moderne, che nella loro ambizione all’universalità sacrificano gli elementi della
personalità, della contingenza, della specificità individuale.
L’etica della virtù si colloca in una tradizione inaugurata nell’antichità dal filosofo greco
Aristotele e ha attraversato tutta quanta la storia della filosofia fino ai giorni nostri,
interessando pensatori dalle impostazioni più differenti, come David Hume e Immanuel
Kant.
Tuttavia con l’imporsi dell’approccio moderno alla filosofia morale, l’attenzione verso
il carattere e le intenzioni dell’agente ha perso la sua importanza e il concetto di “virtù”
è stato trascurato, messo in secondo piano rispetto alla conformità dell’azione a principi
di portata universale o alla considerazione complessiva delle conseguenze prodotte
dall’azione sui soggetti coinvolti.
Solo nella seconda metà del XX secolo si è assistito alla rinascita dell’etica della virtù,
all’interno della svolta normativa che interessa in quel periodo il panorama filosofico in
reazione alla preminenza quasi assoluta della metaetica, approccio concretizzatosi nella
riflessione sulla logica e sul linguaggio del discorso morale e slegato dalla guida
all’azione concreta nel mondo. La rinascita dell’etica della virtù si colloca anche nel
contesto di un approccio antiteorico, che nasce dalla generale insoddisfazione nei
confronti delle tendenze dominanti della filosofia morale moderna che, nella loro
ambizione di elaborare una spiegazione scientifica della vita morale sulla base di norme
impersonali e universalizzanti, sacrificano l’individualità e le specificità dell’individuo
agente.
Analizzerò l’etica della virtù nella sua focalizzazione sui tratti individuali e
nell’attenzione data alle specifiche circostanze, per poi concentrarmi più precisamente
sul tema della ripresa dell’etica della virtù nel contesto della svolta normativa e della
reazione antiteorica della seconda metà del XX secolo, individuando all’interno di un
6
panorama variegato e difficilmente schematizzabile due principali atteggiamenti, distinti
l’uno dall’altro per il diverso ruolo attribuito alla ragione e per i diversi atteggiamenti
nei confronti del deontologismo kantiano e dell’utilitarismo.
Passerò poi ad analizzare l’etica ambientale, un particolare ambito di riflessione sorto
all’interno dell’irruzione delle questioni pratiche, fenomeno concomitante alla svolta
normativa che ha comportato la rinascita dell’etica della virtù, che considera come
moralmente rilevante il rapporto tra l’essere umano e l’ambiente non umano.
Tratteggerò anzitutto sommariamente le posizioni sorte all’interno del dibattito in
un’ottica prettamente teorica, elaborata nel contesto di una riflessione morale standard,
secondo un’opposizione di coppie concettuali logico-astratte (antropocentrico-non
antropocentrico; conservazione-protezione etc); poi procederò individuando due
atteggiamenti antiteorici sorti all’interno del dibattito ambientale, cioè il “pragmatismo
ambientale” e l’”etica ambientale orientata secondo virtù”.
Mi concentrerò su quest’ultima, che inserisce la considerazione del rapporto tra l’essere
umano e l’ambiente non umano in un’ottica che si concentra anzitutto sulle disposizioni
di carattere dell’agente umano verso l’ambiente, e identificherò gli atteggiamenti che un
essere umano “eccellente” a livello ambientale tende a sviluppare. Questi atteggiamenti
riguardano sia direttamente i modi di agire e di sentire dell’agente nei confronti
dell’ambiente sia il suo modo di considerare l’ambiente stesso, la sua sensibilità nei
confronti dei singoli oggetti naturali e l’attenzione che presta alle possibilità di
cambiamenti in ambito morale aperto dalle scoperte scientifiche.
