Affronterò quindi un’esperienza processuale e plurale che ho deciso di rappresentare
attraverso le immagini dell’incontro mancato e del décalage (sfasamento, non-
corrispondenza). La Chiari spinge infatti chi la vive in una frizione tra mondi di senso che
apre uno spazio analitico nel quale sono entrato per cercare di considerare la paternità
sociale di una sofferenza non direttamente generata dalle resistenze biofisiche (Schutz:
1979; Jackson: 1994). L’incontro mancato è una relazione dialettica e socialmente
informata che ci spinge a guardare l’esperienza di malattia come a una complessa
esperienza resa possibile da un intreccio di istanze individuali, culturali e biopolitiche.
Ho cercato di non trasformare la sofferenza in qualcosa di diverso dall’esperienza
(Kleinman e Kleinman: 1991), un rischio sempre latente quando si tratta di creare una
rappresentazione coerente di un divenire caotico che non si arenerà mai nelle reti del
pensiero. Chiari è una modalità di essere nel mondo che mette in luce ampi processi
sociali e politici coinvolti nelle epistemologie sulle quali si fonda la nostra condivisa
esperienza della verità e dell’efficacia biomedica riguardo le sue diagnosi e le sue terapie;
è un evento che si impone negli interstizi del movimento esistenziale e che genera
traiettorie di sofferenza relazionali. Le relazioni non reciproche che vedremo qui
affrontate coinvolgono contemporaneamente il rapporto con il proprio corpo, con il
mondo morale locale (Kleinman: 1992) che accoglie la nostra variazione della presenza e
con il campo medico che custodisce le istanze di efficacia, cercando di interrompere la
variazione attraverso i suoi strumenti, veicolo di una precisa επιστήμη1 del segno. La
resistenza biofisica metterà quindi in luce ciò che è condiviso, ovvero una determinata
idea di ordine, evocata nell’emergere di un disordine del corpo (Becker: 1997).
Rimanere “attaccati” al movimento esistenziale vuol dire evitare, per quanto possibile,
le oggettivazioni accademiche di un’esperienza che direziona il divenire, nell’hic et nunc.
L’approccio fenomenologico è stato quindi il mio compagno di interpretazioni sempre
aperte e non ancora concluse, insieme a una prospettiva propria dell’antropologia volta a
considerare il ruolo delle epistemologie condivise nel definire la modalità del “qui e
adesso”. Perché il problema è che l’hic della crisi evoca una rappresentazione di un hillic
condiviso, di un “poter essere” che prima era e che si spera tornerà ad essere. Il “dover
essere” non è un’invenzione individuale, ma la risposta creativa a un’egemonia condivisa.
Non c’è concetto che possa prevedere la scelta creativa di un individuo che si orienta in
una condivisione che può sempre essere oggetto di re-invenzione e resistenza. Si tratta
quindi di accedere a una variazione dell’attenzione che la malformazione di Chiari
1Επιστήμη.
6
provoca, nel suo generare l’inizio di una epoché del dubbio (Schutz: 1979) nei confronti
dei sistemi di verità che informano l’oscurità del nostro corpo e le egemonie che esso
ospita, nel silenzio del suo recedere (Leder: 1990).
Ho avuto il privilegio di accedere ad alcune narrazioni dal corpo di alcuni Chiariani
che si sono resi disponibili a condividere le loro traiettorie esistenziali, entrando in uno
spazio condiviso con me per la creazione di un senso, di una direzione interpretativa che
potesse significare la loro esperienza di sofferenza. L’esperienza del corpo è l’orizzonte di
senso che ospita questa frizione ed è attraverso il paradigma dell’incorporazione (Csordas:
1990) che si vorrebbe rendere conto di un’interruzione della complicità che lascia
emergere cosa si condivide e che cosa viene oscurato. Ma avvicinarsi solo
fenomenologicamente al corpo variato pone un rischio individualizzante e de-
storicizzante che vorrei cercare di eludere. L’esperienza è qui e adesso, ma anche altrove.
Per rendere conto dell’emergere di una variazione sintomatica dal corpo e del suo
proiettare esistenze in un mondo progressivamente sfasato, si impone la necessità di
comprendere che cosa viene detto del corpo, lasciando parlare le mappe di riferimento
che determinano nel campo biomedico le traiettorie delle esistenze private dei Chiariani.
C’è una dialettica inseparabile tra il campo biomedico – le sue definizioni espistemiche
circa che cosa è vero e che cosa no, che cosa è efficace e che cosa non lo è – e
l’esperienza sofferente che si cela nei percorsi dell’esserci, generata da una resistenza
biofisica.
