Diversa è la situazione nei paesi dell’Est europeo nei quali l’ideale socialista ha finito col
concretizzarsi in forme di allocazione non di mercato e completamente estranee ai suoi
meccanismi. In queste economie la pianificazione statale si è sostituita al mercato quale
meccanismo di allocazione delle risorse provocando la mancanza di una adeguata
regolamentazione, di regole efficienti di gestione delle imprese, di mercati finanziari
sufficientemente organizzati, infine di mentalità imprenditoriali.
Nel corso degli anni ‘80 e ‘90, un’imponente corrente di pensiero ha sottoposto a forte
critica, al di là delle diversità economiche e politiche esistenti, ruolo e forme
dell’intervento pubblico in economia, denunciando quanto sia cresciuto il peso degli
apparati pubblici nel guidare e condizionare la vita economica degli stati.
Quasi seguendo una moda contraria a quella che negli anni passati ha condotto alle
pubblicizzazioni, in numerosissimi paesi si è dispiegato un importante processo di
ridefinizione del ruolo dello Stato; il fenomeno è stato particolarmente intenso nei cinque
maggiori paesi europei che hanno tutti sperimentato, anche se in misura diversa, una
ritirata della presenza diretta dello Stato nell’economia.
Le privatizzazioni sono state una componente centrale del processo di riposizionamento
dei confini tra Stato e mercato, ma certamente non la sola. L’accelerata globalizzazione
delle economie è stata al contempo causa ed effetto della spinta verso una crescente
liberalizzazione dei mercati.
Questi processi pongono una sfida epocale ai responsabili della politica economica
specialmente nell’area dei pubblici servizi dove il progresso tecnologico, l’integrazione
delle economie europee e le spinte concorrenziali provenienti dall’economia mondiale,
hanno creato le condizioni per un mercato più competitivo e contendibile anche in questi
settori.
L’integrazione europea sostituisce i vari mercati nazionali, le industrie europee operano in
un contesto geografico ed economico considerevolmente più ampio. Ciò comporta, da un
lato, un aumento dei mercati di sbocco, dall’altro una più forte concorrenza che induce le
imprese a carattere internazionale ad avviare processi di specializzazione e di
concentrazione così come dimostra il crescente numero di fusioni, di joint-venture, di
acquisizioni di società.
Tutti questi cambiamenti hanno il loro impatto sui trasporti.
In particolare, il settore del trasporto ferroviario che dal punto di vista organizzativo
vedeva una schiacciante presenza pubblica, si è trovato negli ultimi anni di fronte ad un
duplice ordine di problemi. Da una parte, il progresso tecnico e la concorrenza degli altri
modi di trasporto richiedono consistenti investimenti, ai quali le imprese ferroviarie di
Stato non sono più in grado di far fronte; dall’altra, la crisi finanziaria degli Stati nazionali
della UE, accentuatasi con la politica restrittiva seguita all’applicazione del Trattato di
Maastricht, comporta riduzioni dei trasferimenti pubblici ai sistemi ferroviari.
Per tali motivi, la politica liberista della UE, che risaliva al periodo immediatamente
successivo al Trattato di Roma, ma che aveva trovato poche applicazioni, ha cominciato ad
assumere un peso rilevante, che va di gran lunga al di là delle necessità che sorgono dal
procedere del processo di integrazione economica. Ci si avvia ad una svolta decisiva le cui
parole-chiave sono liberalizzazione, efficacia, competitività.
Con riferimento ai trasporti ferroviari, il primo imput comunitario per una riorganizzazione
del settore si è avuto con la Direttiva n. 440 del 1991.
Questo lavoro si prefigge, appunto, di interpretare il quadro delle esperienze dei paesi
europei in seguito all’approvazione della direttiva essendo stata, la stessa, recepita con
diversi approcci e con diverse strategie nazionali, riconducibili alle diverse posizioni in cui
si articola il dibattito teorico sulle alternative ai monopoli nazionali verticalmente integrati
nel settore dei servizi pubblici.