Una volta delineati i tratti di carattere che tendono a specificare l’agente
“ambientalmente virtuoso”, identificherò i punti deboli dell’etica ambientale orientata
secondo virtù, sia a livello di una generale applicazione dell’etica della virtù che nello
specifico contesto della questione ambientale. Stabilito che la prospettiva orientata
7
secondo virtù rappresenta, all’interno dell’etica ambientale, un complemento più che
un’alternativa nei confronti degli approcci più “teorici”, valuterò la plausibilità dello
sviluppo di tratti di carattere “virtuosi” nei confronti dell’ambiente, che consentono
all’agente di apprezzare la molteplicità delle possibilità che la realtà ambientale offre
alla realizzazione individuale, in un’ottica di “perfezionamento del carattere” e in
considerazione del conseguimento, reso possibile dalla coltivazione delle “virtù
ambientali”, di una “vita moralmente potenziata”.
Considererò in ultima istanza, e sulla base di quanto detto sul ruolo che la coltivazione
delle “virtù ambientali” ha nel perfezionamento del carattere, la possibilità di trovare
una spendibilità politica dell’etica ambientale della virtù, all’interno di un liberalismo
perfezionista secondo cui compito dell’autorità politica è garantire il perfezionamento
morale dei cittadini sostenendo le dottrine e le pratiche che meglio di altre lo
consentono.
8
Capitolo 1
Sulla virtù o l’etica del carattere
‘Quando non si ha un carattere, bisogna pure darsi un metodo.’
Albert Camus, 1956
‘Gli uomini hanno bisogno delle virtù come le api del pungiglione. […] Gli uomini sono fatti in modo da
preoccuparsi di quello che succede agli altri, in maniera che distanzia dal rispetto per il Dovere, che
rappresenta il modo in cui le Inclinazioni umane se ne vanno via.’
Peter Geach, 1977
1.1. Virtù ed “etica dell’essere”
L’uso del termine “virtù” da’ spesso la spiacevole sensazione di rimandare a qualcosa di
antiquato, a vecchie prediche religiose o a antiche dottrine che, in quanto tali, non ci
forniscono e non possono più fornire alcunché di interessante.
Questa diffidenza può essere forse superata parlando non tanto di “etica della virtù”
quanto di “etica del carattere”, denominazione che evidenzia in maniera maggiore
l’attualità mai tramontata dell’etica orientata nella considerazione dei tratti di carattere
presenti nell’individuo agente: interrogarsi sul carattere personale che un individuo deve
o dovrebbe avere in determinate situazioni è infatti una questione centrale in ogni
approccio che indaghi il modo in cui l’uomo agisce nel mondo2.
La filosofia ha il suo punto di partenza in domande che riguardano le nostre possibilità
di scoprire qual è il modo migliore di vivere: la questione di come vivere è ancor più
essenziale di altre problematiche, anch’esse d’interesse filosofico, quali l’interrogazione
sulla natura del dovere, o del modo di essere buoni o di agire rettamente. Essa nel
2
Greg Pence, Virtue Theory, in Peter Singer (a cura di), A Companion to Ethics, Blackwell, Oxford 1991,
p. 249
9
proprio porsi investe la vita nel suo complesso, nella totalità dei suoi aspetti e in tutta la
sua profondità3.
L’etica della virtù, o del carattere, dal momento che si interroga su quali tratti del
carattere devono essere coltivati da un individuo perché lo si possa definire
“moralmente buono”, affronta direttamente la questione che, sulla scia di Williams, ho
ritenuto essere centrale in ogni considerazione etica.
L’etica della virtù è radicata in un’ampia tradizione che, fino dall’antica Grecia, ha
attraversato tutta la storia della filosofia: inaugurata nell’ambito della filosofia antica,
con la dottrina di Aristotele4, un approccio all’etica formulato nei termini della virtù ha
pervaso tutta quanta la storia della filosofia, arrivando a toccare anche uno dei massimi
sostenitori dell’etica deontologica concentrata sul dovere come Immanuel Kant5.
3
Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 6-8
4
Anche Platone parla di virtù: all’interno di un’etica eudaiemonistica basata sulla virtù, il filosofo ritiene
che il benessere umano (l’εὐδαιμονία) sia lo scopo più alto del pensiero e della condotta umana. Le virtù
sono definite come le capacità e tratti del carattere richiesti per raggiungere lo scopo della felicità. Nel
quarto libro de La Repubblica, Platone definisce virtù “le caratteristiche che delineano una città giusta, e
quindi buona”: si tratta delle doti della sapienza, del coraggio, della temperanza, della giustizia. Le stesse
disposizioni, collocate in un’anima individuale, rendono l’individuo che le possiede giusto e quindi
buono. Platone tuttavia è stato giudicato meno utile, perché nel suo discorso non sono chiaramente o
coerentemente caratterizzati i vizi e le virtù individuali.
