come oggetto semiotico, può essere considerato oggetto semiotico puro in
quanto connotato da quella avalutatività che è propria di un altro linguaggio,
quello scientifico.
Nell’affrontare un discorso sul mito la prima cosa da fare potrebbe essere
considerare innanzitutto la distinzione tra “mito” e “mitologia”e assegnare a
ciascuna un ruolo ben definito nell’indagine, come ha fatto lo storico delle
religioni K. Kerényi e, in modo per certi versi diverso e per altri analogo,
l’antropologo C. Levi-Strauss.
La scienza del mito andrebbe distinta, secondo Jesi, dalla scienza della
mitologia in un modo paragonabile alla distinzione tra il noumeno e il fenomeno
kantiani: mentre la seconda assume la connotazione di scienza del materiale
mitologico, la prima viene a configurarsi come scienza dell’entità che si
nasconde dietro a quel materiale, un incognita circoscrivibile esclusivamente in
negativo, dal punto di vista del suo margine esterno. Egli inoltre osserva che “la
scienza del mito tende a configurarsi nitidamente come paradossale scienza di
ciò che per definizione non c’è”2.
Tre posizioni contemporanee, a suo avviso, circoscrivono questa tesi: quella
assunta da Kerényi, quella di Lévi- Strauss e quella di Dumézil.
La posizione di Dumézil verrà accantonata nella misura in cui essa consiste sì
nell’indagare la mitologia classica con una metodologia che trae ispirazione dalla
linguistica comparativa, ma senza riconoscere nella mitologia così indagata una
sorta di linguaggio, cosa che caratterizza invece il pensiero di Levi-Strauss: la
mitologia assume la caratterizzazione di oggetto semiotico, con i racconti mitici
che fungono da significante la cui funzione essenziale è trasmettere un
particolare significato.
Una precisazione giunge subito da parte di G. Ferraro: “Considerare il mito
come fenomeno semiotico vuol dire semplicemente ritenere che il suo senso e il
suo valore, qualunque essi siano, non risiedono in ciò che i miti esplicitamente e
2
F. Jesi, Mito, Milano 1980, pag. 83.
4
manifestamente raccontano, ma in qualcosa che viceversa i miti dicono
attraverso ciò che raccontano. Il materiale narrativo che forma il mito è dunque,
da questo punto di vista, lo strumento per mezzo del quale esso comunica, e non
ciò che esso comunica”.3
Levi-Strauss, se da un lato insiste sul fatto che i miti non possano essere
definiti se non per via negativa, dall’altro liquida il problema di distinguere mito
e mitologia, come invece aveva fatto Kerényi: per lui scienza della mitologia e
scienza del mito coincidono di fatto, e si può partecipare al mito nella misura in
cui esso è una realtà in tensione dialettica tra langue e parole.
In Levi-Strauss la scienza postula un’essenza del mito che rimane circoscritta
nell’ambito della langue; ma questa essenza è ancora una volta definita in
negativo e rimane, citando nuovamente Jesi, non colmabile, quale scienza di ciò
che non c’è.
La domanda che facciamo per iniziare un percorso di conoscenza riguardo un
qualsiasi oggetto è: “Che cos’è?”. Tale domanda, pur non presupponendo la
conoscenza della risposta, poiché altrimenti sarebbe null’altro che vuota retorica,
presuppone però, per iniziare l’indagine, un rapporto effettivo con l’oggetto in
questione, un rapporto che sia reale nel senso di consuetudinario, protratto
regolarmente nel tempo, facente parte della nostra realtà quotidiana di uomini.
Di fatto, un occidentale medio del XXI secolo non può vantare un siffatto
rapporto, reale e continuativo, con la mitologia.
Se, dunque, per porre la domanda “che cos’è?”, riferito alla mitologia,
abbiamo, di fatto, necessità di un rapporto reale con essa, condizione che in
questo caso a quanto pare non viene soddisfatta, sembra che un’indagine sulla
mitologia non sia neppure iniziabile, venendo a mancare la possibilità di definire
ontologicamente il suo oggetto.
Che cosa dice il mito?
