7
degli asiatico-americani, dei latino-americani e delle donne si sono posti in
termini nuovi a cominciare dagli anni Settanta del secolo scorso. La società
democratica si è trovata a dover dare una risposta al problema di comprendere se,
e come, ad identità culturali diverse basate spesso sull‟etnia, la “razza”, il sesso o
la religione si possa e debba garantire un riconoscimento politico. La democrazia
liberale sarebbe vincolata per principio ad assicurare a tutti i suoi membri
un‟eguale rappresentanza, ma l‟insidia è quella di trovare una risposta ragionevole
alla questione delle minoranze svantaggiate: identità minoritarie e storicamente
svantaggiate possono trovare una giusta rappresentanza in istituzioni pubbliche
che non riconoscano la loro particolarità identitaria? Questa è una delle domande
tutt‟ora pressanti all‟interno delle democrazie multietniche e multiculturali
contemporanee.
Nell‟ambito della filosofia politica contemporanea sono state offerte varie
interpretazioni riguardo al peso pubblico che l‟identità dovrebbe avere. Una parte
del liberalismo contemporaneo ritiene ancora che la sfera pubblica dovrebbe
rimanere neutrale, perché solo così può preservare l‟uguaglianza e la libertà dei
suoi appartenenti. Lo Stato avrebbe quindi il compito di assicurare i bisogni
universali indipendenti dall‟identità culturale, quali il reddito, le cure mediche,
l‟istruzione, la libertà religiosa e di pensiero, il diritto al voto, il libero accesso alle
cariche pubbliche. Se come primo compito lo Stato ha quello dell‟uguale
trattamento di tutti i cittadini, riconoscere le identità particolari significherebbe
tradire il proprio fine.
L‟eguaglianza economica, che ha costituito per lungo tempo l‟aspetto principale
delle contestazioni politiche, oggi sembra farsi sempre meno rilevante, lasciando
spazio a molteplici lotte per il riconoscimento. I movimenti che reclamavano una
giusta redistribuzione delle risorse non sono scomparsi, ma certamente hanno un
impatto ridotto rispetto al passato. La globalizzazione ha portato con sé effetti
culturali importanti come l‟interesse per ciò che è “diverso” e il bisogno di
relazionarsi all‟“altro” ed hanno fatto sì che le rivendicazioni per la giustizia un
tempo delimitate dai confini nazionali li travalicassero aprendo nuovi orizzonti
culturali e comunicativi.
8
In generale, dunque, ci troviamo di fronte ad una nuova costellazione sociale
suscettibile di diverse interpretazioni e soluzioni sul piano normativo. In questo
capitolo esamineremo due prospettive opposte: la prima, quella di Rorty, critica
rispetto alle posizioni post-moderne orientate verso la politics of identity, che
richiama l‟attenzione sul carattere ancora pervasivo e cruciale delle
disuguaglianze economiche nelle società contemporanee; la seconda, quella di
Charles Taylor, fautrice del paradigma alternativo della c.d. “politica del
riconoscimento” e favorevole a dare un rilievo nuovo in ambito politico
all‟elemento culturale ed etnico, anche quando questo chiede revoche rispetto ai
principi dell‟universalismo e dell‟eguaglianza. Vedremo quindi in una prima
forma sintetica la lettura che la Fraser offre di questa particolare costellazione
politico-sociale.
I.2. Richard Rorty e la “social left”
Richard Rorty5, uno dei pensatori statunitensi più noti e discussi nel panorama
della filosofia politica contemporanea, ritiene che le pratiche democratiche non
possono privilegiare un gruppo etnico a scapito di un altro. È, infatti, la possibilità
stessa di una convivenza civile tra culture che deve essere rispettata. Rorty è
critico nei confronti di quelle posizioni post-moderne volte ad una “politica della
differenza”, che vorrebbe mettere in evidenza le caratteristiche e i diritti dei
singoli gruppi. I cittadini, a suo avviso, non dovrebbero identificarsi con una
specifica identità etnica, culturale, religiosa o sessuale. Dovrebbero piuttosto
prendere le mosse dal presupposto di essere parte di un‟identità a tutti comune,
quella americana. Per migliorare la situazione dei gruppi minoritari occorre,
dunque, secondo Rorty, avere fiducia nel riformismo sociale e promuovere
5
R. Rorty (1931-2007), filosofo americano, ha insegnato presso la Princeton University,
l‟Università della Virginia e la Standford University. Tra i suoi lavori ricordiamo Philosophy and
the Mirror of Nature (1979), Contingency, Irony, and Solidarity (1991) e i quattro volumi dei
Philosophical Papers: Objectivity, Relativism and Truth: Philosophical Papers I (1991); Essays on
Heidegger and Others: Philosophical Papers II (1991); Truth and Progress: Philosophical Papers
III (1998), Philosophy as Cultural Politics: Philosophical Papers IV (2007).
9
l‟impegno civile per il proprio paese6.