Cfr. Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 245-291; Philippa Foot, Virtues and Vices, in
Philippa Foot, Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, Basil Blackwell, Oxford 1985, p.
1
5
Le teoria della virtù è presente nell’etica medievale: è evidente ad esempio in Tommaso d’Aquino, che
si ispirava alla dottrina aristotelica animato dalla convinzione che l’azione umana sia indirizzata verso un
preciso e determinato fine, una felicità ultima definita come “beatitudine”, un bene perfetto che sazia
totalmente il desiderio umano. Questo bene universale alla cui ricerca l’uomo è “naturalmente” mosso
non si trova in nulla di creato, ma solo in Dio: la beatitudine ultima e perfetta infatti consiste
esclusivamente nella visione dell'essenza divina. In Tommaso la stessa morale è mossa fin dall'inizio dalla
meraviglia, cioè il primo movente della ricerca, ed è orientata ad un fine ultimo di sua natura assoluto e
perfetto.
C'è una duplice beatitudine, o felicità, dell'uomo: una è proporzionata alla natura umana, e ad essa l'uomo
può giungere attraverso le virtù intellettuali ed etiche già enunciate da Aristotele; l'altra è la beatitudine
che eccede la natura dell'uomo, e ad essa l'uomo può giungere solo per virtù divina, poiché i suoi principi
naturali non sono sufficienti per raggiungerla. È quindi necessario che l’uomo riceva da parte di Dio
alcuni principi che gli consentano di accedere alla beatitudine soprannaturale: questi sono le virtù
teologiche.
Tommaso ritiene che sia le virtù intellettuali che quelle etiche consistano nel giusto mezzo; questo non
vale per le virtù teologiche, poiché non è possibile che per Dio esistano eccessi: nessun uomo (in quanto
creatura finita) può infatti mai amare Dio o credere o sperare in lui quanto sarebbe giusto.
Tommaso riprende da Aristotele le quattro virtù cardinali (la giustizia, la temperanza, la prudenza, la
fortezza)
Le tre virtù teologali sono fede, speranza e amore (caritas). Tra di esse viene accordata preminenza
all’amore: l’amore deve essere giudicato la più grande delle virtù, anzi la loro stessa «forma» (in quanto
indirizza tutte le altre al fine ultimo che è Dio).
10
Tuttavia con l’imporsi dell’approccio moderno alla filosofia morale, l’attenzione verso
il carattere e le intenzioni dell’agente è passato in secondo piano. All’interno di etiche di
stampo kantiano o utilitarista c’è indubbiamente una considerazione del carattere e delle
motivazioni che definiscono la vita dell’agente, ma essa è subordinata alla conformità
dell’azione ad un qualche principio di portata universale o alla valutazione delle
conseguenze complessive prodotte dall’azione sui soggetti coinvolti.
Il concetto di virtù è stato trascurato nell’etica moderna, che si è concentrata sulla
valutazione della giustezza delle azioni considerate singolarmente, piuttosto che sul
carattere complessivo dell’individuo agente.
Nella seconda metà del XX secolo si assiste tuttavia a una rinascita e a una riscoperta
dell’etica della virtù, come consapevole alternativa ai paradigmi dominanti
dell’utilitarismo e delle teorie deontologiche quali neocontrattualismo e teoria dei diritti.
Alle base di questa rinascita si collocano due processi, che si svolgono rispettivamente
nell’ambito continentale tedesco e in quello anglosassone6.
