2
molti e presentano preziose analisi contenute in scritti non ancora editi nel nostro paese.
Questi si sono rivelati indispensabili per l’elaborazione del discorso attorno al concetto e alla
definizione stessa di genocidio, che la maggior parte degli studiosi attribuisce alle violenze
subite dal popolo armeno all’inizio del XX secolo.
Da qui, mi sono concentrata sulle ricadute politiche del riconoscimento degli
avvenimenti come genocidio: numerosi Stati nazionali ed istituzioni hanno pubblicamente
affermato la loro solidarietà al popolo armeno, attraverso dichiarazioni e atti ufficiali di
riconoscimento, in particolare attorno l’anno 2000.
La scelta dello studio di questo argomento è stata dettata da un interesse verso un
paese come la Turchia, a cavallo fra Europa ed Asia, fra cristianesimo e islamismo, fra libertà
democratiche e misure repressive tipiche di un potere assoluto. Un paese che guarda
all’Europa e all’Occidente tentando di avvicinarvisi e di entrarci a pieno titolo, senza però
rinunciare ai suoi legami e ai suoi retaggi tipicamente orientali. L’apertura ufficiale delle
trattative per l’allargamento della Comunità europea allo Stato turco ha più che mai riportato
l’attenzione del mondo intero su una delle più terribili tragedie contemporanee, puntualmente
negata dalla nazione che nacque sulle ceneri dell’Impero.
3
1. TRA STORIA E MEMORIA
Negli ultimi anni il tema dei delitti contro l’umanità è affiorato sempre più prepotentemente
nella riflessione pubblica sulla storia; inoltre, la recente candidatura della Turchia all’ingresso
nell’Unione Europea, la consegna del premio Nobel 2006 per la letteratura al più noto
scrittore turco Orhan Pamuk, colpito dall’accusa per «denigrazione pubblica dell’identità
turca» (in base all’articolo 301 del codice penale) solo di recente decaduta, nonché
l’assassinio del celebre giornalista turco-armeno Hrant Dink (anch’egli colpito dall’articolo
301), avvenuta il 19 gennaio 2007 a Istanbul ad opera di Ogün Samast, un giovane
nazionalista turco di soli diciassette anni, ha riportato l’interesse sulla prima e più dimenticata
tra le grandi stragi del Novecento, il genocidio armeno.
Se per anni questa tragedia è stata ignorata, più o meno consapevolmente, è vero che
negli ultimi anni si sono fatti passi da gigante, e il genocidio armeno è diventato un evento
storico oggetto di sempre più numerosi studi internazionali e di cui l’informazione cresce ogni
anno, sia con gli storici turchi sia all’interno delle università e dei centri di ricerca turchi.
Tutto questo costituisce un forte segno di speranza per un futuro dibattito e confronto che
possa portare alla riscoperta critica e, quindi, alla «riappropriazione collettiva di un passato
confiscato troppo a lungo dal potere»2.
1.1 IL SILENZIO DOPO LOSANNA
I fatti di violenza perpetrati durante la prima guerra mondiale contro il popolo armeno hanno
subito una vera e propria rimozione collettiva dalla memoria storica. Ciò ad opera, in primis,
del nuovo governo kemalista che, subentrato al potere all’indomani del conflitto mondiale, si
era trovato un’eredità difficile da gestire ma che, comunque, fece da elemento collante della
nuova repubblica e della sua identità. Non si dimentichino anche le responsabilità
dell’Occidente, sempre silente e, dunque, in certa misura complice durante tutti gli anni in cui
la tragedia armena fu consumata. Infine gli armeni sovietizzati, che non avevano la possibilità
di farsi portavoce di una forte identità nazionale diversa da quella della grande Russia, e gli
armeni della diaspora, per tanto tempo disinteressati e reticenti ad affrontare il Grande Male al
di fuori della loro comunità.
