3
Può essere utile ricordare che l’orientamento di genere, cardine di ogni
differenza, era sancito già a partire da due divinità basilari: Ianus Curatius
e Iuno Sororia. Se il primo è il dio che soprintende l’ingresso nelle curie,
Iuno è la dea che soprintende alla prima crescita dei seni alle bambine e
le protegge.
Tale ripartizione non può che corrispondere ai differenti compiti
assegnati ai due sessi nella città, ossia la produzione della guerra e della
politica per i maschi, la riproduzione fisica per le donne. I giovani, per
essere ammessi nella comunità venivano appunto fatti passare sotto i loro
rispettivi altari
3
.
Affrontare un discorso sull’educazione romana significherà allora partire
proprio dai bambini e dalle bambine, per poi passare alla scuola e ai
maestri, al ruolo materno, nonché all’educazione religiosa. Sarà inoltre
necessario fare riferimento ai modelli pedagogici ed al ruolo storico
imposti alle donne romane.
La trattazione si apre con l’analisi dei punti salienti dell’antica
educazione romana, in un breve excursus della sua evoluzione da un
impianto arcaico legato alle pratiche e ai saperi agricoli, all’adozione
della paideia greca. Tratta inoltre della condizione dell’infanzia in epoca
romana, con un breve riferimento alla scuola primaria, legata all’ambigua
figura del ludi magister. Il capitolo si chiude con un breve riferimento a
Quintiliano e alla sua opera maggiore, la quale può essere letta come un
vero e proprio trattato di pedagogia.
3
Cfr. A. Fraschetti, Il mondo romano, in G. Levi, S.C. Schmitt (a cura di), Storia dei giovani, Laterza, Roma-Bari 2000.
4
Il capitolo seguente, intitolato “La pedagogia al femminile”, può dirsi
centrale in questa trattazione, in quanto analizza i principali modelli
pedagogici femminili e il ruolo sociale delle donne, ed in esso sono citati
alcuni esempi illustri ed emblematici della condizione muliebre, nonché i
suoi antimodelli. Il punto di partenza di un’analisi di questo tipo impone
di tenere presente i cambiamenti che hanno investito la storia femminile
di Roma, specificatamente nel passaggio dall’età repubblicana
all’Impero. In questo passaggio cruciale, la figura femminile
paradigmatica è certamente Livia, con la storia della sua vita, che è, a suo
modo, una storia di emancipazione. Viene qui infine mostrato l’intimo
legame tra le svolte storiche di Roma e alcune importanti figure
femminili, considerate custodi e garanti di virtù dalla profonda valenza
educativa.
Nel capitolo conclusivo, infine, viene trattato il tema dell’educazione
religiosa, punto cardine dell’intero sistema educativo dell’antica Roma.
Difatti, in una civiltà in cui valori civici, familiari e spirituali sono
profondamente intrecciati, la religione si pone in una posizione di spicco;
la sua educazione è necessariamente rigida e precisa, trattandosi di un
credo essenzialmente cultuale e rituale, fondato su un radicato
formalismo. Il carattere fondamentalmente sociale di questa religione,
faceva si che la sua educazione fosse estesa a tutti, non solo alle caste
sacerdotali e ai pater familias, ma anche alle matrone e soprattutto ai
bambini, i futuri cives.
5
CAPITOLO I
L’ANTICA EDUCAZIONE ROMANA
1. Il bambino e la bambina a Roma
“Nella cultura latina, il bambino è denominato con molti vocaboli; in
particolare è puer, ma dalla nascita ai sette anni, ossia fino a quando resta
nelle mani delle donne e prima dell’inizio della scuola è infans (non
parlante, vocabolo che appunto indica la sua inettitudine a un eloquio
completo)”
4
. Questa ricchezza di denominazioni rivela sia una
valorizzazione e un sentimento specifico verso l’infanzia, sia
un’attenzione giuridico-istituzionale verso il bambino. Nella società
romana è la famiglia la cellula fondamentale ed è in essa che avviene la
crescita, soprattutto morale e civile. Si conosce perfino l’esistenza di un
pantheon di divinità minori peculiari della vita infantile (protettori di
avvenimenti dall’allattamento ai primi passi). Il bambino è guidato
dapprima dalla madre, la figura pedagogica più importante, che lo allatta
e lo coccola con l’aiuto della nutrice. Inoltre ai bambini è permesso
partecipare ad alcune cerimonie religiose, come il culto di Giove per i
maschietti e quello di Vesta per le bambine. La pedagogia romana è
fondata sull’esempio, ma il modello da seguire non è lontano dal
bambino, in quanto fa parte della sua stessa famiglia e non è, invece, un
eroe del passato o del mondo mitologico.
