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mente, chi può garantirci che essa corrisponda effettivamente alla cosa che viene
pensata? Ed ancora: qual è la natura della verità? E‟ il frutto di una rivelazione
divina oppure è il prodotto della mente umana? In quest‟ultimo caso, fin dove può
arrivare la nostra possibilità di conoscere la verità? Non è forse necessario
conoscere preliminarmente quali siano i limiti della nostra capacità conoscitiva?
Nella domanda di Kant, «che cosa posso sapere?», vi era un‟impostazione
che, invece di mettere l‟accento sul primato dell‟oggetto conosciuto, riteneva
essenziale mettersi dal punto di vista del soggetto che conosce e domandarsi
possibilità e limiti della conoscenza. Il problema della conoscenza si poneva nella
domanda kantiana non solo come problema di che cosa, ma anche di come
all‟uomo fosse possibile sapere.
Non l‟affermazione presuntuosa della propria competenza e del proprio
sapere, ma il riconoscimento della propria ignoranza, cioè “il sapere di non
sapere”, costituisce il passaggio obbligato per ogni reale acquisizione di verità.
Colui che presume di sapere, sosteneva Socrate, non assumerà un atteggiamento
di ricerca. Come affermava Socrate, il dio è sapiente ma l‟uomo è filosofo,
ricercatore della verità e della sapienza. La ricerca della verità è caratteristica
dell‟uomo e della condizione umana.
Con questo atteggiamento, più consapevole di me e dei miei limiti, ho
deciso di intraprendere questa ricerca raccogliendo informazioni dai diversi
ambiti disciplinari che si occupano dello studio dell‟uomo, della sua natura, del
suo agire.
Il lavoro si apre perciò con un‟analisi del comportamento umano, condotta
in base a diversi punti di vista: verranno studiate le “radici” del nostro
comportamento in base all‟approccio biologico (gli adattamenti filogenetici, i
meccanismi scatenanti innati, gli stimoli chiave e i segnali scatenanti) e
psicologico (lo studio delle pulsioni, dell‟aggressività e il ruolo delle emozioni), e le
forze che possono modificarlo.
tende necessariamente a realizzarsi nel mondo esterno a sé, cioè ad oggettivarsi: il che comporta il
passaggio dallo spirito soggettivo a quello oggettivo, ossia dalla sfera dell'interiorità soggettiva al
mondo oggettivo della società e delle istituzioni. Per una visione d‟insieme: G. W. F. Hegel (1817),
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit. in N. Abbagnano, G. Fornero, Protagonisti e
testi della filosofia, Paravia, Torino 1996.
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Toccando le più svariate discipline, volevo tentare di evidenziare come il
comportamento umano fosse condizionato da diversi fattori: biologici, psicologici,
sociali. Ciò necessitava quindi un approccio multidisciplinare, un tipo di studio
che riuscisse ad evidenziare i singoli aspetti del comportamento umano, a
studiarne le cause e le varie manifestazioni.
Per nostra fortuna (o sfortuna, dipende dai punti di vista), l‟uomo non è soggetto
allo stesso determinismo riscontrabile nelle scienze naturali: la manifestazione di
uno stesso comportamento in due soggetti può dipendere da cause diverse, così
come stesse cause, stessi stimoli, stessi fattori, possono influire in maniera
diversa, dando vita a diverse risposte comportamentali. Nell‟uomo risulta quindi
impossibile prevedere, ed esser certi di, una particolare manifestazione in base ad
un certo stimolo.
Altro campo di interesse riguarda la “normalità” e la “patologia” nel
comportamento umano e come queste influiscono nelle risposte individuali. Lo
studio della normalità implica necessariamente l'analisi dei comportamenti
umani; esso, pertanto, risulta strettamente connesso a quello della personalità,
espressione di difficile definizione con cui oggi la psicologia concorda
nell'intendere il prodotto dell'interazione dinamica dei vari processi psichici
(cognitivi, affettivi, sociali, evolutivi) che, nel loro insieme, strutturano il sistema
complessivo della persona umana come unica e irripetibile.