Di fronte all‟emergere della politics of identity e al richiamo al valore delle
differenze culturali da parte di tanti intellettuali progressisti, Rorty mostra dubbi e
perplessità e guarda con malinconia al passato:
In the old days – scrive –, American leftist assumed that creating a
decent and civilized society was in part a matter of redistributing
money and opportunity, and in part a matter of erasing stigma by
eliminating prejudice. The two efforts were assumed to go hand in
hand. No theoretical problem arose about how to integrate the two
[…]7
Le istituzioni devono essere aperte alle diverse pratiche delle comunità
contingenti, come se fossero degli esperimenti sociali; è questa condizione che
introduce il concetto rortiano di “ironico liberale”8, ovvero un tipo umano che è
ironico perché accetta la contingenza dei suoi desideri e delle sue credenze e
abbandona l‟idea che questi si riferiscano a qualcosa che è oltre il tempo e il caso,
credendo che non sia possibile privilegiare l‟uno o l‟altro dei linguaggi, ed è
liberale poiché ha come preoccupazione quella di sviluppare un senso di
solidarietà che gli consente di avvicinarsi a persone molto diverse da lui senza
preclusioni e con la capacità di ampliare il bagaglio di metafore con cui descrivere
se stesso e il mondo.
Rorty accetta la necessità di far convivere identità, culture e tradizioni diverse, ma
attraverso una politica dell‟ibridazione che provochi la perdita o il mescolarsi
delle differenze tra un gruppo e l‟altro. Il mantenimento delle istituzioni e delle
pratiche delle democrazie occidentali va di pari passo con la necessità di garantire
condizioni economiche caratterizzate da una maggiore giustizia sociale e con
l‟abbandono di quella concezione essenzialista della cultura che trasforma le
specificità in un valore assoluto da preservare da qualunque forma di alterazione o
6
Cfr. P. Dell'Aquila, Multiculturalismo e democrazia: un confronto fra Richard Rorty e Charles
Taylor. http://didattica.spbo.unibo.it/pais/minardi/seminario/dellaquila.html
7
R. Rorty, Is “cultural recognition” a useful notion?, in K. Olson (a c. di), Adding Insult to Injury.
Nancy Fraser Debates her Critics, Verso, London 2008, p. 71.
8
Cfr. B. Casalini, Appunti delle lezioni del corso filosofia politica ad uso degli studenti, a.a.
2008/9.
10
perdita.
Nel saggio Razionalità e differenza culturale9 Rorty discute alcuni problemi
inerenti al rapporto tra razionalità e cultura, cercando di comprendere le basi
dell‟interesse crescente per le differenze culturali. A tal fine l‟autore, distingue tre
sensi in cui può essere usato il termine “razionalità” e tre sensi in cui può essere
usato il termine “cultura”. La razionalità andrebbe distinta in: 1) razionalità1,
“ragione tecnica” o “capacità di sopravvivere”: è la capacità di adattamento
all‟ambiente adeguando le proprie reazioni agli stimoli che da questo provengono;
2) razionalità2: è la forma di razionalità che consente di andare oltre
all‟adattamento e di stabilire una gerarchia di valori; 3) razionalità3: è in qualche
modo sinonimo di tolleranza, è la capacità di rispondere in modo adeguato a chi è
diverso da noi e una virtù che permette ad individui e comunità di coesistere
pacificamente con altri individui, di realizzare modi di vita nuovi basati sul
compromesso. Anche per la nozione di cultura, come dicevamo, Rorty distingue
tre sensi del termine: la cultura1 è l‟insieme di schemi di azione condivisi da una
comunità, in questo senso molti di noi appartengono a numerose culture diverse
che dipendono dagli ambienti di cui siamo parte, e assomiglia alla razionalità1; la
cultura2 è una virtù, è ciò che si può chiamare “alta cultura”, che si acquisisce con
lo studio e che può essere associata alla razionalità3; la cultura3, a cui la cultura
assurge quando viene ritenuta capace di rappresentare l‟essenza dell‟uomo, è in
questo senso il prodotto di quella razionalità2, a cui i pragmatisti e i liberali ironici
come Rorty ritengono si debba rinunciare.
La tradizione intellettuale dell‟Occidente ha spesso confuso questi tre modi di
intendere la “razionalità” e la “cultura”. Qualora queste distinzioni fossero state
tenute presenti, infatti, secondo Rorty nessuno si sarebbe sognato di affermare che
ogni cultura1 merita di essere conservata e automaticamente apprezzata.
L‟idea di trattare ogni cultura come un‟opera d‟arte, quindi come una
cosa degna, almeno in prima istanza, di essere conservata così come lo
è ogni opera d‟arte, è relativamente recente ma molto influente fra gli
9
Saggio contenuto in R. Rorty, Verità e progresso. Scritti filosofici, Feltrinelli, Milano 1998, pp.
175-189.
11
intellettuali di sinistra dell‟Occidente contemporaneo, e si
accompagna al centro di colpa per l‟“eurocentrismo” e
all‟indignazione davanti all‟ipotesi che una qualsiasi cultura possa
essere considerata meno “valida” di un‟altra10.
