santificati, sostituirono la gamba in cancrena del loro sacrestano con quella di un morto
di razza mora. La scena è raffigurata da diverse opere pittoriche, ma, naturalmente, la
veridicità di questa storia è improbabile. Essa, come molte altre sul tema e come i
tentativi di trasfusione sanguigna compiuti già dalla fine del Quattrocento, mostra il
desiderio umano di compiere un miracolo del genere, di consentire la continuità della
vita fornendo dall’esterno un ricambio all’organismo (cfr. Scaroina 2005).
Il trapianto di organi è un intervento di microchirurgia finalizzato alla sostituzione di un
organo mal funzionante (cuore, fegato, rene, polmone…) o di una sua parte, ma anche
di tessuti particolari come la pelle, le cornee e il midollo osseo. Per renderlo possibile,
sono stati fondamentali i progressi delle tecniche chirurgiche, immunologiche e dei
metodi di conservazione degli organi. I trapianti di organi solidi, cioè quelli interni che
hanno un chiaro confine anatomico (cuore, fegato, rene, polmone), sono possibili
prelevando l’organo da un donatore cerebralmente morto; tra viventi l’intervento è
realizzabile per alcuni organi doppi, come i reni, e per i tessuti rigenerabili (cfr.
Scaroina 2005). Esistono poi i trapianti di organi artificiali e, ancora non praticati, gli
xenotrapianti di organi e tessuti di animali.
Il primo reale passo in avanti fu compiuto dal chirurgo francese Alexis Carrel che, nel
1902, ideò una tecnica che permetteva di collegare e suturare circolarmente tra loro i
vasi sanguigni con tre punti di appoggio e che fu sperimentata nei trapianti di cuore e
rene tra animali. Nel 1905, in Moravia, ebbe successo il primo trapianto di cornea, un
tessuto non vascolarizzato che, di conseguenza, rischiava meno di essere rigettato. Poi,
negli anni Quaranta, il medico inglese Peter Medawar dimostrò che, per evitare il
rigetto, ricevente e donatore dovevano essere compatibili biologicamente. Per il primo
vero trapianto di organo perfettamente riuscito, bisogna aspettare il 1954 quando, a
Londra, Joseph Murray trapiantò un rene fra gemelli omozigoti da vivente a vivente.
Nel 1963 arrivarono i primi trapianti di fegato e di polmone e nel 1966 quello di
pancreas, ma il più grande evento avvenne nel 1967 a Città del Capo, ad opera di
Christiaan Barnard: il primo trapianto di cuore (cfr. Scaroina 2005). Il paziente morì di
polmonite diciotto giorni dopo, ma era stata accertata la fattibilità dell’intervento (cfr.
Lock 2002). Il fenomeno del rigetto, probabilmente una concausa della morte del
paziente di Barnard, visto che ne soffrì, consiste nel rifiuto dell’organo impiantato da
parte del corpo ricevente, che innesca la reazione del sistema immunitario per
combattere l’estraneo. Negli anni Settanta, grazie alle ricerche dello svizzero Jean
François Borel, si scoprì la ciclosporina, un farmaco immunosoppressivo che permise
un rilevante aumento della sopravvivenza dei pazienti. Commercializzata nel 1983, essa
consente il blocco dell’attività dei linfociti T, a cui è dovuto il rigetto, senza
pregiudicare le altre difese immunitarie (cfr. Scaroina 2005).
Negli ultimi anni i trapianti sono diventati interventi di routine, ma ciò non significa che
alla base non vi siano meccanismi estremamente complessi che li rendono possibili: dal
lavoro degli operatori sanitari alle strutture, alle istituzioni sanitarie, sociali e politiche.
Sul piano umano e culturale, la nostra mentalità deve essere mutata per accettare con
naturalezza questo tipo di intervento. Chi deve subirlo si trova davanti a un bivio tra vita
e morte in ogni fase del procedimento, dalla decisione all’operazione stessa, fino al
decorso postoperatorio: l’esito non è mai certo e le condizioni di vita dopo l’intervento
potrebbero deludere le aspettative. L’attesa può essere breve, ma anche lunga e
snervante, sia per il paziente che per la sua famiglia. Nonostante la donazione volontaria
sia incoraggiata per il pubblico interesse, dappertutto si lamenta la scarsità di organi
rispetto alla grande richiesta. Sapere che la speranza di farcela esiste, ma che forse non
la si potrà sfruttare a causa delle lunghe liste d’attesa, può portare ad atti illegali i
pazienti più benestanti, favoriti dalla mancanza di strutture coordinate
internazionalmente che controllino questo tipo di traffici. L’antropologa Nancy
Scheper-Hughes, fondatrice dell’associazione “Organs Watch”, che si occupa delle
violazioni dei diritti umani nella raccolta e nella distribuzione degli organi, chiama
questo fenomeno “turismo dei trapianti” clandestini e dice che gli organi seguono
gradienti di disuguaglianza (cfr. Scheper-Hughes 2001, 2004a, 2004b). I fornitori sono
paesi piuttosto poveri e, a seconda delle condizioni economiche locali, il prezzo si
abbassa o alza. Questa mercificazione di parti corporee appare ripugnante perché sfrutta
il bisogno di persone senza mezzi, ma anche perché appare eticamente inaccettabile che
si possa considerare il corpo una qualsiasi proprietà materiale che può essere smembrata
e dotata di un prezzo.