Vedremo che nella storia della psicologia, tuttavia, sono state elaborate molteplici
definizioni della personalità, in base agli schemi di riferimento teorici da cui
hanno preso l'avvio e a ognuno dei quali inerisce ad una diversa nozione del
concetto di normalità.
Analizzare le più significative teorie sulla personalità risulta dunque condizione
fondamentale per ricostruire la storia del concetto di “normalità”, nel tentativo di
spogliarlo fenomenologicamente delle varie componenti ideologiche operanti nei
vari approcci: medico, psichiatrico, psicologico fenomenologico, sociologico.
Infine, è stata analizzata la storia di un soggetto, autore di un triplice omicidio
sull‟altopiano pistoiese, a cui, in sede peritale, è stato riscontrato un vizio parziale
di mente, in quanto affetto da disturbo schizoide della personalità.
L‟interrogativo che mi sono posta nel momento in cui ho intrapreso un
simile lavoro è il seguente: è possibile considerare una componente aggressiva
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insita nella natura umana? E quindi, di conseguenza, può una persona,
apparentemente “normale”, macchiarsi di simili reati?
Nel corso del lavoro vedremo come questo dilemma ha alimentato, nel corso dei
secoli, un dibattito infuocato, dove si sono scontrate tesi diametralmente opposte.
Rousseau, com‟è noto, considerò l‟essenza originaria dell‟uomo come pacifica,
altruista, tesa alla semplicità di vita e all‟armonia dei rapporti con gli altri e con la
natura, aliena da competitività ed aggressività.
Di parere completamente opposto fu, invece, Hobbes che, con il suo “homo
homini lupus”, volle sottolineare il radicale egoismo e la profonda sete di potere
insiti nella natura umana. E come lui la pensavano molti altri, fra cui Vico e
Nietzsche, tanto per fare qualche nome.
La disputa non ha risparmiato neppure la psicologia. In sede di teorie della
personalità, mentre Freud metteva l‟accento sulle pulsioni egoistiche dell‟uomo,
sessuali ed aggressive, tutte protese verso la gratificazione immediata e a mala
pena tenute a freno dal Super-Io, le teorie umanistico – esistenziali rivalutavano,
con Maslow, i bisogni umani di natura superiore, come quelli della conoscenza,
della ricerca della bellezza, dell‟armonia sociale.
Sia ben chiaro che la presente tesi, nonostante il titolo, costituisce un
rapido sguardo rispetto all‟enormità del tema in questione, anche se è stato
condotto uno sforzo di sistematizzazione di tale letteratura. Nella vastità
dell‟argomento trattato, ho avuto modo di approfondire lo studio di alcuni autori
quali, Sigmund Freud, Konrad Lorenz, Erich Fromm, Michel Foucault, Georges
Canguilhem, tralasciando lo studio di altri autori altrettanto significativi come
Jacques Lacan, Karl Jaspers, Eugene Minkowski…
Mi auguro che la lettura di tale lavoro possa far sorgere, in chi legge, simili,
se non ulteriori, interrogativi riguardo la natura umana e le sue molteplici
manifestazioni; e magari, chissà, ci sarà un giorno in cui qualcuno riuscirà a dare
risposte definitive a tali interrogativi. Spero, tuttavia, che questo giorno non arrivi
mai: ciò che fino ad ora ha caratterizzato la natura umana è stata proprio la sua
imprevedibilità, la sua “improvvisazione”, potremmo dire, delle varie
manifestazioni comportamentali di fronte ai numerosi stimoli ambientali,
psicologici, sociali, ecc, che in svariati modi influenzano l‟agire umano.
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CAPITOLO 1
Il soggetto e l’azione.
