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Comprendere le regole che sottendono all’organizzazione motoria
del bambino sano apre la strada per una nuova e migliore
comprensione delle regole con le quali evolve e si sviluppa il
bambino con paralisi cerebrale infantile.
L’obiettivo delle nostre osservazioni è stato quello di cogliere gli
elementi significativi dello sviluppo motorio, in particolare
analizzando lo sviluppo della manipolazione, in quanto una delle
funzioni fondamentali nell’organizzazione neuromotoria del bambino
nel primo anno di vita.
Questa tesi ha lo scopo di dimostrare il modo in cui il SNC lavora
nella costruzione della funzione. Lo sviluppo della funzione parte da
una grande variabilità individuale di possibilità motorie per arrivare a
selezionare la strategia più idonea all’attore, allo scopo e
all’ambiente. Questa ipotesi ci permetterà di dare una diversa
impostazione all’approccio riabilitativo che dovrà essere in grado di
fornire al bambino con PCI molteplici possibilità di movimento e di
azione in modo che lui stesso possa selezionare la modalità a lui più
idonea, efficace ed economica e che quindi rispetti l’organizzazione
del suo SNC.
Lo strumento della videoregistrazione ci ha offerto la possibilità di
catturare situazioni e immagini, di rivisitarle e di rielaborarle nonché
di confrontarle sia in senso longitudinale, cioè nel singolo bambino,
che nei diversi bambini.
L’analisi dei filmati ci ha portato a formulare diversi quesiti ai quali è a
nostro parere necessario dare una risposta affinché possano
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rappresentare dei punti di riferimento nell’osservazione dello sviluppo
della funzione:
Perché è così importante l’osservazione del movimento
normale?
Da cosa origina la variabilità dei comportamenti motori in età
analoghe?
Esistono caratteristiche individuali che possono far presagire
la scelta di una determinata strategia?
Quali sono le variabili (genetiche, fenotipiche, ambientali,
educative, culturali) che possono influenzare la soluzione
adottata dai diversi bambini?
Quelle che vengono chiamate “tappe evolutive” sono
raggiunte uniformemente in epoche prestabilite?
Esiste una sequenza nella presenza e nella scomparsa di una
funzione rispetto ad un’altra?
Ci sono strategie che si ripetono nella costruzione della
funzione di quel bambino e ci sono caratteristiche labili ed
altre stabili?
In quali modi una funzione può esprimersi per soddisfare la
medesima esigenza?
La ricchezza delle immagini, le emozioni degli incontri con i bambini
e l’entusiasmo per le possibili scoperte rappresentano gli spunti per
la formulazione di queste domande consapevoli che queste potranno
essere molte di più, come molte di più potranno essere le risposte.
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Capitolo 1. Che cos’è una funzione
1.1 L’evoluzione del concetto di funzione
Per approcciarsi a questo tipo di studio dovremo partire dal concetto
di funzione, da cosa intendiamo noi ora per funzione e come nel
tempo è evoluto questo concetto.
Il termine funzione, per i ricercatori che hanno esaminato il problema
della localizzazione di una funzione elementare mediante
stimolazione elettrica o lesione di aree corticali lese, significa
funzione di un particolare tessuto. Tutte le funzioni sono
precisamente localizzabili. Tuttavia tale definizione non comprende
tutti i significati del termine funzione. Come osserva il fisiologo russo
Anokin (1949) quando si parla di “funzione respiratoria” tale termine
non può essere riferito ad un singolo tessuto né ad un singolo
apparato. Viene così introdotto il concetto di scopo: lo scopo ultimo
della respirazione è la diffusione attraverso le pareti degli alveoli
polmonari di ossigeno e di anidride carbonica. Perché tale scopo sia
raggiunto c’è bisogno di un complesso apparato muscolare, di un più
complesso sistema di strutture nervose di controllo e perfino della
corteccia cerebrale.
Dove è quindi localizzabile la funzione respiratoria? Nei polmoni, nei
muscoli o nel cervello? È logico che il processo nel suo insieme
viene realizzato non come una semplice funzione ma come un
complesso sistema funzionale. Ne deriva logicamente che la
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localizzazione ad una singola regione cerebrale non è più proponibile
e porta inevitabilmente verso posizioni antilocazionistiche.
Più utile dal punto di vista teorico è la distinzione tra mezzo e fine.