Il problema della diversità non può essere ignorato. Se oggi è un tema vitale l‟idea
che la cultura occidentale sia una specie di mostro che annulla tutte le altre culture
e sia incapace di produrre la diversità al suo interno, vi sono ragioni che spiegano
perché le cose stiano così e Rorty non intende negarle. Non condivide, tuttavia,
l‟atteggiamento di quanti affermano che solo le culture oppresse sono culture
“vere”, vere in qualche modo proprio in virtù della loro passata oppressione; e tali
addirittura, secondo Rorty, che in certe letture di sinistra, si è disposti ad attribuire
loro un valore maggiore di qualsiasi prodotto dell‟Occidente. Una posizione
simile è, secondo Rorty, discutibile tanto quanto quella degli imperialisti
occidentali che dichiarano tutte le altre forme di vita inferiori rispetto all‟Europa
moderna. Provocatoriamente Rorty scrive:
Ho l‟impressione che la vera costruzione di un‟utopia planetaria
multiculturale sarà fatta da persone che nel corso dei prossimi secoli –
non molti – dipaneranno ogni cultura1 come si dipana una matassa,
ricavandone una molteplicità di fili che poi tesseranno insieme ad
altri, provenienti da altre culture1, promuovendo la varietà dell‟unità
caratteristica della razionalità3. L‟arazzo che con un po‟ di fortuna, ne
verrà fuori sarà qualcosa che oggi non possiamo nemmeno
immaginare, una cultura1 che troverà le culture1 dell‟America e
dell‟India contemporanee altrettanto meritevoli di essere
benevolmente dimenticate di quelle di Harappa o Cartagine11.
Rorty è critico nei confronti di quella che in termini dispregiativi definisce sinistra
“culturale”, una sinistra che preferisce non parlare di economia e di
disuguaglianze economiche e ci chiede di rispettarci l‟un l‟altro nelle nostre
differenze piuttosto che di non soffermarci più su esse. Una sinistra che dovrà
cercare un nuovo modo per far sentire gli individui appartenenti ad un destino
comune e partecipi alla politica nazionale e che ha assunto uno stato di semplice
10
Ivi, p. 178.
11
Ivi, p. 189.
12
spectatorship, divenendo ironicamente complice di una destra che si orienta verso
gli aspetti culturali, certo in modo più reazionario, non avendo alcuna risposta da
dare alle richieste di tipo distributivo.
Rorty sostiene che il primo obiettivo di una politica di sinistra deve essere quello
di eliminare i pregiudizi non quello di marcare le differenze culturali. Utili a
mantenere vivi i sogni della sinistra sono ancora oggi, secondo Rorty, filosofi
come Dewey e Mill. Mill, in particolare, ci ricorda Rorty, desiderava che fosse
incoraggiata la massima diversità all‟interno della società, ma si riferiva alla
diversità di individui creativi e geniali, non alle diversità culturali.
Our utopian dreams should be of a world in which cultures are seen as
transitory coming together of individuals – expedients for increasing
human happiness rather than as the principal source of a person‟s
sense of self worth 12.
I.2. Liberalismo e riconoscimento in Charles Taylor
È stato Charles Taylor13 in The politics of recognition14 ad introdurre per la prima
12R. Rorty, Is “cultural recognition” a useful notion?, cit., p.81.
13C. Taylor, intellettuale cattolico, canadese, ha iniziato la sua carriera accademica quale interprete
hegeliano. Ha insegnato ad Oxford ed è stato per molti anni professore di Filosofia e Scienza della
Politica presso l‟Università Mc Gill di Montreal, dov‟è professore emerito, attualmente insegna
Legge e Filosofia presso la Northwestern University. Tra le sue opere principali: Sources of the
Self: The Making of Modern Identity (1989), The Malaise of Modernity (1991) e Multiculturalism
and “the politics of Recognition (1992).
14
The politics of recognition, in Multiculturalism and “the Politics of Recognition”, ed. by Amy
Gutmann, Princeton University Press, Princeton 1992; tr. it. Multiculturalismo. La politica del
riconoscimento, Anabasi, Milano 1993. Il saggio di Taylor è uscito in italiano anche in un‟altra
versione, accompagnato dalla traduzione di J. Habermas, Struggles for Recognition in
Costitutional States (originariamente pubblicato in “European Journal of Philosophy”, 1, 1993, 2);
cfr. tr. it. di L. Ceppa, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. Habermas e
C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 63-110. A
proposito del saggio di Habermas, Lotte di riconoscimento nello stato democratico di diritto,
Garaventa scrive: “Occorre innanzi tutto rilevare che, secondo Habermas, il comunitarismo
tayloriano, conferendo speciale risalto alla dimensione collettiva, contraddice la tutela della
differenza che dichiara essere il suo principale obiettivo. Infatti, gli argomenti di Taylor, per
Habermas, si traducono nell‟idea che è necessario concedere privilegi alle minoranze culturali
affinché esse non scompaiano nell‟omologazione messa in atto dalla cultura egemone, il che
istituisce, in linea di principio un circolo vizioso: il conferimento dì privilegi alle minoranze
culturali genera altre minoranze culturali discriminate, poiché è coercitivo nei confronti di coloro