L’azione individuale come processo complesso
er comprendere il comportamento umano bisogna risolvere
problemi infinitamente più difficili di quelli che occorre
affrontare per far giungere l‟uomo sulla Luna o per svelare la
struttura di molecole complesse».2 Così Robert H. Hinde, nel 1974, descriveva il
suo oggetto di studio: il comportamento umano. Niente di più vero.
Lo studio dell‟uomo, in quanto essere pensante, razionale e, quindi, superiore, ha
interessato da sempre le più diverse e disparate discipline. Le prime
testimonianze ci sono offerte dagli studi filosofici del passato, dai grandi filosofi
greci che, per primi, hanno tentato di far rientrare nello scibile umano un così
grande sapere.
Il progresso scientifico e tecnologico, il fiorire di nuove scienze e, di conseguenza,
il possesso di nuove conoscenze, ci permettono, oggi, di avvicinarci sempre più a
delle verità riguardanti la natura umana e nonostante ciò, per la sua complessità
(in quanto organismo superiore, l‟essere umano è definito complesso, anche dal
punto di vista strutturale), per le sue innumerevoli e non del tutto note
potenzialità psichiche e mentali, l‟uomo rimane ai nostri occhi ancora un
universo sconosciuto, ricco di misteri e segreti non svelati. Basti pensare alle così
tante facoltà dell‟organo più studiato in assoluto: il sistema nervoso. Molte di esse
restano ancora ignare ai nostri illustri studiosi. Ma non è sicuramente questo
l‟ambito per intraprendere uno studio sul sistema nervoso.
Come approcciarsi, quindi, allo studio del comportamento umano? Quali
sono le radici del nostro comportamento, quali forze possono modificarlo e cosa ci
2 Cfr. R. A. Hinde (1974), Biological bases of human social behaviour, tr. it. Le basi biologiche del
comportamento sociale umano. Studiare gli animali per comprendere l’uomo, Zanichelli, Bologna
1977, p. VII.
«P
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rende differenti gli uni dagli altri? Quali sono le origini delle differenze intellettuali
o del temperamento? Si tratta di interrogativi che sono senza dubbio antichi, ma
a cui si è oggi in grado di rispondere in maniera nuova sulla base di conoscenze
oggettive.
Il comportamento dell‟uomo è soprattutto il risultato di una storia antica
milioni di anni, una storia di cui è possibile rintracciare e studiare le pagine
precedenti basandoci sui nostri antenati umani e sullo studio del comportamento
animale. In fin dei conti, l‟uomo è attualmente considerato un appartenente alla
specie animale, su cui l‟evoluzione ha influito in maniera determinante. Quindi,
come pretendere di affrontare lo studio dell‟uomo tralasciando l‟analisi
comportamentale dei suoi progenitori? È per questo che molti studiosi del
comportamento, Hinde compreso, ritengono che dallo studio del comportamento
animale si possa comprendere il comportamento umano, sebbene in maniera
limitata.
Nonostante il divario fra il comportamento animale e quello dell‟uomo (nel loro
livello di funzionamento cognitivo, nel grado di previsione e consapevolezza di cui
sono capaci, nella loro capacità di riflettere sul proprio comportamento, tutti gli
animali sono sensibilmente inferiori all‟uomo), talvolta studi simili sono utili nella
misura in cui gli animali assomigliano all‟uomo, e talvolta sono utili proprio
perché gli animali sono diversi e consentono di studiare i problemi in forma
semplificata, isolata o esagerata. Il ricorso agli animali può presentare però alcuni
pericoli: è molto facile giungere a generalizzazioni avventate, scivolare dalla realtà
nella fantasia, scegliere esempi che siano in accordo con i pregiudizi. Gli studi
sugli animali devono perciò essere usati con circospezione e devono essere
specificati i limiti della loro utilità.
L‟uomo, tuttavia, è anche stato considerato come una specie “unica”, i cui
comportamenti non possono essere analizzati con le stesse categorie che ci
permettono di analizzare gli animali.
