanto marginalizzata. Ma dietro questa
facciata, la realtà del potere è saldamente delle mani dell’attore dominante, senza
possibilità di una vera alternanza. Inoltre, non esiste una linea di demarcazione tra lo
Stato e l’attore dominante, perché quest’ultimo dispone delle risorse statali in
maniera strumentale rispetto al suo controllo del paese. Come vedremo, questo è un
tema fondamentale della politica nel mondo arabo.
16
D. BRUMBERG, Liberalization versus democracy: under standing arab political reform, Washington, Carnegie
Endowment, 2003.
17
T. CAROTHERS, The end of the transitino paradigm, Oxford, 2002.