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necessario calibrare strategie di coinvolgimento e di sensibilizzazione tali
da condizionarne le scelte e i gusti.
Per quanto riguarda le diverse definizioni di minore, bisogna partire dal
linguaggio giuridico: il minore è un soggetto non autonomo, non ancora in
grado di essere pienamente responsabile dei propri atti e per questo ancora
dipendente dai genitori.
Sul piano psicologico si concepisce – generalmente – il bambino come un
essere in evoluzione e per tanto proteso a repentini cambiamenti. La
crescita, tuttavia, non va inteso come un processo qualitativo, come se il
bambino da una fase di imperfezione passasse ad una più perfetta. La
crescita è un processo quantitativo, nel senso che determina profondi
cambiamenti tutti necessari e fondanti la natura stessa del singolo individuo.
Sul piano sociologico l’attenzione verso il minore nasce dalla necessità di
considerare il bambino uno degli attori sociali, non di meno capace di
subire ma anche di esercitare una qualche influenza nel divenire della
società. Proprio dalla commistione di contenuti giuridici e contenuti
sociologici, oggi si è, in qualche modo, disponibili a riconsiderare il
problema della non punibilità dei minori. Il registrarsi sempre più numerosi
di atroci casi di attualità con i minori protagonisti spinge a considerare
obsoleti tutti quei canoni giuridici, appunto, e filosofici che interpretavano
il fanciullo più come una vittima che come soggetto davvero capace di
compiere determinate azioni illegali.
Il fanciullo è oggi un protagonista – talvolta anche una vittima, in verità – di
scenari economici e sociali inaspettati e imprevedibili fino ad un recente
passato. Nel bene e nel male il bambino è, nella contemporaneità complessa
in cui viviamo, un essere, per dirla in un’accezione propria delle scienze
psicologiche, perverso in cui l‘ingenuità e la purezza possono rapidamente
trasformarsi in violenza e disagio sociale. Il bullismo, in particolare, è la
manifestazione indiretta di un sostanziale declino – si spera contingente –
dei sistemi educativi e formativi prevalenti nella società occidentale. E
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questo nonostante gli innegabili sviluppi e progressi registratisi in questo
delicato ambito durante il secolo scorso. E allora quando, in effetti, si parla
di puericentrismo nel dibattito pedagogico più recente (anche se
l’espressione richiama contenuti pedagogici ascrivibili alle tesi di Maria
Montessori), si vuole proprio evidenziare un aspetto quasi tautologico del
problema: nei processi formativi, infatti, non può che essere l’infante il
centro (e dunque l’oggetto)di qualsivoglia metodologia e/o prassi educativa.
É a partire dal bambino che ha senso una adeguata e precisa
programmazione di interventi didattici. É a partire dal bambino che le stesse
agenzie formative (la scuola in primis) acquistano una specificità ed un
ruolo ben preciso e distinto. Ma è chiaro che se si parla di minori, se si
rivolge ad essi la nostra attenzione, non ci si può non disporsi ad intendere
pienamente le loro domande, le loro necessità, i loro sogni, le loro
insopprimibili fragilità, le tante emergenze che spesso caratterizzano le loro
esperienze di vita.
In questo senso, la cultura giuridica del tardo Novecento ha ribadito la
necessità di intendere i bisogni dei minori come condicio sine qua non di
ogni discorso sui diritti dei bambini: non è possibile parlare dei primi senza
far riferimento ai secondi e viceversa. La distanza tra adulto e bambino,
allora, è destinata a ridursi sempre più. Si afferma, soprattutto nella
precettistica giuridica più recente, la volontà di considerare il minore per
quello che è e non come un individuo proiettato a diventare adulto: si
stabilisce un concetto, pertanto, destinato ad essere sempre più importante
negli anni a venire: l’ unicum del bambino non risiede nel suo essere-non-
ancora-adulto ma nel suo essere-se-stesso in quanto pienamente partecipe
del consesso sociale in cui vive. In questo la Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo del 1948 nonché la Dichiarazione dei diritti del fanciullo
del 1959 rappresentano una pietra miliare in quanto stabiliscono
l’indispensabilità di assicurare al fanciullo non solo protezione, ma anche
tutta una serie di possibilità che riguardano il suo comportamento, la sua
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partecipazione attiva alla vita sociale di cui è parte, nei limiti e nelle
capacità in relazione alla soggettività estrinsecata dalla sua giovane età. In
questo senso l’esigenza di proteggere il minore si presenta sempre
strettamente associata e confusa con l’inevitabile diseguaglianza di diritti
tra adulto e minore; e questa diseguaglianza si riflette per giunta
nell’autorità che accorda agli adulti la facoltà di formulare domande e
risposte agli interessi del minore nel rispetto della libertà, uguaglianza e
autonomia. L’obiettivo primario diviene quello di far uscire il minore dal
“giardino cintato della felice, sicura, protetta, innocente infanzia nel quale
idealmente si fanno abitare tutti i bambini”. È evidente, comunque, che col
rapido sviluppo economico e con le trasformazioni radicali che le nostre
città hanno subito a partire dalla seconda metà del XX secolo, siano
cambiati, mutati, talvolta anche radicalmente, quegli equilibri sociali che
per il passato potevano rappresentare dei criteri di stabilità e di
stabilizzazione delle dinamiche sociali.