Quanto i geni, quanto l‟apprendimento, quanto l‟ambiente possano ritenersi
responsabili della genesi di determinati comportamenti è cosa assai dibattuta tra
i vari studiosi di scienze umane. Ma, procediamo per gradi, e proviamo ad
analizzare singolarmente le varie posizioni.
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1. Adattamenti filogenetici nel comportamento umano: meccanismi
scatenanti innati, stimoli chiave e segnali scatenanti
Per molto tempo, sulla scena del comportamento, ha dominato
incontrastato un dogma che deriva dalla filosofia di Locke, il dogma secondo cui
la natura umana è tabula rasa e l‟uomo è, alla nascita, una lavagna intatta su cui
è possibile iscrivere regole e apprendimenti: attraverso l‟apprendimento e
l‟esposizione alla cultura, il bambino poteva passare da quello che veniva ritenuto
come uno stato di animalità ad uno stato di umanità. Questa impostazione, che
discendeva in parte da una lunga tradizione filosofico – religiosa dovuta anche
alla scarsa possibilità di studiare in maniera scientifica il sistema nervoso, la sua
anatomia e la sua fisiologia, ha avuto sul piano pratico implicazioni non
indifferenti. Essa ha portato infatti a ritenere che, poiché l‟uomo era
essenzialmente un prodotto della cultura, privo di una sua essenza biologica,
tutto poteva essere iscritto su quella lavagna vergine che era il cervello; il che ha
a volte esasperato posizioni ideologiche che hanno considerato l‟uomo soltanto
come una parte di un grande meccanismo sociale e quindi privo di sue necessità
e pulsioni individuali. In realtà, rispetto al numero delle pulsioni istintive degli
altri mammiferi, quelle dell‟uomo non sono certo minori, forse addirittura
maggiori, come ci si può del resto aspettare data l‟enorme complessità del
comportamento umano. Di questi istinti, alcune forme di adattamento
esclusivamente umane sono poste al servizio di specifiche prestazioni culturali: si
pensi, ad esempio, all‟impulso innato del linguaggio.
Fatte queste considerazioni, sarebbe perciò più opportuno considerare
l‟uomo nell‟ambito del comportamento come un essere che si evolve sia in senso
filogenetico sia in senso culturale.
Non a caso, la discussione sulle determinanti del comportamento umano, ha
ricevuto negli ultimi anni nuovo impulso, tanto dalle ricerche sui primati quanto
dall‟etologia. Lo studio dei primati ha messo in luce una serie di stupefacenti
tratti comuni nel comportamento delle scimmie antropomorfe e dell‟uomo, molti
dei quali possono essere ragionevolmente spiegati solo come patrimonio ereditario
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comune. Basti osservare alcuni comportamenti tipici dei neonati: con oscillazioni
ritmiche del capo, i neonati cercano il seno; un automatismo di ricerca
riscontrabile in molti mammiferi appena nati. L‟apparente semplicità con cui il
bambino riesce a succhiare dimostra la messa in atto di una sequenza motoria
affatto semplice, come affermava, già nel 1762, Reimarus: «nessuno potrà
facilmente negare», scriveva, «che la capacità di succhiare espressa dal bambino
subito dopo la nascita, sia un‟abilità innata, non appresa; infatti, tra i tanti
movimenti possibili delle labbra, della lingua, della gola, dello stesso torace,
vengono messi in atto proprio quelli che permettono di trarre il dolce liquido dal
seno e che attraverso la decisa attivazione di molti muscoli lo spingono verso lo
stomaco, oltre la lingua e l‟epiglottide. L‟anatomia insegna che è necessaria
un‟abilità molto maggiore per far giungere il liquido oltre l‟epiglottide senza che
questo entri nella trachea, di quanta ne occorra per ingoiare cibi solidi; la lingua
deve inarcarsi e posarsi sull‟epiglottide. I bambini hanno perciò una capacità
innata non solo nell‟inghiottire il cibo, ma anche nella suzione».3
Cosa dire poi del movimento carponi o dei movimenti coordinati del nuoto; per
quanto rudimentali, compaiono a stadi di sviluppo molto precoci, per poi
scomparire.