2
M. Flores, Il genocidio degli armeni, Bologna 2007, p. 12.
4
Si aggiungano il ruolo di un periodo storico, quello compreso fra le due guerre, in cui
l’Armenia era riconoscibile solo come parte integrante dell’URSS e si andavano consolidando
totalitarismi e nazionalismi agguerriti; il fortissimo impatto della violenza feroce della
seconda guerra mondiale, che cancellò il ricordo delle tragedie precedenti, nonché l’inizio
della guerra fredda. Tutti questi elementi contribuirono a far scomparire dall’agenda
geopolitica internazionale la questione armena, relegandola in un passato totalmente
svincolato dal presente.
Parlare dunque del genocidio armeno significa anche dover affrontare il problema del
negazionismo, che si presenta con l’attuazione stessa del piano di sterminio del governo
centrale turco e che lo storico inglese Bloxham definisce «la fase finale della questione
armena»3.
Il crollo dell’Impero ottomano, sancito definitivamente dal trattato di Losanna del
1923, chiuse la questione orientale nel quadro della politica internazionale e, con essa, anche
la questione armena, che dalla metà dell’Ottocento era entrata prepotentemente nel
vocabolario diplomatico occidentale. La Turchia, stato nascente dalle ceneri dell’impero,
guidata da Mustafa Kemal Ataturk, riuscì a sfruttare la propria posizione geopolitica per
ottenere vantaggi territoriali sia nei confronti dell’Occidente, interessato al controllo delle
risorse petrolifere nei territori arabi dell’ex Impero, sia dell’Unione Sovietica, che mirava a
mantenere i territori caucasici entro lo spettro della propria sfera di interessi. In questo modo,
la nuova Turchia si garantì una posizione di forza e di equilibrio rispetto all’esterno che le
permise di gestire gli affari interni in totale autonomia, al contrario di quanto era accaduto
all’Impero negli ultimi anni della sua esistenza.
La sostanziale connivenza delle nazioni occidentali e dell’Unione Sovietica permisero
al nuovo stato turco di applicare in maniera uniforme quella politica di omogeneizzazione
etnica, culturale e politica che era ufficialmente iniziata con la guerra greco-turca e che portò
alla cancellazione della memoria della tragedia armena. Inizialmente con l’estromissione delle
associazioni missionarie e umanitarie internazionali (che restarono solo nella capitale); poi
con la distruzione dei documenti attestanti il genocidio, conservati negli archivi statali e che
comprendevano anche gli atti del processo tenutosi a Istanbul nel 1919, in cui furono
condannati alcuni membri del governo turco come responsabili delle violenze; infine
3
D. Bloxham, Il “grande gioco” del genocidio. Imperialismo, nazionalismo e lo sterminio degli armeni
ottomani, Druento (TO) 2007, p. 296.
5
attraverso l’attività ideologica e propagandistica, lo stato turco eliminò totalmente ogni
memoria dei fatti accaduti durante la prima guerra mondiale e, di conseguenza, ogni senso di
responsabilità.
In questo modo nacque in Turchia il problema del negazionismo rispetto al genocidio
armeno, che portò anche alla sua rimozione dalla memoria internazionale: come già
accennato, i sopravvissuti emigrati nei paesi occidentali, pur ricordando la tragedia ogni 24
aprile, vivendo in paesi che non riconoscevano il genocidio- proprio in base alla rimozione
operata dal governo turco- a causa del trauma subito, furono spesso incapaci di comunicare la
loro esperienza e preferirono la via del silenzio. La comunità della diaspora mantenne per
lungo tempo un atteggiamento passivo in ambito politico e la memoria restò qualcosa di
privato, che non si tinse di toni di rivendicazione o denuncia e non uscì dalla comunità di
riferimento, intenta per molti anni a tentare di ricostruire una propria identità.
1.2 I PRIMI ECHI DEL PASSATO
È a partire dagli anni Ottanta che la storiografia armena assunse un ruolo decisivo nella
diffusione della ricerca storica sul genocidio del suo popolo; è grazie ad essa, come ricorda
Flores, che la questione è uscita dall’ambito ristretto della diaspora e dalle preoccupazioni
politiche del riconoscimento internazionale, alimentando l’interesse di molti studiosi.