Sia che la donazione avvenga ex vivo, sia che si proceda ex cadavere, si crea uno stretto
legame tra due corpi, uno dei quali diventa fonte di pezzi di ricambio, può essere diviso
per ricreare un’insieme compatto nell’altro corpo. Il ricevente dipende da un dono e
dalla solidarietà del donatore, spesso un estraneo, quindi da una precisa scelta di vita,
anche nella morte. Una persona sana che deve decidere se acconsentire o meno
all’asportazione dei propri organi una volta che sarà dichiarata cerebralmente morta sa,
al giorno d’oggi, che la donazione volontaria è considerata un’azione estremamente
nobile dalla società. L’espianto del cuore deve avvenire di preferenza quando esso è
ancora pulsante e organi come i reni possono subire lesioni dovute ad anossia se estratti
dopo del tempo. Per la sua pionieristica operazione, Barnard utilizzò il cuore di una
donna in stato di coma irreversibile, dando così il via ad una rivalutazione del corpo dei
pazienti in quelle condizioni e, soprattutto, ad una manipolazione culturale fortissima
del concetto di morte. Anche se non vi era traccia di funzioni cerebrali, anche se il cuore
continuava a battere solo grazie a un respiratore artificiale, il nuovo criterio per
decretare la morte ha sollevato, e solleva tuttora, molti dubbi etici. La nuova definizione
di “morte cerebrale” venne elaborata nel 1968, dopo che Barnard dimostrò che i
pazienti tenuti in vita artificialmente potevano divenire fonte di benessere e vita per
persone in attesa di una possibilità. La connessione tra questi eventi non può non
risultare evidente (cfr. Favole 2003).
Il ruolo fondamentale della tecnologia medica nella nostra società ha avuto conseguenze
sui valori condivisi, sulla concezione dei confini tra vita e morte, del nostro corpo e
dell’influenza dello Stato su di esso. Ciò vale a maggior ragione per una pratica densa di
significati e ripercussioni socioculturali come quella dei trapianti. Soprattutto negli Stati
Uniti, l’antropologia si è ritagliata uno spazio importante nei dibattiti sull’argomento tra
medici, economisti, bioetici e giuristi (cfr. Scheper-Hughes 2001). Obbiettivo di questa
tesi è mostrare che l’introduzione della tecnica dei trapianti di organi ha provocato una
riconfigurazione culturale dei concetti di vita, corpo (esistenziale, sociale e politico),
persona e morte. Ha avuto anche, come effetto collaterale, la diffusione di commerci
illegali e correlati sfruttamenti ai danni di categorie deboli e sottovalutate, come donne,
poveri, bambini di strada, criminali e persone sentite come diverse a causa di differenze
etniche e pregiudizi (cfr. Scheper-Hughes 1996, 2001, 2004a, 2004b; Cohen 2004). In
alternativa, i malati possono seguire la rotta inversa rispetto agli organi commerciati e
praticare il cosiddetto turismo medico, che offre a un prezzo vantaggioso sia gli organi
sia l’operazione (cfr. Scheper-Hughes 2001, 2004a, 2004b). Infine, è opportuno
precisare che, con queste riflessioni, non si vuole mettere in dubbio l’estrema utilità dei
trapianti o svalutare il dolore e l’angoscia di chi è in attesa di subire questo intervento e
dei suoi cari.