Con il termine fine si indica il processo che porta al raggiungimento
di un determinato scopo. Il termine mezzo invece non si riferisce al
prodotto finale di un particolare processo, ma definisce i meccanismi
e le operazioni attraverso le quali un dato fine è ottenuto.
È importante sottolineare che non ci sono relazioni rigide e vincolanti
tra fine e mezzi in quanto un particolare fine può essere ottenuto
attraverso mezzi diversi e mezzi identici possono portare in differenti
contesti a fini completamente differenti.
Secondo il modello analitico la funzione è invece intesa come una
soluzione operativa messa in atto dal sistema nervoso per poter
soddisfare un determinato bisogno biologicamente significativo per il
soggetto in una definita epoca della sua vita.
La locomozione, la manipolazione, la comunicazione sono funzioni.
Conquistare lo spazio, modificare la realtà del mondo che ci
circonda, ricevere e trasmettere informazioni interagendo con gli altri
sono i bisogni che vengono rispettivamente assolti da queste
funzioni. L’aggettivo adattivo, sapientemente proposto da Sabbadini,
delimita e chiarisce ulteriormente il concetto di funzione come una
soluzione adatta all’attore (il bambino), adeguata al contesto
(l’ambiente e la comunità in cui vive) ed idonea allo scopo che questi
si propone di assolvere, migliorando l’originaria definizione di Anokin
che per primo aveva chiamato funzione “l’unità integrativa centro-
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periferia strutturata dal sistema nervoso per soddisfare un
determinato bisogno biologico”.
In teoria perché si possa sviluppare una funzione occorre prima di
tutto che l’individuo raggiunga la consapevolezza di dover dare
soluzione ad un preciso bisogno, ad una chiara esigenza o ad un
forte desiderio, a patto che esso risulti realizzabile. Occorrono poi
risorse disponibili (repertorio), determinazione a cercare fino a
trovare la soluzione più idonea allo scopo, occasioni per
sperimentare la sua efficacia e modelli offerti dal contesto cui potersi
ispirare. Ma non tutte le funzioni hanno bisogno di questa complessa
combinazione di fattori per potersi sviluppare. Alcune funzioni, in
genere destinate alla sopravivenza o a fornire risposte immediate in
caso di necessità improvvise, sono geneticamente programmate e
risultano perciò sostanzialmente identiche fra un individuo e l’altro.
Tutte le funzioni definite modulari, vengono invece apprese e
adattate progressivamente da ciascuna persona in funzione delle
proprie caratteristiche, delle condizioni imposte dall’ambiente in cui
vive e dai modelli operativi a cui viene esposto. La stessa funzione
apprendimento, che può essere considerata la madre di tutte le
funzioni, è a sua volta funzione geneticamente programmata
destinata a farci conquistare quanto geneticamente non previsto
(Milani).
Limitandoci ad esplorare l’aspetto motorio lo sviluppo del bambino
può essere visto dalla parte delle funzioni (pietre miliari) che via via si
susseguono in relazione al fattore tempo (crescita) o dalla parte dei
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bisogni a cui ciascun soggetto cerca di fornire una soluzione oppure,
meglio ancora, dalla parte degli appuntamenti, epoche in cui ciascun
individuo raggiunta la consapevolezza di un bisogno deve saper
realizzare almeno una funzione in grado di assolverlo
adeguatamente. Non si può dunque giudicare la validità di una
funzione senza considerare lo scopo che essa si propone di
adempiere e l’appuntamento biologico che giustifica il valore di quel
bisogno in quella determinata fase dello sviluppo.
Vi sono quindi funzioni geneticamente programmate e funzioni
cosiddette epigenetiche, la differenza sostanziale sta nel fatto che le
funzioni geneticamente programmate sono caratterizzate dalla loro
pronta disponibilità e dalla loro immediata efficacia, mentre quelle
epigenetiche sono caratterizzate dalla loro grande adattabilità. Le
funzioni geneticamente programmate sono determinanti nel garantire
la sopravvivenza del soggetto in caso di bisogni impellenti. Il loro
limite invece è rappresentato dall’assenza di modificabilità, specie in
relazione alle caratteristiche del contesto ed alle esperienze man
mano acquisite. Nell’uomo le funzioni geneticamente programmate
sono riscontrabili già durante la vita fetale ed al momento del parto.
Sono funzioni pronte all’uso che con il tempo e lo sviluppo di
competenze più adeguate andranno a scomparire per far posto a
“funzioni acquisite” o epigenetiche che rivestono un’importanza
sempre maggiore rispetto alle funzioni geneticamente programmate
che restano comunque attive per tutta la vita nei comportamenti che
eseguiamo per istinto.