3
G. Ferraro, Il linguaggio del mito, Roma 2001, pag. 23-24.
5
Indipendentemente dal contenuto particolare dei miti, sembra di poter
affermare che, ad un ascolto superficiale, un mito narra avvenimenti che, a un
ascoltatore medio, sembrano privi di ogni credibilità, delle pure fantasie,
qualcosa che è per definizione inverificabile, inattualizzabile: un mito parla di
eventi che non trovano riscontro nella realtà oggettiva perché in esso compaiono
chimere e si svolgono eventi sovrannaturali, le leggi naturali vengono stravolte e
si assiste a una promiscuità di uomini, dei, animali e altri eventi impensabili
nella realtà.
Il mito può parlare, secondo alcuni, anche di come hanno avuto origine i più
svariati avvenimenti, creature, usanze: si usa definire questa tipologia di mito
“eziologico”, perché ricerca appunto l’aition, la causa da cui ha avuto origine
qualcosa.
I popoli preindustriali si appellerebbero secondo alcuni a questo tipo di miti
per trovare una giustificazione e una convalida ad usanze che pretendono di
ripetere gesti primordiali, gesti e usanze che si rifanno a quelli compiuti da
antichi dei o eroi culturali, o per sapere perché gli animali non parlano, perché
una determinata pianta ha particolari proprietà, o perché gli uomini sono mortali.
Senza contare i miti correlati alle religioni e quelli correlati alle dottrine
filosofiche.
I miti legati alle religioni, ma spesso anche quelli legati alle dottrine
filosofiche, soffrono da sempre di un pregiudizio ben radicato nel pensare
comune: essi sarebbero nati con un puro intento didascalico, come una visione
semplificata di qualcosa che, in caso contrario, sarebbe incomprensibile alle
masse.
Una conferma parziale potrebbe essere rinvenuta nella prima definizione di
mito che si rinviene sul vocabolario4: “Fatto esemplarmente idealizzato in
corrispondenza di una carica di eccezionale e diffusa partecipazione fantastica o
religiosa: i m. dell’antica Grecia; il m. dei Dioscuri”.
4
G. Devoto e G. C. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, 1990.
6
“Esemplarmente idealizzato”: è proprio questa l’espressione che noi invece
avevamo sostituito con il forse più semplicistico ma lo stesso efficace
“didascalico”.
Ma tra le righe si può leggere qualcosa di più, che forse si tende a dare per
scontato: il mito non parla di tutto, ma solo di ciò che, per una determinata
cultura e ad un dato tempo, è giudicato importante, curioso, eccezionale, fuori
dal comune, qualcosa che appunto susciti una “carica di eccezionale e diffusa
partecipazione”.
E’ importante specificare “per una determinata cultura e ad un dato tempo”
perché altrimenti si rischia di ricadere nel pregiudizio etnocentrico, ossia si
rischia di dare per scontato che narrazioni intorno agli dei in generale siano
ugualmente importanti presso qualsiasi cultura, molto più, comunque, delle
narrazioni ad esempio su certi tipi di piante o animali.
Ogni cultura, infatti, pertinentizza come peculiarmente propria una
determinata porzione del mondo, non nel senso che poi ignora tutto ciò che non è
pertinente, ma nel senso che si creerà una zona centrale di fenomeni dotati di
particolare valore mentre tutt’attorno ruoteranno tutti gli altri fenomeni che
saranno più o meno vicini a questo nucleo, e comunque non è detto che alcuni di
questi non potranno aspirare ad un posto centrale in un futuro, mentre altri
magari, prima centrali, potranno perdere in seguito importanza.
Si può affermare che molte volte l’apparato mitico di una cultura svolga, di
fatto, la funzione di circoscrivere ciò che quella cultura ha appunto
pertinentizzato, a prescindere dalle intenzioni originarie.
Parlare di verità quando si parla di mito è un’impresa ardua e controversa. Per
il momento si può dire questo: non è sbagliato a nostro parere dire che un mito
affermi la verità, ma d’altro canto non si può nemmeno prendere
quest’affermazione come assoluta.
