6
globalizzazione, spiegando successivamente il passaggio che c‟è stato dal
soddisfacimento dei bisogni dei soli shareholder alla necessità del
soddisfacimento di una pluralità di bisogni, provenienti non solo dagli
azionisti, ma anche dagli altri attori con i quali l‟impresa interagisce.
Verranno poi mostrate le varie motivazioni per le quali l‟impresa può
decidere di approcciare logiche di responsabilità sociale, che vanno da
comportamenti cosmetici, mirati unicamente all‟innalzamento
dell‟immagine aziendale (Kramer, Porter 2007) a iniziative ben più
strutturate all‟interno delle strategie aziendali. Nel quarto e quinto
paragrafo infine verranno illustrati brevemente la funzione dei codici
auto vincolanti e degli standard sul comportamento etico, quali le forme
di rendicontazione verso gli stakeholder e le certificazioni.
Nel secondo capitolo vengono elencate alcune delle molteplici
definizioni di responsabilità sociale presenti in letteratura, con un focus
sul Libro Verde emanato in proposito dalla Commissione della Comunità
Europa; verrà poi illustrata l‟evoluzione storica e le trasformazioni
relative alle varie teorie sulla responsabilità sociale; nel terzo paragrafo
verranno illustrati i vantaggi e i costi relativi all‟applicazione di azioni di
responsabilità sociale all‟interno dell‟impresa, sottolineando la difficoltà
della misurazione dei risultati relativi a questi tipi di interventi. Nel
quarto paragrafo c‟è una breve descrizione dell‟applicazione delle azioni
di responsabilità sociale in particolare all‟interno della funzione di
marketing, vista la sua naturale maggiore vicinanza agli attori con cui
l‟impresa interagisce mentre nell‟ultimo paragrafo vengono elencate
alcune delle iniziative di responsabilità sociale a livello internazionale: il
Global Compact, il Global Reporting Initiative e la rete CSR Europe.
Nel terzo capitolo invece mettiamo a fuoco in particolare l‟applicazione
di strategie di responsabilità sociale all‟interno del Gruppo IKEA. Nel
corso del capitolo, successivamente ad una breve presentazione
dell‟azienda, si analizzano i vari ambiti nei quali IKEA è socialmente
7
attiva. Viene fatta un‟analisi dei codici etici presenti ed utilizzati
all‟interno dell‟azienda; vengono studiati i rapporti con i fornitori anche
in relazione all‟analisi SOMO del 2006; vengono analizzati gli impegni
ambientali di IKEA sia per quanto riguarda la scelta dei materiali e la
realizzazione dei prodotti, sia per quanto riguarda l‟impegno per la
selvicoltura, sia per quanto riguarda le questioni relative alle emissioni, ai
trasporti e all‟utilizzo di energie rinnovabili e infine vengono elencate le
varie partnership e iniziative con gli enti no-profit. Nell‟ultimo paragrafo
viene analizzata la responsabilità sociale perseguita ed implementata in
particolare da IKEA Italia, facendo uno studio sulle varie iniziative
realizzate per ridurre l‟impatto ambientale delle filiali italiane. Si
approfondiscono, infine, gli interventi dedicati alle risorse umane e le
principali iniziative delegate e svolte a livello di sistema locale.
8
- Capitolo 1 -
Etica ed Economia
1.1 Le ragioni dell’etica e gli equilibri d’impresa
La nostra società in questi ultimi decenni è stata percorsa da innumerevoli
cambiamenti. Il fenomeno della globalizzazione ha completamente
rivoluzionato l‟ambiente e il contesto culturale con il quale persone e imprese
hanno sempre interagito. La caduta delle barriere politiche, economiche e di
trasporto e la decentralizzazione della produzione in altre zone del pianeta
hanno spostato l‟ambito competitivo dal contesto locale\nazionale a quello
sconfinato dell‟intero mercato globale, facendo crescere in maniera
esponenziale il numero dei competitori.
Questa forte competizione e la possibilità di sviluppare le proprie attività in
differenti paesi, ha spinto le imprese a sfruttare il vantaggio competitivo dato
dalla localizzazione di filiali in contesti socio-economici più permissivi.
La metafora di Peter Drucker sulla piramide e la tenda dipinge molto bene
l‟evoluzione dell‟impresa. Questa, prima della globalizzazione, poteva
richiamare l‟immagine di una piramide, stabilmente inserita nel contesto
locale di appartenenza e con determinati e determinabili concorrenti; ora
invece l‟impresa può essere efficacemente rappresentata da una tenda,
sempre in cerca di migliorare il suo vantaggio competitivo, che grazie
all‟abbattimento di tutte le barriere prima presenti, può spostarsi con molta
più facilità in base alle maggiori convenienze economiche, ad esempio in
ambienti economici nei quale vincoli normativi deboli e minori controlli
consentono di sfruttare tassazioni meno oppressive, di ottenere un costo del
9
lavoro nettamente inferiore e di applicare una minor attenzione all‟impatto
ambientale1 (Scidà 2008).