CAPITOLO PRIMO
Il problema del confine tra vita e morte
La morte biologica fa parte senza dubbio del destino dell’uomo ed è naturale che, in
ogni tempo, egli abbia creato elaborazioni concettuali di carattere magico-religioso,
filosofico e scientifico che potessero dare un significato al fenomeno e renderlo più
accettabile per il singolo e per la società intera. Secondo la maggior parte dei pensatori
moderni e contemporanei, soprattutto in Occidente è diffusa una sorta di negazione
della morte. Secondo lo storico francese Philippe Ariès (1989, 1997), almeno fino al
tredicesimo secolo la morte in Europa era “addomesticata”, si accettava anche grazie
alle credenze religiose e, a partire dal Medioevo, crebbe la consapevolezza della propria
condizione individuale di essere mortale. Solo dopo l’Illuminismo, col crescere della
fiducia nella scienza e nella razionalità, si iniziò a considerare la morte un qualcosa di
estraneo, da sfidare, un tabù. La posizione di Sigmund Freud (1939, 1959) è
emblematica: l’uomo non può evitare di ammettere l’esistenza della morte biologica,
ciononostante nel suo inconscio rifiuta la propria mortalità e, quindi, una reale
conoscenza della morte. All’inizio degli anni Novanta, Zygmunt Bauman (1992) ha
ripreso ed elaborato le riflessioni di Freud, alla luce anche di comuni conclusioni tratte
da altri studiosi europei. Essere consapevole della propria finitudine è una prerogativa
riservata all’essere umano, ciò che dà significato alla sua vita e lo spinge all’azione, alla
creatività culturale. La conoscenza della morte sfugge perché si potrebbe acquisire
veramente solo per esperienza diretta, non da spettatori, ma questo mette in crisi la
nostra ragione e favorisce una cultura di negazione della morte, attraverso la ricerca
della permanenza. La società contemporanea, secondo Bauman, adotta
contemporaneamente due diverse strategie per affrontare la morte. La prima consiste nel
combattere quotidianamente ed in prima persona le minacce, prendendoci cura del
nostro corpo ed imparando a valutare ed affrontare responsabilmente i rischi.
L’obbiettivo è espandere il più possibile i limiti naturali dell’essere, avvalendosi dei
mezzi forniti dal progresso culturale raggiunto e sempre in crescendo. La seconda tattica
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consiste nel familiarizzare con la morte, considerando i rischi un azzardo che rende più
stimolante la vita. In tale modo, ogni giorno si sperimenta la caducità di tutto ciò che fa
parte del nostro mondo e ci si assuefa, si prova meno paura. La lotta con la morte, nella
visione di Bauman, è prettamente materiale, perché riguarda il corpo, e dipende in
particolare dall’evoluzione del sapere medico. Conservare la propria salute diventa un
compito e un merito personale, mentre le cause di disagio e malattia dipendenti dalla
società passano in secondo piano.
1.1 Antropologia della morte: corpo, riti, credenze
L’antropologia nasce dal confronto e dai rapporti tra culture diverse, dalla volontà di
valicare i limiti che le separano. La morte, che rappresenta l’ultimo confine, comune a
tutti gli esseri umani, appartenenti a qualunque società e cultura, ha interessato da
sempre gli antropologi (cfr. Favole 2003). Eppure l’argomento, perlomeno fino a tempi
recenti, non è stato analizzato a fondo come si sarebbe potuto: l’antropologo Renato
Rosaldo (1984, 2001) ha notato scarsa attenzione per le emozioni delle persone in lutto,
così come si sono quasi sempre trascurati i sentimenti che caratterizzano le fasi del
morire. A metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, l’antropologo britannico
Geoffrey Gorer (1956) affermò che, nel XX secolo, la morte per l’Occidente
rappresentava un tema di cui non era conveniente parlare e la paragonò al sesso nei
secoli precedenti. Nei periodi storici in cui vi era stato un alto tasso di mortalità, l’uomo
comune aveva familiarità col fenomeno, assisteva a decessi, mentre oggi la morte
sarebbe un’esperienza privata e nascosta.
Nello studiare i sistemi orchestrati dalle società per far fronte ad essa, gli antropologi
hanno focalizzato l’interesse su tre aspetti strettamente collegati (cfr. Favole 2003). Il
corpo rappresenta la morte materialmente, ma è anche il luogo della vita ed è quindi
rivestito di enorme valore culturale. Studiare come un gruppo sociale si occupa dei
cadaveri è utile per comprendere le concezioni riguardanti non solo il corpo, ma anche
la vita, il suo termine e l’intera società. Le credenze che riguardano ciò che sarà del
defunto sono base e motore di pratiche volte a superare la perdita che, pur costituendo
sempre un trauma, cresce di gravità se il soggetto ha una posizione, una funzione
sociale maggiori e se la società è relativamente piccola. Nella maggior parte dei casi, gli
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studiosi hanno privilegiato uno dei tre aspetti, soprattutto i riti e le credenze. Se la morte
rappresenta un tabù nella società cui l’antropologo appartiene, egli potrebbe trovare più
agevole partire dagli elementi più familiari e si può pensare che se, come notò negli
anni Settanta Johannes Fabian (1973), l’antropologia ha a lungo trascurato lo studio
della morte in Occidente, il motivo è proprio questa inibizione. Inoltre, un problema che
si è posto è stata la riservatezza che comunque circonda momenti come la morte e la
nascita, anche nelle società “altre”. Nella maggior parte dei casi, nella circostanza in cui
si appresta al distacco da questo mondo, l’individuo è attorniato dagli intimi, dalla
famiglia, mentre la comunità torna in scena in seguito. È quindi molto difficile per
l’antropologo compiere la ricerca sul campo che sarebbe sentita dai nativi come
un’intrusione in un momento delicato. In particolare negli anni Settanta, il mondo
occidentale iniziò a prendere coscienza della propria chiusura davanti alla morte e gli
storici francesi, tra cui Philippe Ariès, compirono studi che contribuirono a favorire
nuove ricerche antropologiche sull’argomento (cfr. Favole 2003).
