questa ideologia nelle trame mediatiche. Nell’Egitto di Nasser
è ravvisabile il pieno riconoscimento del potere dei media e il
loro impiego a scopo propagandistico in sostegno ad un regime
guida nella regione araba. Con la radio Voice of the Arabs e il
colossale impianto mediatico realizzato da Nasser, l’Egitto si
colloca tra i paesi che fanno un uso “mobilitativo” dei media;
mentre, sino agli anni Settanta, l’altra grande potenza araba,
l’Arabia Saudita, rimane a livelli mediatici molto più moderati,
collocandosi nella categoria dei paesi “governamentali”.
Tuttavia questi assetti sono destinati a mutare: l’Egitto
rivolgerà un “attacco” mediatico al prestigio saudita, portando
la monarchia a dotarsi di più efficaci strutture mediatiche.
Successivamente, con l’esclusione dell’Egitto dalla Lega araba,
la casa saudita arricchita dai “petrodollari”, avvierà un
colossale progetto mediatico con lo scopo di soppiantare lo
storico dominio culturale ed artistico egiziano. Il potenziale
economico adoperato per questo progetto, risente tuttavia dei
forti condizionamenti religiosi e culturali applicati dai vertici
religiosi alla produzione artistica e alle germinazioni culturali;
tali condizionamenti, infatti, non possono non affliggere anche
la produzione televisiva, che dovrà nutrirsi di figure
professionali e contributi creativi ricercati all’estero.
La Guerra del Golfo del 1991 sarà il terreno di battaglia anche
per i nuovi network panarabi a marchio saudita. Durante la
copertura di questo conflitto, infatti, la posizione di monopolio
dell’americana CNN testimonia non tanto l’impreparazione dei
canali arabi a coprire un evento del genere, quanto la forza
ancora condizionante del potere politico sulle scelte
informative dei media arabi. Con la guerra del Golfo e la
diffusione del satellitare si apre per i paesi arabi una nuova
preoccupazione mediatico-politica: sul piano delle cronache
interne, il mondo arabo si scopre sprovvisto di una propria
“unità di visione”, prodotta e diffusa “in casa” e che possa
2
arginare l’incalzante voce occidentale che pretende di
raccontare agli arabi ciò che accade in casa loro. I massicci
investimenti sui network televisivi sono quindi la prima
risposta che il mondo arabo elabora per contrastare l’avanzata
mediatica occidentale ma, pur nel creare un’offerta interna ed
autoctona, gli investitori sembrano perdere di vista ciò che
costituisce la vera falla dell’offerta mediatica araba:
l’informazione. Genere del tutto escluso da alcuni canali,
affrontato in modo tradizionale e protocollare da altri, le news
sono il tallone d’Achille dei network panarabi nella metà degli
anni Novanta; così, anche nei media che tentano di rinnovarsi,
l’informazione continua ad essere un’appendice alla ragion di
stato. Questa è la realtà dei network panarabi sino ad un nuovo
equilibrio, frutto di uno strappo innovativo ed ardito; a segnare
questa nuova realtà è uno stato arabo nel quale opera un canale
che fa informazione araba, ma non protocollare.