L’analisi della Direttiva 440/91 evidenzia la complessità dei problemi da risolvere per
realizzare un sistema ferroviario europeo contendibile, laddove le maggiori difficoltà
riguardano il processo di definizione e di sviluppo di nuovi modelli regolamentativi.
CAPITOLO 1
IL PROCESSO DI PRIVATIZZAZIONE IN EUROPA NEL SETTORE DEI SERVIZI
PUBBLICI
1. Perché privatizzare
Dall’inizio degli anni ‘80 le politiche di privatizzazione, in diverse forma e con diversa
intensità, hanno interessato la maggior parte dei paesi che in passato avevano largamente
fondato le loro politiche industriali sulla proprietà pubblica delle imprese. A partire dagli
inizi degli anni ‘90 si sono aggiunti i paesi ex comunisti, per i quali la privatizzazione
comporta ovviamente modifiche istituzionali radicali.
Le ragioni e, quindi, l’esigenza di ricorrere alle privatizzazioni sono molteplici.
Il primo motivo è costituito dall’inefficienza del settore pubblico. Le privatizzazioni
rispondono all’esigenza di affidare a mani più esperte la gestione di compiti pubblici e
all’esigenza di porre un freno all’eccesso di politicizzazione sottraendo all’influenza della
politica decisioni che debbono essere prese soltanto sulla base di criteri di carattere
economico.
Ulteriore spinta al processo di privatizzazioni è stata data dal progresso tecnologico.
In passato, ad es., per i servizi pubblici a rete, la gestione della rete e quella dei servizi
erano tutt’uno; la rete, essendo monopolio naturale, veniva gestita dallo Stato con la
conseguenza che anche i servizi che la rete consentiva di offrire erano in gestione pubblica
monopolistica. Oggi il progresso tecnologico consente sia di utilizzare lo stesso mezzo
(rete) per più servizi, sia di separare la gestione della rete dalla gestione dei servizi, con la
conseguenza di consentire di tener ferma la pubblicità della rete, privatizzando la gestione
dei servizi, come è imposto oggi da norme europee in diversi settori (ferrovie e energia
elettrica al primo posto).
Ma forse il motivo più noto e discusso riguarda il bisogno di finanziamento del Tesoro,
particolarmente accentuato in Italia, dall’ammontare del deficit e del debito pubblici. In
questo senso, le privatizzazioni rispondono ad una esigenza di finanziamento del bilancio
dello Stato.
Da ultimo, le privatizzazioni sono il prodotto dell’azione dell’Unione Europa, non perché
l’Unione le abbia imposte, essendo neutrale dal punto di vista del rapporto
pubblico/privato, ma perché hanno agito due fattori esterni:
a) il processo dell’integrazione dei mercati, prima ancora di quella degli Stati, ha portato la
concorrenza in primo piano riducendo l’area dei diritti speciali o esclusivi, nonché degli
aiuti di Stato;
b) il divieto di discriminazione e, quindi, l’uguale trattamento delle attività economiche
pubbliche e di quelle private, nonché la standardizzazione degli istituti, del tipo di
quella propria del diritto privato.
Dunque l’Unione ha richiesto indirettamente di ridurre l’area del diritto speciale che si
applica alle imprese pubbliche e, quindi, ha contribuito a diminuire il peso dei motivi
che davano luogo, in passato, all’istituzione di imprese pubbliche.
2. I modelli di privatizzazione prevalenti in Europa
Nel processo di privatizzazione europeo i modelli adottati sono stati sostanzialmente due:
quello inglese della public company o, in alternativa, quello francese del cosiddetto
“nocciolo duro”; la fase successiva ha registrato l’emergere del cd. modello misto
all’italiana.
La scelta dell’uno o dell’altro modello da parte di due importanti paesi quali Gran Bretagna
e Francia è stata dettata dalle caratteristiche dei sistemi economico-finanziari dei due paesi.
Il maggior sviluppo del mercato finanziario inglese ha favorito la scelta del modello della
public company proprio perché il suo punto di forza è dato dall’ampiezza e
dall’articolazione del mercato finanziario; invece, l’ampiezza del settore pubblico francese,
insieme alla relativa debolezza del mercato finanziario in questo paese e, in particolare, di
quello borsistico, oltre che ad una più articolata composizione del sistema industriale e
finanziario da privatizzare, ha spinto la Francia alla scelta di un modello diverso, quello del
“nocciolo duro”, che consente, inoltre, un più stretto controllo degli interessi nazionali nei
settori ritenuti strategici.