Ricerche su nati sordi e ciechi hanno dimostrato che molti dei nostri movimenti
espressivi si sviluppano come coordinazioni ereditarie. Nonostante che i nati sordi
e ciechi non abbiano mai avuto percezione di qualcuno che ride o piange, essi
ridono e piangono come noi.
Già Darwin sapeva che dal confronto delle culture possiamo risalire a un
patrimonio comune nel comportamento umano. Egli osservò tra l‟altro la
concordanza nella mimica e nei gesti di popoli diversi, e molti psicologi odierni
confermano la sua spiegazione che si tratti di moduli comportamentali innati.
Tuttavia, fu Lorenz, nei suoi studi e ricerche, negli anni Trenta, il primo a
scoprire degli schemi di comportamento innati dotati di una serie di particolarità
fisiologiche (come la spontaneità), che definì azioni istintive; in queste individuò
poi due diverse componenti: l‟azione orientativa, (tropismo) e il movimento
3 Cfr. H. S. Reimarus (1766), Die vornehmsten Wahrheiten der naturlichen Religion in zehn
Abhandlungen auf eine begreifliche Art ... von Hermann Samuel Reimarus Professor in Hamburg,
cit. in Konrad Lorenz (1978), Das Wirkungsgefüge der Natur und das Schicksal des Menschen, tr.
it. Natura e destino, Mondadori, Milano 1985, p. 209.
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istintivo (coordinazione ereditaria). Mentre le azioni di orientamento dipendevano
dalla presenza di stimoli esterni che le condizionavano, le coordinazioni
ereditarie, una volta avviate da uno stimolo esterno, non ne avevano più bisogno.
Lorenz solleva dunque l‟ipotesi che le azioni istintive siano innate, che cioè le
strutture morfologiche e fisiologiche su cui esse si basano, siano costruite sul
fondamento di schemi di sviluppo ancorati nel patrimonio ereditario. Come
riuscire a dimostrare che un comportamento sia innato? Basta allevare un
animale e sottoporlo all‟esperimento di privazione (o esperimento di isolamento).
Studiosi del comportamento orientati in senso ambientalistico hanno sollevato
ancora recentemente dubbi sul potere dimostrativo dell‟esperimento di privazione.
Questi ritengono infatti che sia impossibile privare un animale o un individuo di
tutte le possibilità di immagazzinare esperienza, dato che già nell‟uovo o nell‟utero
sono posti in un ambiente comunque condizionante. In pratica, sarebbe perciò
impossibile distinguere componenti innate o acquisite del comportamento. Il
concetto di innato viene quindi definito solo negativamente come “ciò che non è
appreso”. Come risposta a tale critica, Lorenz presenta i risultati di una serie di
esperimenti condotti su animali allevati in ambiente privo di qualsiasi stimolo
esterno, dimostrando in questo modo come il termine innato possa invece essere
definito «sulla base della provenienza di una disposizione all‟adattamento».4
Innato o istintivo significa quindi per Lorenz adattato filogeneticamente.
Normalmente, le azioni istintive vengono scatenate da stimoli e
configurazioni di stimoli, che in modo semplice ma inequivocabile caratterizzano
la situazione scatenante adeguata. Lorenz parla in questi casi di “segnali
scatenanti”. I segnali non evolutisi in forma comunicativa vengono definiti
“stimoli chiave”. Agli stimoli scatenanti corrisponde un correlato recettivo, lo
“schema innato” (oggi si parla di “meccanismo scatenante innato”). Come una
serratura esso reagisce solo a determinati stimoli e dà quindi via libera a
determinati moduli comportamentali. Sappiamo che l‟uomo reagisce a stimoli
specifici o a configurazioni di stimoli in modo prevedibile e che in determinati
comportamenti reagiamo alle situazioni di stimolo per mezzo di meccanismi
4 Cfr. Konrad Lorenz (1985), op. cit., p. 192.