Questa è la portata innovativa segnata dall’arrivo di Al Jazeera,
affrontato nel secondo capitolo di questa parte. La ricostruzione
dei precedenti approcci dei canali arabi all’informazione è
finalizzata a mostrare che, come tutti gli eventi culturalmente
rivoluzionari, anche il fenomeno Al Jazeera non nasce dal
nulla, come fosse senza radici; la visione della “rivoluzione nei
media arabi” ad opera del canale di Doha, non può prescindere
dal riconoscimento di un percorso vissuto anche altri attori che
comunque andavano in questa direzione, attraversando una fase
di gestazione e maturazione dell’approccio ad una tematica
tanto complessa come l’informazione nei paesi arabi. I
precedenti fallimenti e le ricadute sul tema delle news sono
stati aspetti importanti perché hanno consentito il
raggiungimento di una piattaforma informativa in grado di
affermarsi sullo scenario mondiale delle news. Al Jazeera
irrompe per il suo approccio innovativo all’informazione, ma è
figlia della tradizione araba e ciò lo dimostra il fatto che il
3
canale contiene le caratteristiche tradizionali dei media arabi,
presentate nel primo capitolo; certo, le riformula e le riadatta in
una nuova formula di “transnazionalità”, “unitarismo” e
“mobilitazione”, ma continuano ad essere aspetti inscritti nel
DNA del canale. Nata sulle ceneri del fallito progetto Orbit-
BBC, Al Jazeera coinvolge lo staff britannico della BBC,
altamente professionalizzato e disponibile ad un’esperienza di
lavoro nel mondo arabo. A differenza però del precedente
progetto con la Orbit, l’emiro fa patti chiari ed inequivocabili:
assicura la piena indipendenza editoriale e finanzia le casse del
canale per i primi cinque anni. La scelta non si disperde in
diversi generi ed per Al Jazeera l’emiro adotta un formato all
news, puntando così a colmare un solo segmento di mercato
televisivo: quello del tutto libero delle news. La dinamica con
cui nasce Al Jazeera, sembra inscritta anche nel fiuto business
oriented che un magnate arabo decide di mettere al servizio di
un progetto informativo sfrenatamente “live and uncensored”,
come fosse un investimento finanziario le cui rendite crescono
all’aumentar del rischio. E, in questa chiave di lettura, la
rischiosità dell’affare era tenuta ai massimi livelli dalla scelta
editoriale che ispira il canale di Doha: “l’opinione e l’opinione
contraria”. Al Jazeera non solo occupa un segmento televisivo
inesplorato dalle colleghe arabe, ma decide di farlo secondo
canoni tipici del giornalismo occidentale: presentando i fatti da
diversi punti di vista, tendendo all’imparzialità e alla distanza
critica dagli eventi. Ogni racconto, servizio giornalistico,
approfondimento o talk show dell’emittente, risponde
all’imperativo categorico di fornire sempre le “due” versioni di
un fatto. La filosofia editoriale dell’“opinione e l’opinione
contraria” informa quindi la programmazione del canale di
Doha a due livelli: rende più accesi i toni dei talk show e più
credibili i servizi giornalistici. La strategia informativa adottata
dall’emittente si caratterizza per l’orientamento estero,
4
concretizzato dall’apertura di sedi di corrispondenza nei luoghi
dei principali conflitti mondiali, il ricorso a personale locale
come corrispondenti esteri, un’alta qualità visiva dei servizi e
l’irrinunciabile principio delle diverse versioni dei fatti. Questa
miscela si rivelerà determinante nelle coperture di delicati
conflitti: la seconda Intifada, l’offensiva della Nato in
Afghanistan e quella in Iraq nel 2003; il canale di Doha si
confronta con la realtà di un’audience araba non abituata a
ricevere informazione non censurata, con le conseguenze
politiche legate alle audaci scelte editoriali del canale e
necessariamente con la necessità di sopravvivere in un sistema
informativo dominato dai media occidentali. Il canale subisce
forti pressioni tanto dall’amministrazione Bush quanto da altri
paesi arabi, Arabia Saudita in testa; due sedi estere, Kabul e
Baghdad, vengono accidentalmente colpite durante i
bombardamenti Nato; il corrispondente dall’Afghanistan
(Allouni) viene condannato con l’accusa di collusione con Al
Qaeda, mentre l’inviato in Iraq (al Umari) è stato imprigionato
per non aver dato giusti onori a Saddam Hussein. Il logo di Al
Jazeera entra nell’immaginario collettivo con la spinosa
associazione al volto di Osama Bin Laden e, nonostante le
richieste della Casa Bianca, il canale non smette di mandare in
onda i proclami del ricercato numero uno nella lotta al
terrorismo internazionale. Al Jazeera non aderisce
all’autocensura diffusa tra i grandi network occidentali sul
tema della lotta al terrorismo e viene accusata di favorire i
jihadisti islamici; ma, d’altro canto, l’intero sistema
informativo globale compra dal canale di Doha i suoi servizi
esclusivi, sfruttando la sua posizione di monopolio informativo