L’etica della virtù che ora torna a riproporsi si distanzia sia dalla prospettiva utilitarista
che da quella deontologica dei diritti o del contratto per il fatto di essere incentrata sul
carattere dell’agente, piuttosto che sull’azione compiuta dall’agente stesso, sia questa
considerata nelle sue conseguenze o in se stessa. Una considerazione etica che pone al
centro la virtù, cioè una particolare disposizione del carattere dell’agente, si colloca in
6
Nel mondo tedesco si assiste alla ripresa di etiche aristoteliche o kantiane dopo il prevalere di una sorta
di “immoralismo” che sosteneva la tesi della morte dell’etica: il movimento tedesco si è sviluppato nella
riproposizione di una filosofia pratica neoaristotelica o di una forma di etica kantiana su basi linguistico-
pragmatiche.
Nel mondo anglofono si assiste ad una ripresa dell’etica normativa dopo un lungo prevalere dell’interesse
per la metaetica.
I movimenti che si sono sviluppati sia sul continente che nell’oltre-Manica e in America, pur nelle
reciproche differenze, hanno seguito un percorso per vari aspetti parallelo.
Cfr. Sergio Cremaschi, La rinascita dell’etica delle virtù, in Francesco Botturi, Francesco Totaro,
Carmelo Vigna (a cura di), La persona e i nomi dell’essere: scritti di filosofia in onore di Virgilio
Melchiorre, Vita e pensiero, Milano 2002, pp. 565-566
11
una prospettiva del tutto differente dalle teorie etiche che rendono l’azione il perno della
valutazione morale7.
In opposizione all’impersonalità decantata dagli approcci morali utilitaristi e
deontologici, l’etica della virtù è per definizione personale: è un approccio filosofico
agent-focused, focalizzato sulla condotta generale del soggetto che agisce, sui suoi
tratti caratteriali più profondi, sulle sue disposizioni, sui motivi che lo qualificano in
quanto virtuoso.
Concentrato sulla persona che agisce e sulle particolarità che le sono proprie, è più degli
altri approcci capace di valutare la specificità dell’agente e le contingenze individuali
che lo caratterizzano. L’approccio orientato secondo virtù tiene conto del fatto che
l’agente morale è un agente individuale calato in uno specifico contesto che determina,
entro una certa misura, lo sviluppo di particolari tratti di carattere a scapito di altri.
In questa prospettiva, la comprensione della vita etica o morale richiede anzitutto la
comprensione di che cosa comporta essere un individuo virtuoso o avere una
determinata virtù in una specifica circostanza8.
La considerazione della vita etica orientata nella prospettiva della virtù si preoccupa
dell’indagine dei tratti del carattere presenti nell’individuo agente non solo nel momento
dell’azione, ma anche nel corso di tutta la sua vita, e per questo si declina come un’etica
dell’essere, in contrapposizione a un’etica del dovere o del fare.
Quest’ultima, rappresentata dalle concezione utilitaristiche o deontologiche, considera
centrale nella valutazione morale l’azione compiuta dall’agente, isolata dal complessivo
contesto motivazionale, dalla vita dell’agente considerata come un tutto: nella
7
La concezione della virtù come “disposizione dell’anima” è presente già in Aristotele, secondo cui la
virtù è una disposizione a scegliere il giusto mezzo tra due estremi giudicati come viziosi e biasimevoli.
E’ una disposizione “consistente in una medietà in rapporto a noi”, determinata sulla base del criterio con
cui la determinerebbe l’uomo saggio.
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Bompiani, Milano 2007, II, 6, 1106b 25-1107a 1, pp. 99-101
8
Micheal Slote, What is Virtue Ethics?, in Marcia W. Baron, Philip Pettit, Michael Slote, Three methods
of Ethics, Blackwell, Oxford 1997, p. 177
12
valutazione morale complessiva ad avere rilevanza è piuttosto la considerazione delle
buone conseguenze prodotte sugli individui coinvolti, oppure il rispetto e l’ossequio nei
confronti di principi validi a prescindere dalla situazione particolare.
L’etica dell’atto tende ad articolare le proprie valutazioni nei termini di “giusto” o
“sbagliato”, di “moralmente permissibile” o “moralmente obbligatorio”, a seconda
dell’accordo dell’azione con le regole o i principi da rispettare.