Certamente anche il contesto contribuì in larga parte; lo sterminio ebraico scosse
profondamente le coscienze e generò, già negli anni Sessanta, un dibattito pubblico attorno al
tema dei crimini di guerra:
«i discorsi armeni sul 1915 si tingevano di connessioni con l’Olocausto ebreo. Ciò era
assolutamente naturale, data la prossimità della “soluzione finale” e la crescente
consapevolezza dell’opinione pubblica di essa negli anni Sessanta, grazie al processo di Adolf
Eichmann, e dato che il genocidio nazista aveva dato uno slancio decisivo alla convenzione
sul genocidio»4.
4
Ibid., pp. 309-310.
6
Nel 1950 infatti, dopo un iter di circa due anni, venne definitivamente approvata e
ratificata da venti Stati la citata Convenzione sul genocidio (entrata in vigore il 12 gennaio del
1951) che condannava questo crimine come un «rifiuto al diritto all’esistenza di un intero
gruppo umano che sconvolge la coscienza dell’umanità».
Ancora gli anni Sessanta e Settanta furono centrali nel porre all’attenzione
dell’opinione pubblica internazionale la memoria del genocidio armeno: da un lato la
commemorazione del cinquantesimo anniversario del «Grande Male» (Metz Yeghérn in
armeno), seguita dalla pubblicazione di libri e raccolte di memorie e documenti, di
celebrazioni di riti collettivi, di realizzazione di interviste a sopravvissuti e documentari
cinematografici; dall’altro l’attività terroristica ad opera della Armenian Secret Army for the
Liberation of Armenia (ASALA), intrapresa tra il 1975 e il 1983, che colpì i diplomatici e i
dirigenti turchi sparsi per il mondo coinvolti nelle violenze perpetrate durante la prima guerra
mondiale, e che si concretizzò anche in dirottamenti di aerei di linea e azioni di sabotaggio o
distruzione di enti e proprietà dello Stato turco5.
Si può quindi dire che, a partire dagli anni Sessanta, si sviluppò una fase della
costruzione della memoria in cui al ricordo e alla celebrazione delle vittime, al
riconoscimento dell’esperienza dei sopravvissuti, seguirono la presa di coscienza e il
passaggio a un’identità non più solo legata al passato, ma all’attualità della vita della
comunità armena, con le sue contraddizioni e le sue problematiche. La riscoperta della propria
storia e delle proprie radici da parte di una generazione cresciuta nei paesi della diaspora e
certamente più libera dal peso del genocidio, permise il risveglio culturale e politico; inoltre,
la volontà di denuncia unita al legame con la famiglia e, soprattutto, con coloro che il
genocidio l’avevano vissuto, consentì a queste nuove generazioni di mantenere viva la
memoria.
1.3 IL SORGERE DEL DIBATTITO STORIOGRAFICO E LA PRIMA TESTIMONIANZA
Man mano che la questione armena uscì progressivamente dal silenzio e dall’oblio, lo studio
del genocidio di questo popolo vide una crescita significativa negli anni Novanta,
raggiungendo alti livelli di maturità dal punto di vista storiografico e metodologico. Si
delinearono così i nodi principali del dibattito fra gli storici.
5
M. Flores, Il genocidio degli armeni, cit., p. 213.
7
Prima di rendere conto delle emergenze problematiche di carattere storiografico che
alimentano oggi il dibattito, è opportuno ripercorrere le tappe che hanno portato alla
situazione attuale, partendo dal modo tradizionale di discutere gli eventi in questione.
Secondo il criterio dell’ordine cronologico, i primi che si occuparono di ciò che stava
accadendo a danno degli armeni furono lo storico britannico Arnold Toynbee e il politico
James Bryce. Essi infatti, su richiesta del governo inglese, svolsero dal febbraio 1916
un’attività di ricerca per raccogliere prove dei recenti eventi nell’Impero ottomano. I loro
sforzi erano atti a sostenere la Dichiarazione congiunta del 24 maggio 1915, sottoscritta dalle
potenze dell’Intesa - Francia, Gran Bretagna e Russia - con la quale venivano condannate le
violenze a cui erano sottoposti gli armeni nel territorio della Sublime porta e si sottolineava in
esse la connivenza delle autorità ottomane:
«Di fronte a questo nuovo crimine della Turchia contro l’umanità e la civiltà i governi alleati
mettono pubblicamente al corrente la Sublime porta che essi riterranno personalmente
responsabili tutti i membri del governo turco e i funzionari che avranno partecipato a questi
massacri»6.