Percorrendo la storia dell’antropologia (cfr. Fabietti 2001) secondo l’evoluzionista
Edward Tylor (1985) i primi uomini, riflettendo sul fenomeno del sognare, avrebbero
concluso che ciò fosse possibile solo grazie ad uno sdoppiamento, cioè all’anima, che
poteva esistere indipendentemente dal corpo, perciò anche dopo la morte. In seguito,
riconobbero come dotati di spirito anche animali, oggetti, piante, dando quindi ai
fenomeni naturali una spiegazione diversa da quella dell’uomo razionale moderno. Nel
suo percorso evolutivo, l’uomo aveva acquisito nuove conoscenze e il concetto di
animismo era tornato ad indicare l’esistenza dell’anima umana. L’idea di un’evoluzione
progressiva della razionalità permetteva di collegare i più importanti argomenti trattati
in quel periodo, la religione e la magia. James Frazer (1990), a fine Ottocento, ipotizzò
che in un primo tempo l’uomo fosse all’oscuro della natura e delle cause dei fenomeni
che poteva osservare, e che cercasse attraverso la magia di dominare e gestire la natura.
In una fase successiva, alcuni uomini tentarono di attirarsi la benevolenza delle potenze
naturali viste come divinità, avvalendosi di un tramite, il sacerdote. Ecco, quindi,
l’origine della religione, che apparve però un mezzo meno potente del previsto,
inducendo altri uomini a percorrere nuove vie. Nel terzo stadio della storia umana,
infine, ci si concentrò nella ricerca delle leggi naturali attraverso l’osservazione e la
sperimentazione. L’importanza del pensiero religioso, quindi anche delle credenze
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riguardanti il destino dell’anima dopo la morte, stava nel considerarlo erroneamente un
passaggio intermedio tra magia e scienza (cfr. Huntington e Metcalf 1985). Nella stessa
opera del 1890 in cui sostiene questa teoria, Il ramo d’oro, Frazer analizza la presenza
di simboli di sessualità, fertilità e rigenerazione nei riti funebri di molte società, ad
indicare che la morte consente la rinascita. In particolare, questo è evidente nella pratica
del regicidio rituale, dove il caos che segue funge da base per il rinnovamento
dell’ordine sociale e cosmico. Recentemente Maurice Bloch e Jonathan Parry (1982)
hanno affermato che la pratica ampiamente diffusa del sacrificio è volta a riprodurre il
bene limitato della vita, poiché questa è strettamente connessa alla morte.
Fondamentale per la storia dell’antropologia della morte è l’apporto del francese Robert
Hertz, allievo di Durkheim che si basò per i suoi studi sulle informazioni riportate da
missionari, studiosi i e viaggiatori riguardo alle popolazioni dell’Indonesia e del
Madagascar. Nel 1907, nel saggio Contributo a uno studio sulla rappresentazione
collettiva della morte, Hertz (1994) partì dal presupposto che la morte rivestisse un
profondo significato sociale e che le credenze dei primitivi su di essa fossero delle
rappresentazioni collettive, cioè processi mentali comuni a tutti gli appartenenti a una
società, riguardanti i valori primari. La morte è un cambiamento e rappresenta un
pericolo per la continuità della vita sociale, per cui i rituali soddisfano un bisogno
preciso: confermare l’ordine. Secondo Hertz, se il singolo è destinato a morire, la
società non accetta di dovere scomparire. I rituali legati alla morte consentono di
risolvere il paradosso che interessò tanto anche Freud, quello della discontinuità della
vita individuale e della continuità dell’ordine sociale (cfr. Lock 2002). La società vive
nei suoi membri a cui dona un’identità, ad alcuni socialmente più importante che ad
altri, perché incarnano il gruppo. La morte, in una società tradizionale, non è ritenuta un
fenomeno naturale, ma si pensa che sia provocata da qualcosa di negativo e di
spirituale, che può dipendere sia da un incantesimo sia da una maledizione che il
defunto o la comunità si sono attirati. Ecco perché il gruppo deve combattere la
minaccia alla propria coesione, accompagnando il suo membro durante la transizione
verso il mondo dei defunti e degli antenati. Il corpo è un simbolo che veicola significati
morali e sociali, perciò richiede molte attenzioni e va maneggiato con cura, anche
perché comporta materialmente il rischio di contagio. Hertz mise in relazione corpi, riti
e credenze senza porre l’accento su uno dei tre elementi. Nelle società da lui prese in
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