4
E. Becchi, L’antichità, in Becchi, Julia (a cura di), Storia dell’infanzia. Dall’antichità al Seicento, Laterza, Roma- Bari,
1996, p.16
6
Accanto alla famiglia, altro luogo di acculturazione è ovviamente la
scuola, nella quale il bambino entra dopo aver compiuto il settimo anno
di vita (essa è assai diffusa nella società romana pur non essendo
finanziata dallo Stato ma dalla famiglia stessa o da benefattori).
Ovviamente per quanto riguarda la pedagogia parentale, essa si configura
come un vero e proprio obbligo verso la vita civile. Verso i bambini c’è
grande tenerezza, ma non indulgenza: il padre specialmente è la figura
della tutela e del potere ed è grazie alla sua disciplina carismatica che
viene trasmessa ai figli la legge dello Stato (ovviamente è sempre il padre
a decidere delle sorti della sua prole, dall’accettazione del neonato alle
scelte matrimoniali). Accanto al padre prendono posto nell’educazione
infantile il “pedagogo” che accompagna a scuola il bambino e il maestro
vero e proprio. Se l’importanza attribuita ai bambini nella Roma antica
era incontestabile, essa è direttamente collegata all’evoluzione della
società, che è sempre in stretto rapporto con l’ideale familiare. La finalità
dell’educazione era quella di perpetuare il sistema familiare e di formare
uomini e donne liberi. Se lo Stato non si era fatto carico dell’educazione
dei bambini è perché esso affidava tale compito alla famiglia, che poi
avrebbe dovuto fornirgli, un giorno, dei cittadini e dei soldati in grado di
perpetuare il sistema politico e di difenderlo. Fino a quel giorno il
bambino non faceva parte della civitas e non aveva un posto nella vita
7
pubblica; poteva accompagnare il padre in Senato, ma mai prendere la
parola
5
. Il bambino, comunque non era totalmente escluso dalla vita
civile, poiché interveniva nel culto familiare. Inoltre i ragazzi di origine
patrizia col nome di camilli partecipavano ai culti cittadini.
Volendo circoscrivere e cercare di stilare un elenco più preciso sulla
terminologia legata all’età dello sviluppo, bisogna spostarsi direttamente
alla fine dell’età repubblicana, quando ormai il lessico relativo
all’infanzia si era assestato.
La prima età della vita umana è l’infantia, che dura sette anni. A sette
anni il bambino possiede capacità intellettuali sufficienti per poter parlare
in modo sensato. Il suo linguaggio è cioè significante ed egli diviene
puer. Ovviamente il suo linguaggio diventerà completo e realmente
comunicativo più avanti e certamente dopo aver frequentato gli studi. C’è
inoltre da precisare che l’età di tre anni è considerata il termine di un
primo periodo di vita, trascorso il quale Quintiliano consiglia di iniziare
ad educare la mente dei bambini
6
.
“La parola dei bambini, seppure non tenuta in considerazione politico-
giuridica, ha però grande rilevanza in ambito religioso, in quanto rivestita
di sacralità per l’intrinseca purezza dei bambini stessi.
5
Cfr., J.P. Neradau, Il bambino nella cultura romana, in E. Becchi, D. Julia (a cura di), Storia dell’infanzia. Dall’antichità
al Seicento, Laterza, Roma-Bari, 1996.
6
Cfr., Ibidem.
8
Infatti per gli antichi puer era un derivato di purus e dunque l’infanzia
poteva essere considerata il periodo della purezza legata al sacro”
7
.
Per quanto riguarda la pubertà essa venne fissata in un periodo preciso
della vita e cioè tra i quattordici e i diciassette anni di età. Dunque, tra
l’infanzia della non funzionalità sessuale e militare, e la pienezza dell’età
adulta, si pone un periodo intermedio: l’adulescentia (il cui nome stesso
indica la formazione, la crescita). Esistevano pratiche precise che
segnavano la fine dell’infanzia, un vero rito di passaggio che si celebrava
il 17 marzo, nel giorno dei Liberalia.
Il bambino indossava una toga orlata di porpora, la toga pretesta che lo
proteggeva per la sua fragilità; in quel giorno egli l’abbandonava per
vestire la toga virilis. Sempre durante i Liberalia abbandonava anche la
bulla, un gioiello formato da due piastre concave contenenti amuleti,
oggetto che lo segnalava come venerabile per la sua purezza (condizione
legata all’assenza dei caratteri sessuali della pubertà). Questi riti di
ambito familiare erano un vero e proprio addio all’infanzia ed erano
seguiti da riti pubblici: condotto in corteo attraverso la città, il ragazzo
saliva in Campidoglio dove rendeva omaggio a Giove protettore della
crescita dei ragazzi. Dopo i Liberalia seguiva un anno di tirocinio
militare, e solo alla fine di questo il giovane era accolto nella società
politica, seppur con pesanti restrizioni soprattutto sul libero uso della
parola (intesa come eloquenza politica).
8
7
Ibidem, p. 35
8
Cfr., Ibidem.