in Afghanistan all’indomani dell’11 settembre (condizione resa
possibile dall’accordo sottoscritto con la britannica Bbc, che
per colpire l’emittente non ha esitato a trasmettere parte di
un’intervista di bin Laden). Nel 2006, con il lancio del nuovo
5
canale tematico Al Jazeera English, il canale di Doha attua una
nuova strategia per aprirsi all’audience mondiale. La sua
immagine è matura per poter parlare a quella fetta di pubblico
degli altri canali all news, ma anche qui al Jazeera intende
distinguersi. Il lancio del nuovo canale è infatti condotto con
l’intenzione di sottrarsi ad una collocazione all’interno del
sistema informativo mondiale: Al Jazeera English mira a
costituire un network orizzontale di comunicazione, totalmente
alternativo rispetto al sistema conosciuto. Le contraddizioni
con cui il canale deve confrontarsi sono molte e l’emiro Al
Thani persegue a oltranza la strategia della distanza e della
deresponsabilizzazione dall’operato di Al Jazeera che nel
mondo viene oramai recepita o come un segale di apertura
democratica o come un megafono nelle mani dei terroristi. La
distanza tra la politica estera del Qatar - che intesse relazioni
commerciali e tentativi diplomatici con Israele o stabilisce
alleanze militari con gli Stati uniti - e la politica editoriale di Al
Jazeera - che trasmette le immagini incensurate della seconda
Intifada accendendo gli spiriti arabi contro lo stato sionista,
trasmette i proclami di Bin Laden nonostante i moniti della
Casa bianca- induce a duna riflessione diversa dallo
schieramento di Al Jazeera dall’una o dall’altre parte,
mostrando quanto le etichette di antiamericanismo poggino su
basi stereotipate ed affrettate. L’analisi dell’emittente di Doha
come media di mobilitazione adattato al contesto odierno, visto
come terreno di confronto-scontro tra civiltà e di spinte
riformiste e richiami fondamentalisti interne al mondo arabo,
rivela una nuova funzione dell’informazione. Piuttosto che
essere un media propagandistico direttamente collegato agli
interessi di stato del Qatar, Al Jazeera sembra affermarsi come
un proscenio per le cronache e le figure istituzionali più
importanti del secolo; e, grazie alla filosofia dell’“opinione e
opinione contraria”, tale spazio si pone come ambito di dialogo
6
strutturato secondo una regola democratica. Ciò che infatti
contraddistingue Al Jazeera è l’impossibilità di collocare il
canale in una delle tante parti che essa presenta: la sua
credibilità è resa possibile grazie alla sua funzione di
presentare le diverse opinioni senza mai dire quale sia quella
giusta, a differenza dei tradizionali media di mobilitazione. In
questa credibile piattaforma comunicativa, passano tematiche e
personaggi che si rivolgono e vengono giudicati dall’audience
araba, che ha acquisito maggior importanza anche per la
politica estera degli Stati uniti.
In ciò si ritrova il potere contrattuale del canale televisivo ed il
vantaggio che ne deriva per il Qatar: lo stato della penisola
arabica esercita sia una forma di deterrenza, essendo Al Jazeera
il canale più seguito dall’audience araba e musulmana, ma
riceve anche un ritorno di immagine perché, a livello mondiale
si presenta con un marchio ritenuto, da alcuni, una prova di
democrazia. Tale apertura democratica, tuttavia non è
comunque apprezzata da tutti. Tra gli effetti di Al Jazeera,
infatti appare anche lo strappo prodotto con gli equilibri
editoriali dominanti nel sistema informativo globale: Al Jazeera
ha fatto irruzione nel mondo delle all news adottando canoni
editoriali rinnovati, innovativi e non omologati. Scelte come
quella di trasmettere le immagini delle vittime civili dei
bombardamenti anglo-americani e dei prigionieri americani
sono andate in direzione contraria alle direttive mediatiche di
Washington che, dominando la scena dell’informazione
occidentale, avevano creato un’omologazione informativa
imperniata sui criteri di sicurezza stabiliti dall’amministrazione
Bush. Superati i dogmi dell’informazione araba, A Jazeera si è
insomma scontrata con quelli dell’informazione occidentale;
tali dogmi si basano sul principio che l’informazione dai teatri
operativi costituisca, al pari di quelle militari, un’arma che
deve essere controllata e ricondotta nelle scelte delle strategie
7
militari. Al Jazeera si è mostrata però sostanzialmente
sganciata da queste “regole protocollari”, ovvero non è si è
assoggettata ai diktat che le amministrazioni coinvolte nei
conflitti hanno imposto sulla copertura informativa delle loro
stesse operazioni militari. In questo risiede il vantaggio di un
canale che, adottando uno stile giornalistico orientato alla
libertà e all’indipendenza editoriale sullo stile di quelli
anglosassoni, non è soggetto alla disciplina frenante delle
campagne militari condotte dai paesi delle altre agenzie che
hanno fatto la storia dell’informazione.