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Le funzioni epigenetiche le possiamo definire anche modulari in
quanto vengono costruite partendo da ingredienti aspecifici, appunto
i moduli, che vengono assemblati in funzione dello scopo cercato,
delle caratteristiche del contesto (fisico e sociale) e delle peculiarità
dell’attore. Sono per eccellenza funzioni adattive. Leggere, scrivere,
andare in bicicletta, sono funzioni modulari. Lo svantaggio di non
essere immediatamente disponibili e prontamente efficaci è
compensato in loro dall’estrema adattabilità, poiché vengono
costruite tenendo conto contemporaneamente delle caratteristiche
dell’attore, dello scopo, dell’ambiente fisico e sociale.
Mentre le funzioni geneticamente programmate non possono che
essere estremamente simili se non identiche fra individuo e individuo
le funzioni modulari invece possono essere estremamente diverse da
soggetto a soggetto, senza per questo compromettere la loro
efficacia.
Le funzioni geneticamente programmate esauriscono la loro
importanza con la nascita e l’espletamento dei primi atti psicofisici
perché presuppongono una costanza delle condizioni ambientali che
non può essere assicurata a lungo al di fuori dell’utero. La vita di
relazione comporta infatti il variare continuo delle caratteristiche
contestuali, del comportamento degli adulti e dei coetanei, delle
opportunità concesse dai familiari e delle occasioni fornite
dall’ambiente. Per poter essere competenti, le funzioni della vita di
relazione devono essere modulari.
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1.2 Rapporto esigenza - funzione
Partendo dal concetto generale che ogni essere vivente deve saper
rispondere alle esigenze che l’ambiente gli impone per poter
sopravvivere, non è difficile comprendere come anche l’uomo debba
seguire questa regola.
Le esigenze sono i bisogni ai quali ogni bambino deve dare
soddisfazione in modo adeguato. La presenza delle esigenze fa si
che nel bambino nasca la motivazione a fare.
La motivazione consente di analizzare le azioni che potrebbero
assolvere ad una determinata esigenza e traduce l’esigenza in
azione. La motivazione quindi è l’elemento che sta a metà tra ciò che
il bambino potrebbe fare e ciò che fa. Ciò che noi riusciamo a vedere
è la strategia operativa che il bambino ha scelto dal suo patrimonio di
funzioni per assolvere a quella determinata esigenza in quel
determinato momento.
Di fronte all’esigenza proposta dall’ambiente il bambino è in grado di
sviluppare una funzione cioè lo strumento che gli serve per
analizzare ed assolvere in modo appropriato l’esigenza.
In uno stesso individuo possono essere disponibili varie funzioni in
grado di adempiere ugualmente bene alla stessa esigenza.
Ad esempio quando la necessità è quella di spostarsi si possono
utilizzare diverse funzioni quali strisciamento, gattonamento,
cammino, ecc. ognuna delle quali si può considerare adeguata
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all’esigenza di spostarsi a seconda del momento e della situazione
ambientale in cui viene utilizzata.
Esiste un punto di incontro tra esigenza e funzione che chiamiamo
competenza, che definisce gli appuntamenti dello sviluppo.
Funzione ed esigenza giungono a maturazione nello stesso tempo
per rispettare l’appuntamento.
“Competenza” è il modo di giudicare il rapporto che unisce esigenza
da un lato e funzione dall’altra. Competente è la funzione che
risponde in modo appropriato all’esigenza in relazione alla
situazione, all’età del bambino e ad altre condizioni.
Quindi la stessa funzione, che può essere giudicata competente in
un certo contesto e in una certa situazione, può essere giudicata
incompetente in un altro contesto e in un'altra situazione.
Infatti per rendere competente una funzione non basta l’incontro tra
la funzione intesa come disponibilità geneticamente programmata e
fenotipicamente disponibile all’individuo e l’esigenza alla quale
questa funzione è destinata, ma occorrono altri due elementi: le
possibilità offerte dalla comunità e le occasioni fornite dall’ambiente.
La competenza è il punto di incontro tra la fascia del contestuale e
quella dell’individuale.
Volendo valutare lo sviluppo del bambino secondo questi concetti
non serve tanto misurare la qualità della singola funzione e neppure
la natura delle singole esigenze, ma occorre valutare il modo in cui
quel bambino assolve quella esigenza sviluppando quella funzione.