Oggi i nostri bambini, nelle periferie delle nostre città, sono sempre a
contatto con mondi turbolenti, con profonde ed angosciose forme di
emarginazione e di povertà.
Dinanzi a tali problemi gli interventi canonici dello Stato lasciano il tempo
che trovano: il Welfare State non è in grado di garantire piena assistenza a
chi, soprattutto tra i minori, è in difficoltà.
Ecco perché il cosiddetto Terzo Settore, espressione con cui si indicano
tutte le organizzazioni che non sono né aziende orientate al profitto, né
burocrazie pubbliche, ma strutture, in molti casi, costituite da volontari,
pronti ad assicurare concreto aiuto a chi è in difficoltà, ebbene esso è
destinato a rappresentare un importante volano per l’affermazione di una
cultura della solidarietà e dell’aiuto verso il prossimo.
È altrettanto importante, però, sottolineare che nonostante tutto, gli sforzi
del volontariato sono destinati a fallire se il legislatore, soprattutto nel
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nostro paese, non è in grado di sostenere queste iniziative con un corredo
appropriato di strumenti legislativi.
Infatti nel II capitolo di questo lavoro vengono prese in considerazione le
principali norme in merito, tra le quali va citato, in particolare, per il suo
carattere specifico, il Piano Nazionale per la tutela dei diritti e lo sviluppo
dei soggetti in età evolutiva approvato con DPR 2/07/2003 dal Governo
italiano, che rappresenta un appropriato ed organico intervento legislativo
finalizzato a razionalizzare ed organizzare gli interventi statali in favore dei
minori.
Nel III capitolo, invece, lo sguardo è rivolto più precisamente
all’evoluzione e allo sviluppo delle politiche sociali per la tutela dei diritti
dei minori. Il riferimento è in particolar modo alla legge 8/11/2000 n. 328,
che, all’epoca della sua emanazione rappresentò uno strumento importante
per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali.
Con la legge 285/1997 in Italia sono stati fissati i criteri che bisogna seguire
per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza,
costituendo un fondo nazionale per stimolare interventi a livello nazionale,
regionale e locale.
Pertanto è stata presa in considerazione la riflessione sulle condizione di
disagio e devianza minorile in Italia. In realtà il tema del disagio e devianza
è molto più complesso di quanto potrebbe sembrare poiché chiama in causa
contemporaneamente un numero estremamente alto di fattori da
comprendere e di variabili da considerare e i soggetti principalmente
(minori, giudici, servizi) coinvolti: basti pensare al significato che ha la
famiglia per tutto il complesso e difficile sviluppo dell’identità del minore,
al ruolo che giocano sul suo divenire l’esperienza scolastica e l’incontro con
altri adulti significativi, alla crescita e per certi versi contraddittoria
esperienza deviante delle relazioni amicali.
É evidente che gli strumenti legislativi citati, pur essendo importanti, non
rappresentano la panacea di tutti i mali, soprattutto quando non sono
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applicati con continuità e competenza da chi di dovere. Ecco perché dinanzi
a problemi come l’abbandono di neonati (in Italia se ne contano circa 3000
in un anno) o lo sfruttamento di minori in lavori particolarmente rischiosi,
ci fanno capire, in sede di analisi sociologica, che l’intervento legislativo
non accompagnato da una appropriata azione culturale – formativa è
destinata miseramente a fallire. Pertanto, l’intento principale di questo
lavoro è proprio quello di dimostrare come nell’ambito delle tematiche
trattate – i diritti dei minori – l’indagine sociologica non può non essere
affiancata da quella più propriamente pedagogica e giuridica. Solo da un
rapporto osmotico efficace ed efficiente di queste tre diverse dimensioni
ogni approccio col mondo dei bambini è destinato ad essere gratificante.