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raggiungimento dell’età pensionabile da parte di generazioni
consistenti di lavoratori e alla crisi demografica porta ad un
progressivo invecchiamento della popolazione.
Nel 2001 il governo, procedendo alla verifica dello stato
di salute del sistema previdenziale, ha riscontrato il
conseguimento dei risparmi di spesa previsti dalle precedenti
riforme, ma ha altresì identificato il mancato decollo della
previdenza complementare. Da questa verifica è nato un
progetto di legge delega incentrato, oltre che sulla ulteriore
riduzione della spesa pensionistica, proprio sulla necessità
improrogabile di dare una forte spinta alla previdenza
complementare; il provvedimento, dopo due anni e mezzo di
“navigazione” parlamentare, è divenuto legge il 23 agosto
2004 (legge n. 243/2004).
In attuazione di quanto previsto dalla delega, il 24
novembre 2005 il Consiglio dei Ministri ha finalmente
approvato, dopo oltre un anno di confronto con le parti sociali,
il decreto legislativo n. 252/2005 “Disciplina delle forme
pensionistiche complementari”, stabilendone in un primo
momento l’entrata in vigore al 1° gennaio 2008, anticipata poi
al 1° gennaio 2007.
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Il provvedimento, meglio noto come Riforma del Tfr,
costituisce il nuovo testo di riferimento in materia di
previdenza complementare, in sostituzione del decreto
legislativo n. 124/1993, con l’obiettivo di incrementare l’entità
dei flussi di finanziamento alle forme pensionistiche
complementari individuali e collettive. Per raggiungere tale
risultato il decreto 252 introduce importanti cambiamenti quali
l’equiparazione tra forme pensionistiche complementari, una
migliore tutela degli iscritti e maggiori incentivi fiscali; ma la
novità principale, sulla quale si è a lungo discusso, riguarda il
conferimento del Tfr maturando alla previdenza
complementare tramite una procedura silenzio – assenso.
In pratica, il lavoratore, dipendente del settore privato,
già assunto entro il 31 Dicembre 2006, ha avuto sei mesi di
tempo, a partire dal 1° gennaio 2007, o avrà sei mesi di tempo
dalla data di assunzione se successiva, per decidere sulla
destinazione del suo flusso annuo di Tfr e potrà scegliere di
mantenerlo in azienda o di farlo confluire in una forma
pensionistica complementare, collettiva o individuale, a sua
scelta; qualora invece, nel corso dei sei mesi questi non
esprima alcuna preferenza, il Tfr confluirà nel Fondo pensione
previsto dal contratto collettivo, da accordo aziendale o, in
9
mancanza, presso una forma pensionistica collettiva residuale
costituita presso l’INPS. A fronte della devoluzione del Tfr,
alle imprese saranno riconosciute agevolazioni fiscali e
contributive nonché l’accesso semplificato ed agevolato al
sistema del credito bancario.
L’iter di approvazione del provvedimento è stato
sicuramente frutto dell’importanza della posta in gioco: il
flusso annuo di Tfr è stimato infatti intorno ai 19 miliardi di
euro, cui vanno aggiunti circa 5 miliardi di euro di contributi a
carico dei datori di lavoro.
Tutte le parti in causa hanno cercato di tutelare al meglio
i propri interessi. Le imprese (in primis Confindustria) hanno
manifestato la propria preoccupazione per la possibile perdita
del Tfr come fonte di autofinanziamento a buon mercato,
chiedendo in cambio le compensazioni, secondo cui il
conferimento del trattamento di fine rapporto è subordinato
“all’assenza di oneri per le imprese”.
I sindacati si sono battuti per garantire una “corsia
preferenziale” ai Fondi pensione Negoziali come destinatari
del Tfr a seguito del meccanismo di silenzio – assenso.
Le banche (ABI), oltre ad opporsi al meccanismo di
concessione automatica del credito alle imprese, hanno cercato
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di contrastare le richieste dei sindacati a favore dei Fondi
Chiusi al fine di tutelare il business dei Fondi Aperti offerti
anche dagli istituti di credito.
