intraprendere il viaggio verso l’Europa, mentre le donne sono di solito venute dopo
avvalendosi del ricongiungimento familiare. La caratteristica di massa di questi
trasferimenti, configurantesi come veri esodi, ha fatto in modo che i migranti presenti nelle
nostre città venissero percepiti come una categoria e non come un insieme di individui
aventi ognuno una propria storia personale. Questo lavoro, pertanto, vuole contribuire a
dare una individualità alle varie protagoniste delle narrazioni; ricostruirne il percorso
individuale, riconoscerne i moventi profondi e capire come tali esperienze abbiano
modificato il senso di sé di ciascuna donna, cercare di comprendere l’autopercezione di tali
cambiamenti nel proprio Sé. La ricerca, certamente esigua per numero di intervistate, vuole
avere un valore non statistico e quantitativo ma puramente qualitativo: non pretende di
spiegare la realtà, ma è un tentativo di comprensione.
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CAPITOLO I
LA PSICOLOGIA CULTURALE COME MODELLO
INTERPRETATIVO DELL’ESPERIENZA
1.1. La psicologia culturale
La psicologia culturale nasce dalla necessità di superare i limiti dell’approccio psicologico
cognitivista che si era sviluppato all’inizio degli anni sessanta e che si presentava come
movimento innovativo rispetto alla psicologia classica, tanto da essere definito
“rivoluzione cognitiva”. I sostenitori di tale approccio volevano mettere in rilievo il fatto
che l’uomo non potesse essere considerato come semplice recettore di stimoli esterni, e ne
evidenziavano il ruolo attivo di selezionatore e costruttore dell’esperienza attraverso
l’influenza di eventi interni (aspettative e atteggiamenti). Il cognitivismo si pone in netta
contrapposizione alla corrente psicologica del comportamentismo, secondo la quale
l’oggetto di studio per eccellenza della psicologia era il comportamento umano
oggettivamente osservabile. L’oggetto di studio della psicologia cognitivista è invece la
mente e ciò che in essa accade, con particolare attenzione ai processi di elaborazione delle
informazioni in essa pervenute dall’esterno.
Tali elaborazioni avvengono in alcune zone della memoria e consentono alla nostra mente
di richiamarle, in un momento successivo, attraverso procedure a ciò finalizzate.
Lo psicologo sociale Jerome Bruner, padre della psicologia culturale, pur partendo da
questa teoria, ne evidenzia l’eccessiva meccanicità, rilevando la somiglianza tra
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l’approccio cognitivista e il paradigma computazionale1 dell’elaborazione delle
informazioni. Entrambi questi approcci, secondo l’autore, non lasciano spazio alla
dimensione intenzionale delle azioni umane.
Nonostante il ribaltamento di prospettiva avutosi con il passaggio dalla teoria
comportamentista a quella cognitivista, il limite di quest’ultima resta quello di considerare
il sistema conoscitivo come qualcosa di esclusivamente interno alla mente.
Questo punto di debolezza, individuato da Bruner, diventa il suo punto di partenza per
l’elaborazione di una “psicologia culturale” che dia importanza all’attribuzione di
significato alla esperienza: un aspetto fino a questo momento trascurato, ma che evidenzia
il ruolo attivo del soggetto e dei suoi stati intenzionali.
Questa posizione è sostenuta per la prima volta nel saggio “La ricerca del significato”, in
cui si individua nell’azione il vero oggetto di studio della psicologia, “un’azione nella
situazione…situata in uno scenario culturale che risponde agli stati intenzionali,
reciprocamente interattivi, di coloro che vi prendono parte”.2
E’ chiaro che l’approccio della psicologia culturale non può prescindere dalla definizione
stessa di cultura, considerandone nello specifico il ruolo formativo a doppio senso: da una
parte l’uomo si completa attraverso di essa, dall’altra è l’uomo, attraverso le sue azioni e le
1
Bruner sottolinea la sostanziale differenza tra la costruzione del significato e l’elaborazione delle
informazioni, quest’ultima non considera rilevante il significato: le informazioni vengono memorizzate e
richiamate successivamente per essere trattate secondo procedure specifiche che consentono di ordinarle e
confrontarle con altre informazioni precodificate, si parla perciò di computazione.
2
Jerome Bruner “La ricerca del significato. Per una psicologia culturale” Ed. Bollati Boringhieri, pg 34.
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sue interazioni, a creare cultura3, modificandola continuamente attraverso le proprie
interpretazioni.
Nella psicologia culturale l’interpretazione dell’esperienza prende le mosse dalla corrente
dell’interazionismo simbolico di George Herbert Mead4, secondo il quale si tratta di un
processo per cui l’individuo, cogliendo il significato delle azioni degli altri, predispone il
proprio agire, che diventerà a sua volta stimolo ed esempio per le azioni altrui. In tal modo,
l’interazione tra le persone diventa partecipazione dell’una al comportamento dell’altra e
non più semplicemente risposta dell’una alle azioni dell’altra: il soggetto agisce non solo in
risposta ad un comportamento, ma anche in risposta a quelle che egli crede siano le
motivazioni che hanno spinto l’altro ad agire in quel modo.