Si tratta di espressioni morali conosciute come deontiche, in contrasto con un’altra
classe di espressioni etiche costituita da termini etici areteici come “moralmente
buono”, “ammirevole”, “virtuoso”, la cui connessione con le regole è meno immediata e
che sono utilizzati da un’etica che pone in primo piano il carattere e la disposizione
dell’agente, cioè l’etica della virtù9. L’etica della virtù articola le proprie valutazioni nei
termini di ciò che è “nobile” o “ignobile”, “ammirevole” o “deplorevole”, “buono” o
“cattivo”, piuttosto che nei termini di ciò che è “obbligatorio”, “permesso” o
“sbagliato”. L’etica della virtù è concentrata sul carattere del particolare individuo che
agisce, piuttosto che sulle conseguenze che il suo agire comporta o sul suo adempiere a
certi principi o rispettare determinati diritti.
Da un punto di vista normativo, le etiche della virtù non prescrivono principi che
indicano direttamente all’agente cos’è moralmente doveroso fare in determinate
circostanze, ma gli danno indicazioni per sviluppare e acquisire un carattere virtuoso10.
Nei suoi tratti caratteristici l’etica della virtù si distanza in maniera evidente dagli
approcci consequenzialisti e deontologici, dominanti nella prima metà del XX secolo: la
sua riproposizione, o “rinascita”, si innesta all’interno di una riflessione che inizia con il
saggio del 1949 di Stuart Hampshire, Fallacies in Moral Philosophy11, per culminare nel
9
Ibidem
10
Simone Pollo, voce Virtù, etica della, in Eugenio Lecaldano, Dizionario di bioetica, Laterza, Bari 2007,
p. 324
11
Stuart Hampshire, Fallacies in Moral Philosophy, in Stanley Hauerwas, Alasdair MacIntyre (a cura di),
Revisions: Changing Perspectives in Moral Philosophy, University of Notre Dame Press, Notre Dame
(Indiana) 1983, pp. 51-67
13
1981 con il libro Dopo la virtù di Alasdair MacIntyre, in relazione a due processi che
interessano entrambi la seconda metà del XX secolo: da una parte, l’etica della virtù si
inserisce nel contesto di riabilitazione della filosofia pratica, in cui compare accanto al
neoutilitarismo e al deontologismo (esemplificato dal neocontrattualismo e dalle teorie
dei diritti) come figura normativa tale da orientare l’azione dell’uomo nel mondo;
dall’altra, essa si colloca all’interno della corrente antiteorica nata in reazione e in
opposizione alla tendenza della filosofia morale moderna di ridurre il problema morale
ad una teoria, cioè una struttura di principi e regole basate su una qualche evidenza
valida a priori.
1.2. L’etica della virtù all’interno della svolta normativa a cavallo tra gli anni
Sessanta e gli anni Settanta
Fino alla fine degli anni Sessanta del XX secolo l’ambito della filosofia morale di
tradizione analitica è stato dominato dall’interesse quasi esclusivo attorno alla
metaetica: un’“etica sull’etica” che consiste in una riflessione sulla logica e sul
linguaggio che guidano il discorso morale. Espressa compiutamente nel 1903 da George
Edward Moore nei Principia Ethica, il programma metaetico è caratterizzato dalla
volontà di individuare uno specifico linguaggio della morale tale da giustificare l’etica
come un sapere autonomo e da fissare una chiara e invalicabile distinzione tra il terreno
di ciò che è e il terreno di ciò che deve essere12. L’analisi metaetica si concentra quasi
esclusivamente sulla chiarificazione dei termini usati (cioè il significato di parole come
“buono”, “giusto”, “sbagliato”), al punto che il problema dell’etica si riduce solo a
12
Una componente metaetica è presente ovviamente in qualsivoglia teoria filosofica che, per poter essere
compresa senza fraintendimenti, deve anzitutto chiarificare il significato attribuito ai termini utilizzati.
Tuttavia l’interesse quasi esclusivo delle riflessione nei confronti del significato dei termini morali, dello
statuto epistemologico del sapere pratico e della possibilità o meno di una sua giustificazione razionale,
della natura dei principi e dei valori morali è emersa pienamente, nel contesto della riflessione analitica,
solo con l’opera di Moore (qualche anticipazione è data dall’opera del 1874 di Henry Sidwick , The
Methods of Ethics)
14