Nel I Capitolo affronterò quindi il sistema di senso appartenete al campo biomedico
circa questa malformazione, per lasciare emergere due ordini analitici: il primo legato a
una spiegazione della patologia, il secondo volto a mettere in luce il ruolo di uno sguardo
cadaverico sul corpo vivo (Foucault:1969) nelle esperienze di sofferenza. Nel II Capitolo
vedremo invece affiorare esistenze narrate, ma non narrativizzate. I corpi di Thea, Elisa,
Charlotte, Daniele e Sophie – principalmente – ci lasceranno entrare nel loro décalage o,
almeno, nella rappresentazione linguistica di questo sfasamento corporeo e relazionale. Di
queste due frizioni tra mondi si renderà conto attraverso i concetti di dys-state (Leder:
1990) e dys-alterità, entrambi dispositivi analitici che mi sembra riescano a farci
percepire una dissonanza continua tra un mondo dove il corpo silente ma non muto inizia
a parlare e un mondo morale locale informato dall’επιστήμη del segno: si crede a ciò che
si vede e Chiari non si vede molto facilmente. La “nuda diagnosi” che il mondo morale
locale invoca ci introdurrà al III Capitolo, legato a un ulteriore décalage avente luogo
nell’egemonia condivisa del campo biomedico. Le traiettorie diagnostiche, gli interventi
7
chirurgici, le esclusioni e le partecipazioni attive in questo campo da parte dei Chiariani
saranno tematiche dell’ultimo capitolo.
In questo lavoro si incrociano diversi percorsi esistenziali, tra cui il mio, ma nessuno di
questi può render conto di un’astratta “esperienza Chiari”. Quanto segue è infatti un
insieme di frammenti che appartengono ad alcune esistenze, emersi in alcuni incontri
specifici avuti con me. Se dovessi rifare questi incontri, probabilmente scriverei alcune
riflessioni in modo diverso o rivaluterei la mia posizione riguardo alcune prospettive.
Presento quindi un insieme di evocazioni esistenziali specifiche e situazionate, attraverso
quello che Bergson definiva “metodo cinematografico”: la realtà è movimento continuo e
il linguaggio analitico una successione di “istantanee” che solidificano in immagini
discontinue la «continuità fluida del reale», che fissano delle «prospettive stabili
sull’instabilità» (in Severino: 1996). Ho cercato di non creare archetipi culturali a partire
da «dettagli sempre confusi e incerti, di un resoconto personale di malattia» (Kleinman e
Kleinman: 2006: 208), ma di stare ad ascoltare il suono del movimento esistenziale e i
suoi richiami a una più ampia dialettica sociale. La sofferenza come prodotto di una
frizione intersoggettiva tra mondi significanti permette una rappresentazione linguistica
del flusso emergente esperienziale che ci informa di alcune esistenze, del loro dolore e
della loro sofferenza, rendendoci consapevoli che tra una malformazione biofisica e la
sofferenza che essa genera si crea uno spazio culturalmente informato, che permette
alcune riflessioni sulle epistemologie determinanti la nostra concezione del corpo e su chi
detiene, con il nostro consenso, l’efficacia della sua guarigione.
Mi permetto di introdurre questo lavoro utilizzando l’incipit di Pierre Bourdieu, nella
sua avvertenza al lettore in un testo corale dedicato alla sofferenza: «Nous livrons ici les
témoignages que des hommes et des femmes nous ont confiés à propos de leur existence
et de leur difficulté d’exister» (1993: 1).
8
CAPITOLO I – VEDERE SINTOMI, VIVERE SEGNI
Una clinica dei sintomi cerca il corpo
vivente della malattia, l’anatomia non
gliene offre che il cadavere.
(M. Foucault, 1969: 146)
1.1. Il flusso emergente dell’esperienza
Prima di affrontare una traduzione linguistica, pur sempre parziale, dei percorsi di
variazione della presenza attraversati dai Chiariani2, mi sembra necessario soffermarmi su
questa malformazione accedendo alla provincia di senso abitata dal linguaggio
biomedico. Questa mia premura potrebbe essere giustificata da una duplice
argomentazione: prima di tutto occuparsi di esperienza della sofferenza vuol dire,
seguendo Arthur e Joan Kleinman, «prendere le mosse dalla fondamentale caratteristica di
cosa è pertinente in generale a livello pratico nei processi e nelle forme dell’esperienza. Il
che sta a significare che c’è in gioco qualcosa» (2006: 201).
Più mi sono addentrato nel vissuto dei sofferenti, più mi sono accorto che il sistema
diagnostico-terapeutico proposto dalla biomedicina3 costituiva un elemento
imprescindibile per poter capire cosa c’era in ballo, che cosa assorbiva l’attenzione delle
presenze che ho incontrato a livello pratico, quotidiano ed esistenziale. Parlare con un
Chiariano senza essere in grado di affrontare in modo disinvolto una discussione con un
linguaggio medico vorrebbe dire perdersi qualcosa rispetto a questa specifica forma di
esperienza che è proiettata nel mondo significante della biomedicina così come in quello
della vita.