Le compagnie di assicurazione (ANIA), hanno a lungo
battagliato per la piena attuazione del principio di
equiparazione tra forme pensionistiche complementari previsto
dalla Delega, a tutela della possibilità di allocazione del Tfr e
del contributo datoriale nei Fondi Aperti e nelle Polizze
Individuali Previdenziali.
Il presente elaborato si articola (capitolo I) mediante una
breve analisi dell’evoluzione del il sistema pensionistico
pubblico italiano, dalla nascita dell’INPS alla crisi degli anni
’80/’90 per concludere con la recente riforma Maroni.
Successivamente, col capitolo II, si procede ad
analizzare i criteri per stabilire l’equilibrio demografico –
finanziario o equilibrio attuariale nei fondi pensione,
attraverso i sistemi finanziari di gestione. Il capitolo II, in
pratica spiega, nella generalità dei casi, come funziona
“storicamente” un fondo pensione.
Il capitolo III viene dedicato alla classificazione
tipologica dei fondi pensione; inoltre descrive le differenze tra
fondi negoziali (o chiusi), fondi aperti, di nuova istituzione,
11
nati con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 124/1993,
e fondi preesistenti a tale decreto.
Col capitolo IV si analizza in dettaglio il funzionamento
dei fondi pensione di nuova istituzione, a capitalizzazione
individuale e in regime di contribuzione definita, destinati ai
lavoratori dipendenti, secondo quanto stabilito dal decreto
legislativo n. 252/2005. L’analisi è concentrata soprattutto
sulle quattro fasi del processo di funzionamento, rivolgendo
particolare attenzione all’individuazione dei diversi
coefficienti di trasformazione, che permettono la conversione
del montante accumulato (al momento del pensionamento) in
rendita, e allo stesso tempo permettono di stabilire l’equilibrio
attuariale tra lo stesso montante e le rendite future da erogare.
Il capitolo V, infine, tratta della cosiddetta Riforma del
Tfr, novità introdotta dal decreto legislativo n. 252/2005. Il
capitolo si compone di una parte introduttiva dedicata alla
nascita del Tfr, al calcolo della quota annua di Tfr (Tfr
maturando) e al meccanismo di rivalutazione del Tfr maturato;
prosegue analizzando le opzioni sul conferimento del Tfr nei
fondi pensione e l’evoluzione del mercato della previdenza
complementare dopo l’entrata in vigore del sopracitato
decreto; nella parte finale, con un esempio pratico, viene
12
stimato in proiezione futura il montante e la conseguente
rendita vitalizia, al termine della contribuzione in un fondo
pensione a capitalizzazione individuale, di un lavoratore medio
che ha conferito il solo Tfr.
13
CAPITOLO I
Il sistema previdenziale pubblico in Italia
1.1 Le due anime della previdenza sociale
Dopo l’attuazione della prima grande riforma del
sistema previdenziale, nel 1992 – 1995, l’istituto della
pensione pubblica ha mutato profondamente le sue
caratteristiche. Non si è trattato tuttavia di un tradimento del
concetto originario poiché non una ma due concezioni di
previdenza sociale sono state presenti fin dalle origini nei si
sistemi previdenziali dei paesi occidentali.
Da un lato la concezione di stampo britannico (dalla
Legge dei Poveri del 1601 al piano Beveridge del 1942) che
attribuisce allo Stato (welfare state) il compito di aiutare il
cittadino bisognoso rispetto al suo benessere economico, fisico
e sociale, finanziando la relativa spesa con le imposte generali.
Dall’altro lato la concezione tedesca della protezione del
lavoratore dagli eventi negativi che mettono a rischio le sue
capacità di lavoro e di guadagno: malattia, infortunio,
14
disoccupazione, vecchiaia, finanziando gli interventi
previdenziali con il contributo sia degli stessi lavoratori sia
dello Stato e dei datori di lavoro, interessati al mantenimento
della pace sociale.