Anche nel mondo dell’informazione araba questo approccio ha
prodotto uno strappo evidente con la tradizionale informazione
protocollare. Inoltre, ad ogni costo politico, l’emiro al Tahani,
si è mostrato coerente con la promessa di libertà editoriale
fatta; rendendo così questo strappo una cesura insanabile e
permettendo all’informazione fatta da Al Jazeera, di affermarsi
come modello ispiratore nel mondo arabo. Infatti dimostrata la
possibilità di successo di un modello arabo di news, diversi
network privati e canali di stato si sono avviati lungo la via del
satellitare, con l’intenzione di creare un’alternativa ed aprire
una forma di concorrenza nel mercato delle news. Primo
competitore di Al Jazeera è Al Arabiya, che inizia a trasmettere
da Dubai il 20 febbraio del 2003, con un palinsesto all news,
già di 24 ore su 24. il canale sfrutta a suo vantaggio il carattere
deciso e sfrontato di Al Jazeera, prendendone le distanze; Al
Arabiya infatti si pone nettamente in polemica con la rete di
Doha, sia sotto l’aspetto stilistico che di immagine, irrompe
sugli schermi con una inequivocabile dichiarazione: “Non
vogliamo creare problemi ai paesi arabi. Inseguiremo la verità,
non il sensazionalismo”. Al Jazeera viene presa a modello da
diversi altri canali televisivi, che decidono non solo di
compiere la difficile scelta delle all news, ma anche di
adeguarsi al suo modello informativo: professionale,
8
transnazionale, d’approfondimento e presentato in una veste
occidentale, ma non priva di “arabicità del brand”. Inoltre, nel
mondo dell’informazione araba, l’avvento di Al Jazeera
favorisce un processo di riorganizzazione del sistema
commerciale dell’industria televisiva. Il canale di Doha è stato
il primo a riportare nella regione i capitali e le infrastrutture
produttive, in un periodo in cui tutti i network panarabi
avevano esternalizzato il processo produttivo dei contenuti
televisivi nelle capitali europee. Il motivo di questa strategica
fuga risiedeva nel vantaggio di sfruttare il know how europeo e
di sottrarre il processo produttivo al controllo dei vertici
religiosi sauditi. Tuttavia, Al Jazeera ha mostrato che, alla
convenienza finanziaria di trattenere i capitali all’interno del
paese, si associava la possibilità di ottenere anche ottimi
risultati nella produzione dei contenuti televisivi. Il rientro dei
capitali e l’abbandono delle sedi in Europa è stato un fenomeno
accompagnato e facilitato dalla creazione delle Free Media
Zones, spazi parzialmente liberalizzati che agevolano gli
investimenti nel settore mediatico.
La seconda parte di questa ricerca è dedicata ad un’altra
tipologia di media, quelli più vicini alla tradizionale funzione
di mobilitazione. In questa analisi sono stati presi in
considerazione due media televisivi: Al Aqsa TV e Al Manar.