Lo status dell’esperienza porta alla mia seconda motivazione, sempre con l’ausilio dei
coniugi Klienman (ivi): l’esperienza è «il prodotto di categorie culturali e strutture sociali
che interagiscono con processi psicofisiologici attraverso cui viene costruito un mondo di
mediazione. L’esperienza è il flusso vissuto di quel medium intersoggettivo» (ivi: 203).
L’emergere del flusso esperienziale risulta quindi come irrimediabilmente immerso in una
processualità dialettica che coinvolge entrambe le traiettorie, che non sono mai solamente
2
Il termine, dopo numerosi scambi con loro, sembra essere quello meno fastidioso (si pensi a malati,
ammalati, sofferenti…), anche se il termine pazienti rimane uno dei più ricorrenti.
3
Per una spiegazione di questo termine si veda Pizza: 2005: 125-154
9
sociali, mai solamente biologiche e che informano l’evento vissuto individualmente e
socialmente: risultano essere due movimenti che definiscono contemporaneamente il
nostro essere-al-mondo (Merleau-Ponty: 1945). Il mio porre l’attenzione su questo primo
movimento del flusso emergente, oltre a cercare di mettere in luce “di che cosa si sta
parlando” in termini biomedici, non cerca di legittimare una lettura dell’evento patologico
in termini esclusivamente appartenenti al linguaggio empirista della medicina (Good:
1999), quanto piuttosto vederne il suo ruolo, mettere in luce quello che produce (Young:
1982) e considerare in che modo collabora alla generazione di quel flusso emergente che è
l’esperienza.
Non ho compiuto una vera e propria ricerca etnografica riguardo al campo medico4 che
si occupa di questa malformazione: si è trattato piuttosto di leggere criticamente la scarsa
letteratura al riguardo, partecipare a conferenze, guardare filmati di interventi chirurgici e
di conferenze internazionali; ho avuto pochi e brevi colloqui con neurochirurghi e ho così
cercato anche di ricostruire la loro prassi clinica, diagnostica e terapeutica attraverso le
esperienze dei pazienti stessi, il “vociare dei corridoi” ai confini del campo e i riscontri
reperibili in rete. Questo implica un’inevitabile frammentarietà e incompletezza di quanto
verrà affrontato (non costituendo questo primo movimento il focus tematico del mio
lavoro). Esorto dunque chi legge a considerare quello che segue come un insieme, a volte
superficiale, di traiettorie di senso emergenti, di accenni al pluralismo della prassi, di
aperture verso altri lavori possibili, di evocazioni significanti che permetteranno, in ogni
caso, di avere un’idea più specifica della confusa realtà che i Chiariani attraversano nel
momento stesso in cui si accingono ad affrontare i percorsi diagnostici e terapeutici
proposti dal campo medico.
Parlo di confusa realtà in quanto il campo medico – che è stato da me considerato
come uno spazio socialmente informato, prodotto e riprodotto dalla prassi medica – è
plurale ed eteroglotto, come ogni articolazione locale di un sistema interpretativo
direzionato all’azione (Pizza: 2005). Nonostante l’evidente compresenza di voci e
narrazioni divergenti, senza lasciarmi eccessivamente corteggiare da una prospettiva post-
strutturalista non attenta all’agency, mi sembra di aver colto un ricorrente e diffuso
sguardo proprio di un atteggiamento epistemico e retorico (Gordon: 1988) al quale si
riferisce la biomedicina, un continuo emergere offuscato del cadavere foucaultiano
(Foucault: 1969) che a tratti sembra sovrapporsi al corpo vivo che viene guardato. La
4
Mi riferisco qui al concetto di campo, inteso come «uno spazio sociale entro il quale agiscono specifiche
istituzioni, regolato da rapporti di forza entro i quali operano gli agenti che abitano quel campo» (Bourdieu
in Pizza: 2005: 145.
10
breve esposizione narrativa che segue cerca così di lasciare trasparire a intermittenza
un’επιστήμη riduzionista che probabilmente è complice di alcuni processi generativi della
sofferenza nel suo lasciar ricadere una natura morta sul corpo vivo (Young:1999). La
stessa bio-riduzione, come sappiamo, rappresenta anche la nervatura dell’efficacia propria
dell’intervenire bio-meccanicamente sul corpo vivente; proprio per questo non si cerca
qui di negare questa efficacia o di renderla una semplice prospettiva interpretativa:
l’intervento meccanico-chirurgico genera un insieme di risultati efficaci (o, almeno, così
dovrebbe essere) in termini bio-meccanici (Martin: 1992).