Alla base della prima concezione è il criterio del
bisogno e dell’assistenza dello Stato nei confronti di tutti i suoi
cittadini; alla base della seconda concezione è il criterio del
rischio e della conseguente assicurazione prudenziale
(previdenza) da parte di tutte le persone esposte al rischio
stesso.
La nostra Costituzione (art. 38)1 è pienamente
consapevole della dicotomia e, senza prendere posizione,
contiene entrambe le visioni (rispettivamente ai commi 1 e 2) e
può giustificare interventi in senso assistenziale generalizzato
o in senso previdenziale – assicurativo. In particolare, la
storia del caso italiano è emblematica poiché nel primo secolo
dall’unità d’Italia (1861) si è assistito a un progressivo
passaggio da un sistema di sicurezza sociale volontario basato
1
Art. 38 della Costituzione Italiana Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei
mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro
esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione
involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o
integrati dallo Stato.
L'assistenza privata è libera.
15
sui contributi dei soggetti interessati a un sistema generalizzato
ispirato a un modello di previdenza esteso a tutti i cittadini e
finanziato dall’intera collettività.
Negli ultimi anni, al contrario, per ragioni strutturali,
l’accento è tornato a favore di un sistema di tipo assicurativo,
in cui la copertura dei rischi è proporzionale ai contributi
versati da ciascun lavoratore.
In realtà le due visioni non sono necessariamente
contraddittorie ed è possibile conciliarle leggendo
attentamente il dettato costituzionale. Secondo questa lettura,
ormai largamente condivisa, in un moderno welfare state il
fine assistenziale non può essere abbandonato ma deve tradursi
nell’aiuto dello Stato per liberare il cittadino non da una
generica situazione di bisogno ma da una concreta situazione
di miseria, che si determina dove c’è “inabilità al lavoro” e
quindi mancanza “dei mezzi necessari per vivere”. Il
finanziamento dell’assistenza sociale, dato il suo fine di
redistribuzione del reddito a favore dei più sfortunati, non può
che essere a carico della fiscalità generale (le imposte), col
concorso di tutti i cittadini “in ragione della loro capacità
16
contributiva” (art. 53 della Costituzione)2. Nello stesso tempo
il fine previdenziale di protezione dei lavoratori deve essere
perseguito, di regola, con criteri assicurativi, con prestazioni
commisurate ai contributi versati da ciascun assicurato,
almeno in parte accantonati e fatti fruttare attraverso il loro
investimento pluriennale sul mercato finanziario (regime a
capitalizzazione).
2Art. 53 della Costituzione Italiana Tutti sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.
17
1.2 Le tappe nell’evoluzione storica della previdenza in
Italia fino al 1992
In forma sintetica i momenti cruciali dell’evoluzione del
sistema previdenziale italiano sono stati i seguenti:
1864 – 1865: il Regno d’Italia recepisce la legislazione
piemontese sulle pensioni ai dipendenti civili e militari dello
Stato;
1898: nasce per i dipendenti privati la “Cassa nazionale
di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai”, cui
potevano iscriversi su base volontaria tutti gli operai a fronte
di un contributo annuo libero non superiore a L. 100,
parzialmente integrato dallo Stato. L’assicurato riceveva una
rendita vitalizia calcolata capitalizzando (sistema a
capitalizzazione) i contributi versati (metodo contributivo),
erogata a partire dal 65esimo anno di età con riscatto del
capitale a favore dei familiari in caso di morte e liquidazione
anticipata in caso di invalidità (cosiddetta gestione Ivs,
invalidità, vecchiaia e superstiti). Sempre nel 1898 diventa