I termini comportamento e azione utilizzati, rispettivamente, dalla psicologia scientifica e
dalla psicologia culturale non possono essere considerati sinonimi. La parola
comportamento ha come referente i modi di agire oggettivi, osservabili e biologicamente
determinati; il termine azione designa l’interazione tra pensiero, credenze, aspettative, tra il
dire e il fare, che acquisisce significato nel contesto della quotidianità. Il fatto che il
3
A. Rivera in “L’imbroglio etnico in 14 parole chiave” espone il concetto antropologico di cultura, fa notare
come finalmente ci si allontani dalla rigida identificazione dell’individuo alla cultura d’appartenenza, intesa
per troppo tempo come patrimonio ancestrale:“dato originario…quasi una seconda natura”. Visione che
aveva contribuito allo sviluppo delle dicotomie alla base del pregiudizio nei confronti delle “culture altre”:
primitivo/civilizzato, arcaico/moderno, culture superiori/culture inferiori. La cultura è intesa come un insieme
di costumi, abitudini, conoscenze, credenze, pratiche sociali e religiose, che identifica e rende riconoscibile il
gruppo umano del quale il soggetto fa parte, ma è anche memoria collettiva, che costituisce la capacità di
elaborazione del passato. Questi aspetti non devono essere considerati come tipici di una cultura piuttosto che
un’altra, ma sono elementi comuni all’intera umanità. Annamaria Rivera fa notare come, tra tutte le
definizioni antropologiche della cultura, emergano degli aspetti in comune: la cultura è da tutti interpretata
come un insieme complesso e organizzato di credenze e di pratiche, che, acquisite dall’uomo in forme sociali
vengono trasmesse di generazione in generazione, ed hanno una forma più o meno riconoscibile.
L’antropologa aggiunge che, pur nelle loro differenze, tutte le culture presentano caratteristiche comuni che
chiama universali o invarianti, come, per esempio, la presenza della religione o la tendenza a istituire leggi
che regolino la convivenza. Proprio grazie a queste invarianti è consentito l’incontro e la conoscenza tra le
diverse culture; e, all’immigrazione, di cui ci si occuperà in questo lavoro, viene attribuito il grande merito di
contribuire a tale processo, oltre che di favorire la percezione del relativismo culturale: la nostra cultura di
riferimento non è che una tra le tante.
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L’ espressione “interazionismo simbolico” è stata coniata ufficialmente da Herbert Blumer (1900-1987) , ma
è il suo maestro G.H.Mead (1863-1931) ad essere riconosciuto come padre di questa corrente sociologica,
che vede il significato dell’esperienza come prodotto dell’interazione sociale: al di fuori della società non può
esserci nessun sé, nessuna coscienza di sé e nessuna comunicazione.
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significato delle nostre azioni venga di volta in volta costruito, fa in modo che nessuna
conoscenza possa mai essere aprioristicamente giusta o sbagliata, ma che possa essere
definita tale solo alla luce della prospettiva interpretativa che si è scelta.
Molte critiche sono state mosse a questa teoria da studiosi che ritengono la possibilità di
scegliere un punto di vista, causa di eccessivo relativismo, relativismo che per Bruner si
traduce invece in apertura mentale, fondamentale per ogni cultura realmente democratica.
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1.2. La narrazione nella psicologia culturale
1.2.a. Esperienza e narrazione
Gli strumenti a disposizione di ciascuna cultura per influenzare, caricandole di significato,
le azioni umane, sono tanti; primo fra tutti viene considerato, nella teoria della psicologia
culturale, la narrazione.
Questo genere di racconto non è soltanto l’esposizione sequenziale di eventi vissuti o
osservati, nè una rielaborazione a posteriori dell’accaduto, ma diventa una
reinterpretazione dei fatti e delle esperienze della propria vita sulla base di un modello
culturale canonico. Attraverso il racconto della propria vita ognuno di noi attribuisce un
senso all’esperienza vissuta; il significato dato all’esperienza non è sempre lo stesso, ma
varia ed è rielaborato in qualsiasi momento perché, come si è detto sopra, l’interpretazione
dipende dal punto di vista.
La capacità di raccontare la propria esperienza è presente nel bambino già verso i 18-24
mesi, quando, acquisite le prime abilità linguistiche, egli sente la necessità di rielaborare,
attraverso il linguaggio, la propria esperienza, spesso accompagnando le proprie azioni con
lunghi monologhi che lo aiutino a comprendere i suoi atti e quelli che attorno a lui vengono
agiti5. Il linguaggio comincia ad essere, per il bambino, il mezzo attraverso il quale
interpretare il mondo.
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A questo proposito Bruner nel suo lavoro “La ricerca del significato” dedica ampio spazio allo studio sui
soliloqui di Emily, registrati tra i diciotto mesi e i tre anni, argomento del libro Narrative from the Crib (a
cura di K.Nelson). Dallo studio dei soliloqui emergeva che Emily, non soltanto raccontava le sue esperienze
quotidiane prima di addormentarsi, ma cercava di attribuire loro un significato, e lo faceva tanto meglio,
quanto più si sviluppavano in lei le competenze linguistiche: i primi racconti sono caratterizzati dalla
connessione di eventi attraverso semplici congiunzioni; verso i due anni introduce termini volti a sottolineare
l’eccezionalità di alcuni eventi dimostrando di saper distinguere il canonico dall’insolito; successivamente
introduce espressioni che esprimono valutazioni personali, dimostrando di saper distinguere gli stati mentali
dell’attore-narratore, da quelli altrui.
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