Il loro rapporto The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire, 1915 – 1916 è di
fondamentale importanza e acquista ancora maggior valore perché redatto da persone che si
trovavano in quei luoghi e che poterono assistere ai fatti nel loro pieno svolgimento. In
particolare, la loro testimonianza è preziosa per quanto riguarda la quantificazione delle
vittime del genocidio; come apparirà chiaro, è importante riuscire a stimarle in maniera il
meno possibile approssimativa, e ciò vale per tutti i grandi eventi di violenza di massa.
Tuttavia, nel caso delle violenze che colpirono il popolo armeno, rendere conto con precisione
degli uccisi, dei deportati, dei morti nei campi o nelle marce forzate è compito tutt’altro che
semplice. Le fonti a nostra disposizione sono soltanto due, non esaurienti ed entrambe “di
parte”: le statistiche demografiche condotte dall’Impero ottomano e dalla Chiesa armena, che
presentano forti discrepanze. Nonostante ciò, diversi studiosi hanno riscontrato maggiore
6
J.-M. Carzou, Un génocide examplaire. Arménie 1915, Paris, Flammarion 1975, citato in M. Flores, Il
genocidio degli armeni, cit., p. 119.
8
accordo sulle percentuali delle vittime rispetto al totale della popolazione che non sulle cifre
assolute, potendo così giungere a risultati generalmente condivisi7.
Facendo un bilancio completo delle vittime di tutte le zone interessate, si ipotizza la
cifra di 1.200.000, che è appunto la più accreditata e comunemente accettata dagli storici.
Certamente è un bilancio difficile, almeno in parte approssimativo, essendo le cifre di
partenza contrastanti: se il censimento ufficiale del 1914 condotto dal governo ottomano conta
1.295.000 armeni stanziati nel suo territorio, gli archivi del patriarcato ne rilevano invece
2.100.000. E così, il numero delle vittime varia da 1.500.000, secondo quanto indicato nelle
pubblicazioni armene, a 800.000, come invece affermò nel 1919 il ministro dell’Interno turco,
e che in seguito confermò anche Mustafa Kemal. Il rapporto, comunque, rimane di due terzi,
avvalorato nel 1916 proprio dalla testimonianza dello storico Toynbee, la cui stima resta la
più verosimile: su 1.800.000 armeni residenti nell’Impero ottomano, 600.000 vennero uccisi
sul posto e 600.000 nel corso delle deportazioni, vere marce della morte, per un totale di
1.200.000 vittime; 200.000 si rifugiarono nel Caucaso; 150.000 sfuggirono alla deportazione
(sono gli armeni di Costantinopoli, di Smirne e alcuni gruppi sparsi, comunque non più di
qualche migliaia); 100.000 furono vittime di rapimenti o, come molti bambini piccoli,
vennero allevati in orfanotrofi turchi; alla fine, 150.000 persone sopravvissero alla
deportazione, rinchiuse nei campi, nascoste in famiglie turche, curde o arabe, o, come i 4.200
armeni di Mousa Dagh, salvati dalle navi alleate8. «Ma che si tratti», come scrive Ternon, «di
800.000, di 1.200.000 o di 1.500.000 vittime, è un popolo intero che scompare»9.
Toynbee e Bryce scrivono anche:
«Dando un’occhiata a questa sintesi possiamo individuare il piano del governo centrale. I
mesi di aprile e maggio furono assegnati allo sgombero della Cilicia; giugno e luglio alle
regioni orientali; i centri occidentali lungo la ferrovia conobbero il loro turno in agosto e
settembre; in questo stesso periodo il processo fu esteso, per completarlo, anche alle comunità
armene che risiedevano nel Sud-Est più estremo. Si trattava di un tentativo deliberato e
7
M. Flores, Il genocidio degli armeni, cit., p. 225.
8
Y. Ternon, Gli armeni. 1915-1916: il genocidio dimenticato, Bergamo 2007, pp. 291-292.
9
Ibid., p.292.