Bisogna, comunque, sottolineare che, nella fase matura di questo processo, la dicotomia
concettuale esistente tra i due modelli è venuta diminuendo con l’introduzione nel modello
di privatizzazione francese di alcune delle connotazioni tipiche del modello inglese che
hanno permesso di dare maggior spazio agli investitori esteri in Francia; questo fenomeno
ha assunto ancora maggior rilievo nel caso delle privatizzazioni italiane, dando vita al
cosiddetto modello “misto”.
2.1. Il modello inglese della public company
La Gran Bretagna ha condotto il più vasto programma di privatizzazione dell’Occidente
industrializzato che ha interessato tutti i settori industriali compresi quelli delle public
utilities.
Il modello della public company è un modello societario di corporate governance ad
azionariato diffuso in cui i piccoli risparmiatori, ed ancor più gli investitori istituzionali (in
particolare i fondi pensione), svolgono un ruolo primario nel controllo del management.
Questo modello è stato adottato per la prima volta, su larga scala, dal governo conservatore
di Margaret Thatcher (in occasione del collocamento della prima tranche di British
Telecom nel 1984) e successivamente, dal Governo Major, divenendo ben presto il
modello di riferimento per la privatizzazione di tutte le maggiori public utilities.
Gli strumenti utilizzati per il collocamento delle società pubbliche sul mercato sono stati in
prevalenza quello della vendita diretta (Private Placement) e, soprattutto, quello
dell’Offerta Pubblica di Vendita (OPV). Quest’ultima è stata lo strumento principale del
processo di privatizzazione, ed è stata sempre preceduta, nel caso di vendita di public
utilities, dalla creazione di apposite Authorities di settore (Agenzie statali di supervisione)
volte a tutelare gli interessi degli utenti
Nelle dismissioni più strategiche, all’OPV, si è associato lo strumento della golden share,
un meccanismo difensivo anti-scalata che conferisce allo Stato-azionista la titolarità di
poteri speciali in Assemblea (veto su modifiche statutarie indesiderate, poteri di nomina,
ecc.).
Questo meccanismo, oltre a consentire il collocamento dell’intero capitale delle società
privatizzate e, quindi, la massimizzazione dei ricavi per lo Stato e del numero di azionisti
acquirenti coinvolti, ha anche garantito una adeguata tutela degli interessi nazionali.
2.2. Il modello francese del “nocciolo duro”
Nonostante il ritardo con cui la Francia ha avviato il proprio processo di privatizzazione
rispetto alla Gran Bretagna, è rimasta per lungo tempo il paese-chiave per la scelta del
modello di privatizzazione da parte dell’Italia. Ciò soprattutto per le molteplici affinità che
contraddistinguono il tessuto socio-economico dei due paesi: peso rilevante dello Stato nel
modello produttivo; lunga tradizione di intervento pubblico nell’economia; struttura
relativamente simile dei sistemi finanziari dei due paesi (peso limitato, sebbene crescente,
dei mercati mobiliari, che invece risultano essere il punto di forza del modello inglese).
Il modello del “nocciolo duro” è un modello societario di corporate governance basato
sull’individuazione e cooptazione di un gruppo ristretto di azionisti di riferimento; si tratta
di un gruppo di imprese scelte dal Governo (spesso banche e imprese assicurative) al fine
di creare un nucleo nazionale stabile di controllo.
Le modalità di costituzione del cd. “nucleo duro” prevedono la vendita di quote agli
azionisti di riferimento con lieve sovrapprezzo rispetto alla quota minoritaria collocata sul
mercato nazionale con meccanismi di OPV (presso investitori istituzionali nazionali e, di
recente, anche esteri).
Come in Gran Bretagna, anche qui è prevista la possibilità per lo Stato di riservarsi una
“action specifique” (golden share francese) nei casi in cui si voglia “blindare” il controllo
dell’impresa privatizzata.