7
Un mito afferma la verità relativa alla cultura in cui è inserito, e questa pretesa
di verità è valida solo finché non si tenti di usare questo mito per fare del
“proselitismo” in virtù di questa presunta verità.
Si creerebbe, infatti, uno scontro tra miti, in altre parole tra “ideologie”, dal
quale non si genererebbe assolutamente nulla se non vane e interminabili
diatribe.
Possiamo usare il termine “ideologia” per aiutarci a definire il mito,
appellandoci al significato di ideologia come “discorso sulle idee”, intendendo
“idea” in senso platonico, ovvero come “modello”, “paradigma”, ma un modello
e un paradigma non trascendenti, ma immanenti, nel senso di repertorio di
concetti fondamentali per una determinata cultura a un dato tempo, concetti che
sono chiamati quotidianamente in causa e che riguardano i più svariati aspetti
dell’esistenza.
Anche miti intorno ad oggetti banali possono essere considerati come parte
integrante e importantissima per una “ideologia”, nel senso che indirettamente
contribuiscono a descrivere la visione del mondo di chi appartiene alla cultura
che li ha fatti propri.
Ma allora se si dice, come si sta facendo, che il mito è solo un “immagine” che
rappresenta una cultura, una società, si dovrebbe rinunciare a priori a chiedersi
cosa dice: piuttosto ci si dovrebbe chiedere cosa illustra, cosa significa, nel senso
dell’oracolo di Delfi che non dice né nasconde ma semainei5.
Parlare di mitologia in un’epoca come la nostra, dominata in tutti i suoi aspetti
dal lato scientifico e razionale, potrebbe forse sembrare inutile se non addirittura
controproducente.
La mitologia si viene a creare allorquando la sfera del reale e quella
dell’irrazionale, della fantasia, si incontrano, dando luogo a un’area in cui questi
due aspetti hanno la possibilità di coesistere in uno stato in cui ciascuno ottiene
una parità assoluta rispetto all’altro.
5
“significa”.
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Jesi parla, a ragione, di una sorta di coincidentia oppositorum in relazione al
significato dei termini mythos e logos, che uniti assieme formano la parola
mythologia.
Da quest’osservazione scaturiscono implicazioni che vanno ben oltre il mero
aspetto semantico.
In questo campo, dove il razionale si incontra e si combina con l’irrazionale e
il fantastico in modo sempre diverso e imprevedibile, ci dobbiamo entrare non
solo con la semantica, non solo con il linguaggio, ma con tutto il nostro essere,
lasciando fuori il mondo consueto di separazioni dicotomiche e il suo pensare e
dire tipico in termini di vero e falso, o, come sostiene Kerényi, si dovrebbe
lasciare da parte la domanda sulla fede nei mitologemi.
Kerényi, nel volume Gli Dei e gli Eroi della Grecia, arriva a rinarrare i miti
greci in prima persona plurale, come se li stesse raccontando dal vivo, hic et
nunc, quasi a voler rendere un’immediatezza che però è solo illusoria.
Egli dà a questo modus narrandi una giustificazione tale da sbilanciare la sua
pretesa scienza del mito, confermando così che la mitologia, considerata nel suo
carattere specifico, è un’attività particolarmente creativa, quindi anche artistica,
della psiche, che si accosta in altre parole alla poesia, alla musica, alle arti
figurative, alla filosofia, alla scienza.
Essa non deve essere confusa con la gnosi o con la teologia: la distingue da
queste, allo stesso modo che dalle teologie pagane e da ogni specie di teosofia, il
suo carattere creativo- artistico.
Le immagini mitologiche assumono le stesse caratteristiche delle immagini di
sogno dove, allo stesso modo di quelle poetiche, la divinità è colta tramite
immagini, e, in forza di tali immagini, s’impone in un modo che è quasi
oggettivo, tenendo anche presente la considerazione che quelli che Kerényi
chiama i “testi fondamentali” della mitologia sono opere che hanno carattere di
testo così come i poemi e le composizioni musicali.