obbligatoria l’assicurazione per gli operai dell’industria contro
gli infortuni sul lavoro;
18
1919: si introduce l’obbligatorietà dell’assicurazione di
invalidità e vecchiaia e di disoccupazione per tutti i lavoratori
dipendenti privati, operai e impiegati, ma questi ultimi solo se
con retribuzione mensile inferiore a 800 lire (la soglia sarà
abolita nel 1950);
1924: viene istituita per i soli impiegati l’indennità di
licenziamento (contro il rischio di disoccupazione) esclusi i
casi di dimissioni volontarie e licenziamento per colpa. Il
Codice civile (1942) la trasformerà in indennità di anzianità
spettante a tutti i lavoratori in proporzione agli anni di servizio
e all’ultima retribuzione, dal 1966 per tutte le cause di
cessazione, comprese dimissioni, licenziamento per giusta
causa e pensionamento (rischio vecchiaia). Nel 1982 diventerà
il Tfr;
1933 – 1935: la Cassa Nazionale viene riorganizzata in
quattro gestioni (invalidità e vecchiaia, disoccupazione,
tubercolosi, maternità) e denominata Inps, Istituto Nazionale
della Previdenza Sociale; i contributi vengono riscossi
mediante marche su appositi libretti; nel 1934 vengono
introdotti gli assegni familiari per figli a carico, necessari per
compensare la riduzione dell’orario di lavoro da 48 a 40 ore
19
settimanali (vista come misura anti – disoccupazione) e per
incentivare lo sviluppo demografico;
1939: si introduce la pensione di reversibilità a favore
dei superstiti dell’assicurato o pensionato (vedova e orfani e
dal 1952 anche i genitori) e si abbassa a 60 anni per gli uomini
e 55 per le donne l’età per la pensione. Tali livelli non saranno
modificati fino al 1992;
1943: con l’aumento dei contributi pensionistici viene
stabilito per la prima volta un maggior onere a carico dei datori
di lavoro (2/3 contro 1/3 a carico dei lavoratori; dal 1947 metà
a carico dei datori di lavoro, 1/4 a carico dello Stato e 1/4 a
carico dei lavoratori);
1945: a seguito dell’inflazione bellica e della
conseguente pesante perdita di potere d’acquisto delle pensioni
fu deciso il passaggio dal sistema a capitalizzazione a quello a
ripartizione, in cui le pensioni sono adeguate al costo della vita
mediante assegni integrativi finanziati con i contributi di tutti i
lavoratori dipendenti (Fondo di integrazione e Fondo di
solidarietà sociale, tra generazioni), fissati in percentuale della
retribuzione e quindi in funzione dell’andamento
dell’inflazione (contingenza). Il sistema a capitalizzazione
resta solo per i contributi – base (le marche);
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1952: le pensioni vengono maggiorate di una
tredicesima mensilità e calcolate moltiplicando la pensione –
base (derivante dalle marche) per un coefficiente di 45 (55 nel
1958, 72 nel 1962, 86,4 nel 1965). Viene istituita
l’integrazione al trattamento minimo finanziata, a ripartizione,
col Fondo adeguamento pensioni;
1957 – 1966: l’assicurazione obbligatoria per invalidità
e vecchiaia viene estesa ai lavoratori autonomi, in particolare
agli agricoltori (coltivatori diretti, mezzadri e coloni,1957),
agli artigiani (1959), ai commercianti (1966) con istituzione
presso l’Inps di altrettante gestioni speciali accanto al Fondo
pensioni lavoratori dipendenti (Fpld). Per ogni categoria di
liberi professionisti iscritti agli albi (ingegneri, ragionieri,
farmacisti, avvocati, notai ecc.) è istituita per legge una
specifica Cassa o Ente previdenziale;
1965: viene introdotta la pensione sociale, intesa come
trattamento pensionistico minimo per tutti i lavoratori, e la
pensione di anzianità, per dipendenti e autonomi con almeno
35 anni di contributi (anzianità contributiva),
indipendentemente dall’età; dal 1996 la pensione sociale sarà
sostituita dall’assegno sociale;