“Osserviamo, dunque, che le aziende che svolgono la loro attività in aree
caratterizzate da profonde differenze sociali tendono ad essere, per così dire,
aziende "multietniche", in quanto sono portate a differenziare, almeno in
parte, i loro livelli d'eticità, allineandoli a quelli dei contesti socio-
economici in cui vanno ad operare, molti dei quali presentano contenuti
etici marginali.” (Cavalieri 2005).
Un doveroso richiamo al tema dell‟etica nell‟economia però non è dato solo
dalle possibilità di dumping2 sociale ed ecologico che la delocalizzazione
produttiva ha reso possibile; basti pensare ai recenti scandali finanziari che
hanno attraversato il sistema capitalistico moderno (Enron e Parmalat, per
citarne qualcuno), per rendersi conto di quanto anche il mercato azionario,
ora in forte crisi, abbia bisogno di un cambiamento di vedute.
Le imprese hanno raggiunto dimensioni tali da renderle di importanza
sociale; è emblematica la nota intervista riguardante la chiusura degli
stabilimenti di Termini Imerese – “Se qui chiude la Fiat, chiude anche il
barbiere” – che ci fa capire quanto impatto hanno le moderne imprese su
tutta una serie di stakeholder3 che non necessariamente hanno una relazione
diretta con l‟impresa stessa. Oggi però il mercato finanziario non premia
più l‟impresa che guarda al lungo periodo, che salvaguarda quindi
l‟interesse di tutti gli stakeholder ad essa interconnessa, ma è diventato un
luogo di speculazione, dove i manager creano valore economico di breve
1
“Le imprese dell‟epoca fordista erano come le piramidi d‟Egitto, strutture ben piantate
su un territorio con il quale sviluppavano relazioni di natura non solo economica, ma
anche sociale e culturale. Le imprese di oggi, invece, sono come le tende del deserto che
un giorno possono essere piantate in un luogo e il giorno dopo in un altro” (Peter
Drucker).
2
Ci si riferisce alla possibilità di un impresa di usufruire costi di produzione più bassi
della media internazionale, sfruttando lacune nella legislatura locale.
3
Per il concetto di stakeholder, si rinvia al paragrafo 1.2.
10
periodo a discapito del benessere aziendale, distruggendo il valore
d‟impresa. “Alla tradizionale strategia d'impresa, che generalmente ruota
sulla tutela di una molteplicità d'interessi quali la difesa e valorizzazione
del proprio know how, la promozione del capitale umano dei dipendenti,
la salvaguardia dell'ambiente circostante a beneficio della collettività ivi
insediata, vengono sostituendosi una serie di tecniche che, nel breve
periodo, possono offrire l'opportunità di generare utili spesso molto rilevanti
come: le fusioni, le acquisizioni, le delocalizzazioni, i licenziamenti sino
alle speculazioni da insider training o alle manipolazioni del bilancio”
(Scidà 2008). La necessità di una rivoluzione culturale risulta evidente.
La situazione vigente del mercato finanziario ben si rispecchia nelle parole di
Milton Friedman, che nel 1962 sosteneva: “Vi è una sola responsabilità
sociale dell‟impresa, aumentare i suoi profitti”.
In quest‟ottica quindi il manager è un agente che deve fare solo e soltanto gli
interessi della proprietà. Negli anni Settanta, Williamson e Meckling
formalizzano la teoria dell‟agenzia, la quale prevede la concessione da
parte degli azionisti (principal) di un mandato fiduciario ai manager
(agent), sulla base del quale quest‟ultimi si impegnano nella gestione
dell‟azienda secondo l‟interesse della proprietà. Naturalmente, essendo
presente una asimmetria informativa intrinseca, esiste il rischio che il
comportamento dell‟agent si distacchi dalla reale volontà del principal,
grazie alle ampie deleghe a lui riservate, dandogli la possibilità di
sfruttare il suo potere decisionale in maniera non conforme al contratto
stipulato. In questo caso viene creata una “architettura specifica” del
contratto che porti all‟allineamento degli interessi delle due parti. Un
incentivo classico per l‟attenuazione delle tentazioni opportunistiche del top
management è l‟utilizzo di una remunerazione basata su partecipazioni (o
diritto di sottoscrizione) agli utili a prezzo determinato: le cosiddette stock-
options (Scandizzo 2002). Tramite questa forma di incentivazione, il
manager è portato a fare tutto ciò che è in suo possesso per far crescere nel
11
breve periodo il profitto aziendale, anche a costo di effettuare investimenti e
tagli di costo dannosi per il benessere dell‟impresa. Tutto questo infatti
porta a trascurare il suo sviluppo stabile a favore della massimizzazione dei
dividendi nel breve periodo.