9
Tutto ciò legittima largamente la lettura mitopoietica dei testi mistici e la loro
assimilazione alle composizioni effettuate nel linguaggio epico- lirico.
Secondo F. Jesi uno dei maggiori ostacoli che si presentano a chi voglia
interessarsi allo studio del mito è costituito dalla difficoltà di circoscrivere con
sufficiente rigore il suo ambito e il suo oggetto. La parola mythos presenta,
infatti, secondo lui vari significati, che possono o non possono rimandare ad una
verità oggettiva la quale, nel caso consista nel puro valore auto significante della
parola mito, a sua volta può rimandare a se stessa o a nulla.
Tale verità oggettiva può però consistere anche in un oggetto avente esistenza
propria, indipendente da quella della parola “mito”.
Lo studio del mito diventerebbe, così, studio sia della parola “mito”, che
dell’oggetto cui tale parola rimanda: il mito. Secondo Jesi queste distinzioni
fanno parte di un lavoro preliminare necessario allo studio del mito in senso lato.
Per Jesi la mitologia e non il mito è l’oggetto immediatamente dato dalla
rappresentazione. Questa però dimostra subito la sua caratteristica di
“mescolanza di contrari”: la questione si presenta dapprima alla luce
dell’etimologia. La mitologia in quanto composta di due termini (mythos e
logos) che appaiono subito reciprocamente contraddittori non può essere lo
stesso che il mito (mythos).
Resta da vedere se quest’argomentazione, di carattere meramente linguistico,
con la quale si è giunti a definire la mitologia come mescolanza di contrari, sia
corretta, o se sia una sorta di scorciatoia per arrivare, comunque, a una
conclusione non lontana dal vero.
La mitologia è mescolanza di contrari dal momento che vuole rendere
plausibili, quando non anche collocati in certe coordinate spazio temporali,
eventi che normalmente si ritiene non troverebbero alcun riscontro nella realtà
dei fatti.
Questo è indubbiamente un modo arido di considerare la questione, ed è per
questo che non ci fermeremo qui, ma cercheremo di dare delle risposte quanto
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più esaurienti a quest’istanza di circoscrivere il mito e la mitologia, e
determinare se e quali oggetti si nascondano alle loro spalle, e quali
caratteristiche siano loro peculiari.
Jesi esclude che l’oggetto della mitologia sia paragonabile o analogo a quello
del mito, qualora questo esista. Egli continua affermando che, per studiare il
mito, bisogna partire dallo studio della mitologia, poiché questa e solo questa è
“l’oggetto immediatamente dato dalla rappresentazione”.
Si tratta quindi di partire dalla sfera dell’empirico, ma è una scelta obbligata,
data dall’incertezza di ciò che si cela (o che non si cela) dietro alla parola
mythos.
Dobbiamo porre attenzione al fatto che non è detto che l’oggetto cui si
riferisce il termine “mitologia” sia una mescolanza di contrari, e che questi
contrari abbiano una propria esistenza autonoma.
Tale oggetto è comunque per Jesi di fatto esistente: non ci sono dubbi sul suo
status ontologico, ma ci rimane, per ora, nascosta ogni sua caratterizzazione in
termini formali. Egli arriva addirittura a parlare della scienza del mito come
scienza di ciò che non c’è.
La scienza del mito rinascimentale avrebbe avuto come esito la
consapevolezza di essere scienza di un oggetto che “per definizione non c’è- non
c’è mai stato oppure fu ma è perduto; oppure è stato ma gode di un’ “esistenza”
tra virgolette sui generis”6.
Il dilemma che si presenta agli studiosi di inizi Ottocento è sostanzialmente
quello che ci si dovrebbe porre ancor oggi, spiegare o accettare dice Jesi,
spiegare o comprendere diciamo noi.
Perché analizzare i singoli miti con un intento, o, comunque, con una tendenza
esplicativa non ci appare la soluzione cercata dalla scienza del mito?
Perché si assumerebbe un punto di vista decisamente riduzionista e si
ignorerebbe l’intrinseca variabilità e ricchezza tipologica di ciascun segmento di
6
F. Jesi, Mito, Milano 1980, pag. 82.
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