Queste due emittenti sono, rispettivamente, le appendici
comunicative delle due organizzazioni HAMAS e Hezbollah,
(controverse agli occhi europei e statunitensi) e una loro
trattazione è funzionale a presentare i diversi ruoli che
l’informazione svolge sia in un contesto di programmazione
ordinaria, che durante un conflitto in cui sono coinvolte le due
fazioni politiche che dirigono i canali televisivi. Si è optato per
un approccio multidisciplinare che includesse una trattazione
storica della vicenda iseraelo-palestinese-libanese allo scopo di
9
dare conto, per quanto in modo sicuramente limitativo data la
portata del tema, dei principali intrecci storici, degli elementi
condivisi e dei punti di attrito tra le parti in causa. Sin dalla
proclamazione dello stato di Israele, il 14 maggio 1948,da parte
di David Ben Gurion, un comune destino lega la popolazione
palestinese e quella del Djabal Amil (la regione a sud del
Libano). Tale intreccio è spiegato anche dall’importanza
strategica del Libano nel progetto di Israele, ravvisata nelle sue
risorse idriche e nella topografia del montuoso territorio. Con
la prima guerra arabo israeliana, le ambizioni israeliane sul Sud
del Libano vengono concretizzate con un’occupazione militare
di diversi villaggi: la solidarietà tradizionale tra la parte di
popolazione sciita del Libano e quella sunnita palestinese si
rafforza davanti ad un comune nemico e, da questa fase le due
popolazioni cominciano un percorso, a tratti condiviso, di
liberazione e resistenza contro il nemico israeliano. Le
influenze militari, ideologiche e dottrinarie tra le prime
organizzazioni palestinesi e quelle libanesi sono molteplici; in
particolare l’OLP, così come in seguito HAMAS ed Hezbollah
professano il ricorso alla resistenza armata per difendere il
diritto all’autodeterminazione dei loro territori. Dopo la guerra
dei Sei giorni e gli eventi del “settembre nero”, i fedayn
palestinesi si insediano il Libano e comincia il così detto
“periodo palestinese” della resistenza libanese ad Israele. La
collaborazione militare tra le forze palestinesi e libanesi è
assidua e insieme si avviano alla fine del decennio, ovvero a
quella fase spartiacque in cui il mondo musulmano è travolto
dalla rivoluzione khomeinista. Sebbene in Libano fossero
presenti forme di islam politico – nel 1974 l’imam Moussa al
Sadr aveva fondato il Movimento dei diseredati –, con la
rivoluzione iraniana del 1979 la resistenza libanese si avvia
verso una compiuta islamizzazione. L’occupazione israeliana
del Libano, nel 1982, radicalizza le contrapposizioni delle
10
componenti religiose già in guerra, ma soprattutto ha l’effetto
di alimentare il vigore della resistenza alla presenza israeliana.
Ancora una volta la popolazione palestinese e quella libanese
condividono un comune destino: l’operazione “pace il Galilea”
ha l’obiettivo di eliminare l’Olp dal Libano e, data la capillare
presenza dell’organizzazione nel territorio, l’offensiva si
svolgerà all’insegna della massima potenzialità distruttiva.
L’impegno militare è stato indirizzato soprattutto verso i
campi-profughi palestinesi in Libano, considerati i focolai dei
guerriglieri; così la popolazione civile fu considerata un target
dell’offensiva che raggiunse il massimo dell’efferatezza negli
episodi dei campi di Sabra e Chatila. L’operazione “pace in
Galilea” fu determinante per la nascita di Hezbollah, che nel
1985 formalizza la sua presenza come forza operativa di
resistenza all’occupazione israeliana. I fondamenti politici di
Hezbollah erano profondamente legati al messaggio
khomeinista che accordava alla questione palestinese un ruolo
centrale nel progetto di liberazione dagli oppressori; la
liberazione della Palestina “dal nemico sionista” era il tema di
richiamo alla causa panaraba, in quanto Israele era considerato
uno stato ostile perché avamposto degli Stati uniti, piuttosto
che per motivazioni di ordine religioso. Questo aspetto
consente alla retorica di Hezbollah di ottenere consensi anche
da altre comunità non sciite, in quanto l’organizzazione
persegue l’obiettivo di preservare il Libano da ogni dipendenza
nei confronti di altri paesi. Due anni dopo la proclamazione di
Hezbollah, nei campi profughi palestinesi dei Territori
occupati, iniziava la prima Intifada; era il 1987, la retorica
rivoluzionaria komeinista aveva raggiunto anche quei territori
ed iniziava ad erodere il nazionalismo dell’Olp e
l’atteggiamento di assistenzialismo quietista della Fratellanza
Musulmana. La rivoluzione iraniana insegnava che attraverso il
jihad era possibile raggiunge lo stato islamico, e tale doveva
11
essere la via anche per la liberazione della Palestina. Il jihad
divenne il riferimento ideologico delle organizzazioni
palestinesi autonome che puntavano a destabilizzare il nemico
israeliano, sottraendo consensi all’Olp. La nascita di HAMAS
risale alla riunione dei Fratelli Musulmani, attorno allo sceicco
Ahmad Yassin, il 9 dicembre 1987; dall’incontro nel derivò un
volantino, firmato dal Movimento per la Resistenza Islamica in
cui si incitava ad intensificare la ribellione. La paternità del
movimento venne riconosciuta solo nel febbraio del 1988,
quando le iniziali in arabo (HMS, di Harakat al Muqawarna al
Islamiyya) sarebbero state trasformate nella sigla HAMAS
(“zelo”). Dopo tre anni di Intifada il potere dell’organizzazione
islamista è tale che l’Olp presenta ai suoi dirigenti una proposta
d’ingresso in parlamento; tale proposta verrà rifiutata e l’Olp
avanza nelle negoziazioni diplomatiche con Israele, sino alla
ratifica degli accordi di Oslo (siglati nella Casa Bianca il 13
settembre da Yasser Arafat, Yitzhak Rabin e Shimon Peres).