Mi sono quindi addentrato in un mondo di senso generato da pratiche e sguardi plurali,
in un mondo che non può essere ricondotto ad un unico sguardo: perché l’επιστήμη che
soggiace all’azione può essere contraddetta, smorzata, rinforzata dalla pratica medica
stessa, situata e localizzata in uno specifico incontro, con uno specifico paziente (Pizza:
2005). Il pluralismo medico mi sembra però comunque attraversato tutto da quello che
Byron Good (1999) definisce un sistema significante empirico ed empirista, che separa il
linguaggio dalle “cose”, i segni dai sintomi, un linguaggio dove «il significato viene a
costituirsi attraverso il legame referenziale tra gli elementi del linguaggio e quelli del
mondo naturale» (ivi: 16) e questo mi ha creato non poche difficoltà: mi sono infatti
ritrovato davanti a un linguaggio referenziale e proprio per questo efficace. Il
riduzionismo biomedico nel suo essere nominalista (ivi: 15) offusca l’insieme di “giochi
linguistici” ai quali appartiene, cercando di eliminare l’effetto di essere una semplice
forma di vita (Wittgenstein: 1983), fuoriuscendo dall’interpretazione e arroccandosi nella
descrizione referenziale. Nel suo riferirsi solo a se stesso è riuscito non poche volte a
stimolare il mio linguaggio referenziale latente, un mio habitus che pensavo essere stato
in grado di decostruire ma, come si sa, l’habitus si attiva e si disattiva seguendo gli
“effetti del campo” (Bourdieu: 1992), generando processi di pertinenza: suppongo di non
aver mai avuto modo di notare l’attivazione di questo habitus epistemico latente se non
adesso, nel momento in cui è necessario prendere la distanza dal campo, per metterne in
luce le traiettorie di produttività (Young: 1982).
Il linguaggio empirico, che quindi è anche habitus epistemico, si fonda, di fatto, sulle
dicotomie che hanno tracciato la storia delle nostre articolazioni e incorporazioni socio-
culturali (Gordon: 1988) e questa tensione intellettuale, che ho provato e che ancora
provo, mi ha rivelato quanto sia presente, almeno per me, una continua ricerca di una
risposta oggettiva, definitiva, descrittiva più che interpretativa e quanto sia difficile
spingere nelle province di legittimità una prospettiva processuale, articolata, non-
11
dicotomica. Ho dovuto quindi continuamente cercare di dis-impregnarmi da questo effetto
di ritorno del campo che definirei di medicalizzazione egemonica5, di incorporazione
della supremazia del segno, dalla quale non mi sento esente.
Dal mio diario di campo:
Oggi ho parlato alla consensus conference [Milano, 2009], davanti ai neurochirurghi che mi
ascoltavano distratti. Mentre parlavo di rapporti tra “mappe e territori”, di dimensioni socio-
culturali, ho sentito come una fitta nel petto. Iniziavo a chiedermi quale fosse l’efficacia di
questa prospettiva, quali fossero le proposte reali e concrete. Mentre parlavo e cercavo di
aprire spazi critici di senso, guardavo medici che erano in grado di aprire un cranio e ridare
respiro alle tonsille cerebellari, io cosa proponevo? Un modo diverso, magari anche carino,
di dare nomi alle cose. Intanto loro cercano di ristabilire il circolare del flusso
cerebrospinale. Qual è la nostra proposta? Di certo non quella di essere efficaci.
La spinta per fuoriuscire da questa stagnante epistemologia “ingenua” (Good:1999) che
attiva uno sguardo cadaverico sul corpo vivo emerge con forza nel momento in cui si
decide di ritornare al “campo”, rientrare nel flusso emergente di un’esperienza sofferente,
ritornare a chiedersi che tipo di modalità esistenziali produce questa efficacia e in che
modo l’efficacia stessa si ritrova a partecipare ai processi generativi della sofferenza
individuale e sociale. Tutto ritorna così a farsi linguisticamente più confuso e quindi
esperienzialmente più chiaro, più vicino ai processi di emergenza dell’Io nel mondo.
Provo ad affrontare questo sguardo cercando di non incedere in un mero culturalismo,
come di non lasciarmi affascinare da un linguaggio descrittivo e referenziale, dal
momento che «se non esiste un corso puramente “naturale” della patologia, non può
nemmeno esserci una sintomatologia puramente culturale» (Kleinman e Kleinman: 2006:
208). Si tratta di rimanere in entrambi, coscienti che «both “biology” and “culture” […]
are forms of objectification or representation. Thus a first goal is to suspend our reliance
on both – or perhaps to suspend our description between them – in favour of an
experiential understanding of being-in-the-world.» (Csordas: 1994: 269).
5Nella parte successiva del lavoro penso che sarà sempre più adeguata la definizione gramsciana di
“egemonia”, che tratterò quindi in seguito.
12