Questa teoria è l‟esemplificazione di un tipo di etica utilitaristica4 dove
l‟individuo si muove unicamente in funzione del proprio interesse
personale. Analogamente i manager, se perseguissero politiche estranee alla
massimizzazione del profitto, aumenterebbero i costi di gestione e quindi
andrebbero contro l‟interesse degli azionisti.
Si potrebbe però porre una domanda legittima: il principal del manager è
rappresentato dagli azionisti o l‟impresa stessa?
Essendo l‟impresa una persona giuridica, per l‟ordinamento legislativo il
principale del manager è appunto l‟impresa. Per i sostenitori della teoria
dell‟agenzia questo però non è vero, in quanto l‟impresa sarebbe solo una
mera finzione giuridica che non esiste nella realtà, e quindi il principal del
manager deve necessariamente configurarsi con la classe azionista. Se
viene preso per buono il punto di vista dei teorici dell‟agenzia, allora
sarebbe giusto fissare come obbiettivo la massimizzazione dei profitti, in
quanto rappresenta l‟obiettivo del principal. Il primato dell‟azionista sugli
altri stakeholder però viene giustificato dal rischio che corre in caso di
problemi a livello economico, essendo il proprietario dell‟impresa. Ma
questa argomentazione non può reggere “per la semplice ragione che per
poter invocare i diritti di proprietà come fondamento del principio del
primato dell‟azionista occorre ammettere, come la dottrina giuridica da
tempo sostiene, che il principale, ha da essere l‟impresa e non già
l‟azionista. Ma allora, se il manager deve essere agente dell‟impresa ha
4
L‟etica utilitaristica si pone in contrasto con l‟etica di tipo deontologica, che vede il
rispetto di principi morali, non in funzione di un ottica di convenienza o di costrizione,
ma come risposta ad una motivazione mossa dalla volontà di autoregolarsi. Una
interiorizzazione profonda e non apparente di norme auto regolative (Franceschi 2002).
12
anche l‟obbligo di perseguire la funzione obiettivo di quest‟ultima, la
quale include tra i suoi argomenti, sia l‟interesse degli azionisti, sia
quello degli altri stakeholder. E non v‟è modo di ordinare questa pluralità
di interessi secondo un qualche criterio gerarchico” (Zamagni 2006).
1.2 Un nuovo rapporto tra etica e economia
La forte turbolenza ambientale che l‟impresa vive oggi, la costringe
comunque, in ogni istante, a confrontarsi con vari attori del contesto
socio-economico in cui opera. La soddisfazione dei soli bisogni degli
azionisti, quindi, non può più bastare a soddisfare le necessità
dell‟impresa in un ottica di crescita. “Tutti quanti hanno nei confronti
dell'impresa aspettative sia di ordine finanziario sia di altra natura
(etica, sociale e ambientale) e il management è tenuto a rispondere del
proprio comportamento nei confronti della totalità dei pubblici di
riferimento, poiché da questi riceve i contributi necessari per la
sopravvivenza e lo sviluppo dell'unità economica” (Birindelli 2001).
Per rispondere a questa esigenza, in contrasto con questa teoria
dell‟agenzia, negli anni Ottanta nasce la stakeholder theory, che
meglio in armonizza con il ruolo che l‟impresa ha assunto nel contesto
socio-economico.
Esistono varie definizioni del termine „stakeholder‟. Fu utilizzato per la
prima volta nel 1963 dallo Stanford Research Institute; la definizione
classica è quella di Freeman (1984), che definisce stakeholder "ogni
gruppo o individuo che può influenzare il raggiungimento degli
obiettivi dell'impresa o ne è influenzato". Gallino ne coglie il senso
letterale, traducendolo “colui che ha la posta in gioco” (Gallino 2005),
in poche parole, gli stakeholder rappresentano i portatori di interessi
nei confronti dell‟attività produttiva. Viene effettuato un cambio di
visione, passando dalla sola dimensione interna alla considerazione
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dell‟impresa come un oggetto non scindibile dal rapporto con i vari
elementi dell‟ambiente che lo circonda. I manager quindi sono
chiamati a soddisfare non solo le esigenze della proprietà, ma anche di
tutti quei soggetti presenti nel contesto di riferimento aziendale, con i
quali l‟azienda interagisce.
Figura 1.1 - La visione dell’impresa secondo la teoria degli stakeholder
Fonte: Hinna L. (2005), Come gestire la responsabilità sociale dell’impresa: manuale
pratico-operativo. Processi, strumenti e modelli. La redazione del bilancio sociale, Il
Sole24Ore, Milano.
In particolare gli stakeholder possono essere distinti in due categorie: “si
distinguono comunemente in primari (proprietari-azionisti, dipendenti,
clienti, fornitori, concorrenti, rivenditori e creditori) e secondari
(comunità locali, organizzazioni sindacali, governi locali, mass media,
università, ecc.) (Birindelli 2001).