Secondo gli accordi, Israele riconosce l’Olp e concede una
limitata autonomia in cambio della pace e della fine delle
rivendicazioni palestinesi sul territorio israeliano. Il 1994 è
l’anno del riconoscimento dell’Autorità Nazionale Palestinese,
ma questo spirito di negoziati diplomatici è posto sotto assedio
dalle fazioni intransigenti israeliane – con l’uccisione di Rabin
per mano di un militante del Talmud, Yigal Amir- e dai
successivi attentati di HAMAS a Gerusalemme. Lo spirito della
negoziazione sembrava oramai irrecuperabile, anche alla luce
della vittoria di Netanyahu, leader del Likud, alle elezioni del
1996. Come si vedrà, dal fallimento dei negoziati di Camp
David, nel 2000 infiammerà la seconda Intifada. Questo
conflitto si intreccia con le dinamiche della lotta al terrorismo
successiva all’11 settembre 2001: la politica filo americana del
governo Sharon inquadra la lotta al terrorismo palestinese nella
formula della lotta globale al terrorismo islamico e, nel 2002
12
lancia l’operazione “scudo difensivo”, considerata la più
grande operazione militare condotta in Cisgiordania dopo la
guerra dei Sei giorni. Un altro fenomeno politico di respiro
globale andava intanto affermandosi: la politica estera
statunitense acquisiva il concetto di esportazione della
democrazia, come veste ideologica degli interventi nei conflitti
medio orientali. Le dinamiche politiche legate agli interventi
per la sicurezza, vengono così ad estendersi sino all’ambito
della comunicazione e dell’informazione, definendo un piano
di scontro, parallelo a quello reale, sulle definizioni ultime di
concetti come terrorismo, liberazione e difesa. Quindi, dopo
l’excursus storico sul conflitto arabo israeliano, vengono presi
in esame i sistemi mediatici di Hezbollah ed HAMAS. Tema
ricorrente, che informa tanto la pratica politica quanto i
contenuti mediatici delle due organizzazioni è il jihad, inteso
come consapevole azione di resistenza alla minaccia sionista.