La comunanza di obiettivi nei processi di privatizzazione inglese e francese (riduzione
della presenza dello Stato nell’economia, mantenimento del controllo nei settori strategici,
sviluppo dei mercati dei capitali) non deve far dimenticare la diversità delle situazioni e
degli strumenti adottati nel loro perseguimento, tanto più che, a differenza di quello
inglese, dispiegatosi senza interruzioni, il processo di privatizzazione francese è proceduto
a fasi alterne e ha avuto un’ampiezza settoriale più contenuta rispetto a quello inglese.
2.3. Il modello italiano
In Italia, l’esistenza di un ampio numero di vincoli di natura economico-finanziaria, un
numero troppo ristretto di grandi imprenditori privati per orientarsi verso un uso estensivo
del modello del nocciolo duro, l’insufficiente dimensione del mercato borsistico e
l’inadeguata presenza di investitori istituzionali nazionali, ha portato all’adozione di un
“modello misto” che utilizza entrambi gli strumenti che caratterizzano i modelli inglese e
francese.
Infatti, il modello italiano prevede l’uso simultaneo dell’offerta pubblica di vendita e del
nucleo di azionisti stabili (di solito compreso tra il 10% ed il 30% del capitale
dell’impresa).
Nel caso di privatizzazione di servizi pubblici la costituzione dell’Authority di settore
svolge un ruolo chiave di garanzia.
Sin dall’inizio l’Italia presentava un insieme di condizioni uniche e favorevoli all’avvio di
un programma di privatizzazione su larga scala, che possono così sintetizzarsi:
• la presenza di un ampio numero di imprese pubbliche che rappresentavano una quota
sostanziale del valore aggiunto complessivo generato dall’economia;
• prezzi di collocamento estremamente appetibili per i potenziali investitori, legati alla
debole congiuntura del mercato borsistico di quel periodo;
• ampi margini di miglioramento dei livelli di efficienza e redditività delle imprese
privatizzande.
Il Governo annunciò ufficialmente il suo programma di privatizzazione su larga scala di
imprese pubbliche il 29 gennaio 1992 (legge n. 35) ma tale programma, di fatto, iniziò solo
nel corso del 1993.
Fu necessaria, inoltre, l’introduzione di misure di adeguamento del corpo legislativo per
creare le condizioni normative funzionali alla realizzazione del programma di
privatizzazioni.
Con legge n. 359 del 1992 si trasformarono le quattro principali holding statali: ENEL,
ENI, INA ed IRI in società per azioni.
La loro privatizzazione “formale” (cioè del loro assetto giuridico e non anche di quello
proprietario che caratterizza la privatizzazione “sostanziale”) ne determinò la conseguente
sottomissione alla disciplina del codice civile per le S.p.A., imponendo l’adozione di
rigorosi criteri gestionali.
Successivamente, le leggi 474/94 e 481/95 completarono il mosaico normativo necessario
per passare dalle privatizzazioni “facili” a quelle più complesse delle Società di pubblici
servizi.
In particolare, la legge 474/94, subordina la dismissione delle partecipazioni azionarie
dello Stato alla creazione di “organismi indipendenti per la regolamentazione delle tariffe
ed il controllo della qualità dei servizi di rilevante interesse pubblico” (Authorities di
settore). Essa prevede, inoltre, la possibilità di introdurre poteri speciali, la cd. golden share
nell’ambito di privatizzazione di aziende operanti in settori strategici (difesa, trasporti,
TLC, energia, pubblici servizi) a tutela di obiettivi nazionali di politica economica e
industriale.
Infine, la 481/95, pose l’ultimo tassello al mosaico normativo procedendo all’istituzione
delle Authorities di Regolamentazione dei Servizi di Pubblica Utilità, per i settori energia
elettrica, gas e telecomunicazioni e sancendo l’obbligo per il Governo di definire obblighi
e modalità per le privatizzazioni nei pubblici servizi.
Questi cambiamenti si rivelarono importanti per accelerare il processo di privatizzazione
dei grandi gruppi e per preparare il terreno di collocamento delle imprese dei pubblici
servizi.