La resistenza assume la dimensione di guerra santa perché il
jihad viene reinterpretato alla luce delle considerazioni
khomeiniste, che riabilitano per gli sciiti sia l’organizzazione
politica e che le forme di intervento nella società vittima di
soprusi. La dimensione del jihad è pertanto difensiva e ritenuta
un dovere individuale per ogni membro della comunità
islamica che rifiuti la condizione di dominazione cui è
sottoposto. L’influenza delle teorie di al Mawdudi e Said Qutb
è dirompente anche nella realtà palestinese; anche HAMAS
infatti fa della lotta armata e del jihad la strategia per il
raggiungimento dello stato islamico. L’impianto mediatico e la
retorica propagandistica delle due organizzazioni pertanto,
sono fortemente caratterizzati da questi temi: l’immagine della
resistenza e la celebrazione del martirio informano i programmi
televisivi e l’informazione è strutturata sulla vocazione
comunicativa della missione politica. Sebbene i canali
televisivi siano stati ufficializzati a partire dal 1986 (anno di
13
lancio di Al Manar), entrambe le organizzazioni facevano già
da prima della comunicazione e dell’informazione un’arma
molto affinata per diffondere le loro rimostranze; le operazioni
condotte, infatti, venivano filmate sin dall’inizio: i gruppi
armati includevano quasi sempre una persona dotata di
videocamera pronta ad “immortalare il momento” in cui, alle
parole, seguivano i fatti. La diffusione di queste immagini, sia
nella regione che alle agenzie giornalistiche estere, forniva
supporto visivo alla credibilità dell’organizzazione. Il ricorso
alla guerra tramite le immagini trova ragione d’esistere anche
per via dell’insormontabile squilibrio tra il potenziale
distruttivo di Israele e quello delle popolazioni libanese e
palestinese. La comunicazione diventa così complementare alla
strategia del martirio, nata come risposta ad una minaccia che
non può essere sconfitta sul piano militare ma piuttosto colpita
in termini di percezione della sicurezza. Il martirio è finalizzato
ad erodere il mito dell’invincibilità israeliana e la diffusione
delle immagini di tali atti rientra pienamente in questa
strategia, che consente da un lato di rassicurare la popolazione
e spingerla a credere nella resistenza, dall’altro di colpire il
morale del nemico, come testimonia la programmazione in
lingua ebraica. Il canale televisivo di Hezbollah è, a proposito,
paradigmatico della funzionalità dei media a seconda delle
diverse esigenze che è chiamato a svolgere. Il processo di
istituzionalizzazione che ha affrontato Hezbollah è leggibile di
riflesso nelle strategie mediatiche del suo media. Dalla sola
diffusione di video in stile combat, il canale arriva ad una
programmazione di contenuti politici finalizzati a dare
sostegno ai candidati del partito di Dio e si ravvisa un
cambiamento di rotta mediatico parallelo a quello politico.
Tuttavia, la politica editoriale del canale non è affatto orientata
all’adeguamento degli standard di imparzialità e neutralità
informativa, cui ad esempio tende Al Jazeera; ciò fa del canale
14
e della sua informazione uno strumento dichiaratamente non
neutrale. Il motto della televisione infatti è Qanat al-
Muqawama (“la stazione della resistenza”) e la sua
programmazione si caratterizza proprio per essere incentrata
sugli avvenimenti del Libano del Sud e su tematiche legate alla
resistenza. Così al canale, è possibile associare un’azione a due
livelli: uno regionale, nel quale la causa panaraba del conflitto
israelo-palestinese permette il superamento della dimensione
sciita; ed uno locale, rivolto a quello “stato nello stato” creato
dal welfare di Hezbollah in Libano, che trova negli umori anti -
israeliani e nell’appartenenza sciita il motivo di successo. Dalla
tradizione sciita, Al Manar riprende e diffonde le credenze di
una comunità oppressa ed emarginata, grazie alle quale elabora
una narrativa della resistenza che può essere estesa agli altri
popoli arabi.
Il canale televisivo di HAMAS, Al Aqsa Tv, si inserisce invece
in una realtà molto diversa dal Libano. Attiva dal 2006, la
televisione opera in un contesto in cui l’informazione è
sottoposta alla rigida contrapposizione politica presente nel
territorio. Dopo la vittoria di HAMAS alle elezioni del giugno
2006 e la sua successiva instaurazione del governo nella
Striscia di Gaza, il mondo dell’informazione viene setacciato e
sottoposto a duri vincoli sulla libertà di stampa e
d’informazione. L’assenza di corrispondenti esteri e la fuga di
molti giornalisti verso la West Bank, lasciano il territorio della
Striscia nelle mani dell’informazione pilotata da HAMAS,
dotata di un composito sistema mediatico che spazia da
quotidiani, a siti web. Al Aqsa Tv nasce con lo scopo di
favorire i candidati di HAMAS alle elezioni del 2006 e inizia la
sua programmazione con servizi di news, messaggi
propagandistici e letture del Corano. Non manca, anche nella
sua offerta, la produzione di video sulla martirologia e sugli
addestramenti militari, trasmessi dal canale come leit motiv
15