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rabbia, bassa autostima, reazione all’abbandono, difficoltà nel controllo dell’impulso. Ed
essendo il soggetto più grande, il genitore (o chi per lui) è più propenso ad associare certi
eventi ad episodi di autolesionismo.
Il comportamento autolesivo può inoltre manifestarsi in comorbilità con altri disturbi.
Nel caso dell’autolesionismo maggiore gli atti autolesivi, drastici e gravi, possono
fungere da sintomo ausiliare di patologie come: psicosi, transessualismo, Sindrome di
Van Gogh, intossicazioni alcoliche acute.
Nel caso dell’autolesionismo stereotipato si manifesta in disturbi quali: autismo, ritardo
mentale, Sindrome di Gilles de La Tourette, Sindrome di Lesch-Nyhan, Sindrome di
Cornelia de Lange.
Nel caso dell’autolesionismo superficiale moderato si manifesta in comorbilità con:
Disturbo Borderline di Personalità, Disturbo Istrionico di Personalità, Disturbo Post-
Traumatico da Stress, Schizofrenia.
Particolarmente importante diventa la condotta autolesiva all’interno degli Istituti
Penitenziari, che negli anni ha registrato un notevole aumento.
Il comportamento autolesivo ha il duplice effetto di distogliere l’attenzione dalla
sofferenza mentale e di ottenere una reazione da parte di un ambiente asettico e
spersonalizzato. Il servizio che consente l’intervento psicologico in carcere fu predisposto
e descritto all’interno della circolare Amato N. 3233/5683.
Le origini di questo comportamento sono molte, ma quella che sembra la causa più
comune è costituita dall’abuso sessuale definito anche “assassinio dell’anima”.
L'automutilazione permette a chi ha vissuto degli abusi di reclamare il proprio corpo.
Dopo aver trattato l’autolesionismo nelle sue varie forme, si è ritenuto indispensabile
inserire anche le terapie adottate con questo tipo di soggetti, che generalmente prevedono
un trattamento farmacologico seguito da sedute psicoterapeutiche.
Infine, cercare dei casi originali di cui parlare nella mia tesi è stata una scelta naturale,
proprio per poter dare un contributo personale ed una dimensione maggiormente reale a
ciò che ho scelto di trattare in questa tesi.
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COMPORTAMENTI DISADATTIVI E AUTOLESIONISMO
1.1 COMPORTAMENTI DISADATTIVI
I comportamenti disadattivi vengono spesso definiti come comportamenti che provocano
danni a se stessi, agli altri o agli oggetti; come comportamenti che per la loro intensità e
frequenza ostacolano l’emissione di altre prestazioni o abilità; comportamenti che
impediscono o limitano l’interazione sociale. Generalmente possono essere suddivisi in:
¾ Stereotipie
¾ Comportamenti problema
Esistono differenze sostanziali tra stereotipie e comportamenti problema che devono
essere conosciute per un corretto trattamento (Gabrielli T., Cova Gabrielli P., American
Journal on Mental Retardation, 2006).
Le stereotipie sono definite come espressioni motorie ripetitive, topograficamente
invarianti e senza apparente finalità adattiva nel contesto ambientale in cui si espletano
(Azrin, Kaplan e Foxx, 1973; Baumeister e Forehand, 1973; Forehand e Baumeister,
1976).
Esse normalmente vengono divise in due gruppi:
autolesive, cioè comportamenti che provocano lesioni evidenti o che
l’osservatore associa a sensazioni di dolore (es.: battere la testa, picchiarsi);
non autolesive, comportamenti cioè ai quali l’osservatore associa finalità
autostimolatorie non dolorifiche (es.: dondolamenti del corpo e del capo,
movimenti delle mani e delle dita, strategie di accentuazione di input visivi).
Le stereotipie non autolesive vengono riscontrate molto più di frequente rispetto alle
lesive e costituiscono una delle caratteristiche discriminanti del soggetto autistico (Ritvo
e Freeman, 1978). Allo stesso tempo sono comuni anche in soggetti con grave ritardo
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mentale e/o handicap sensoriali, particolarmente di tipo visivo (Baumeister e Forehand,
1973).
Pur avendo talvolta caratteristiche comunicative, nella maggior parte dei casi le
stereotipie sono circolari, rituali e non sono emesse per controllare l’ambiente circostante,
ma per ripristinare una situazione di “benessere” interrotta dall’evento che ha preceduto
l’emissione della stereotipia.
“Un comportamento problema consiste in un comportamento distruttivo e/o pericoloso per
l’individuo, gli altri, l’ambiente o quel comportamento che ostacoli l’apprendimento e
l’interazione sociale. I comportamenti problema vengono emessi per controllare o
modificare l’ambiente e/o per ottenere conseguenze vantaggiose.” (Emerson 2005)
Qualsiasi forma di rifiuto è riconoscibile come un comportamento problema se ha come
unico esito la possibilità di rientrare o permanere in stereotipia. Questo è il criterio
distintivo, cioè un soggetto in difficoltà psicologica può adoperare comportamenti
disadattivi per comunicare in modo alternativo. Alla fine della manifestazione, si isolerà o
si impegnerà in un’attività adattiva (spontaneamente, suggerita dalla situazione o
attivamente offerta) ma mai patologica. Egli comunica attraverso comportamenti inadatti,
non consoni alle regole del sociale a cui appartiene, non educati o poco proporzionati o
pertinenti (ma esprime una scelta consapevole) e la sua comunicazione di rifiuto,
difficoltà, ansia, stanchezza è leggibile da chiunque. La conseguenza del suo
comportamento non sarà mai una stereotipia. L’analisi funzionale del comportamento
dell’individuo in difficoltà psicologiche funziona e allo stesso tempo funzioneranno le
sue strategie e le sue proposte terapeutiche (ad es.: ignorare per estinguere; spiegazione;
contrattazione, etc.).
I comportamenti problema possono essere:
avversativi (es.: provocazione, opposizione, fuga, estraniazione, rifiuto, etc. );
malversativi (autolesionismo, etero-aggressività, etc. );
dirompenti (emissioni di urla, turpiloquio, attività distruttive, etc. );
ostativi (cioè di ostacolo).
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I comportamenti problema sono sporadici e non sono mai avviati in solitudine; vengono
cioè tenuti per modificare l’ambiente affinché ci si adegui a consentire l’adesione alla
stereotipia e la loro manifestazione è intercalata da stereotipie e si conclude sempre con
esse o con l’adesione a comportamenti stereotipati (Tiziano Gabrielli, dicembre 2006).
1.2 AUTOLESIONISMO (definizione e varie forme)
La letteratura scientifica relativa all’autolesionismo è obiettivamente poca. Questo
dimostra un interesse recente, dato anche dal fatto che, se si controlla con attenzione
quest'ultimo secolo, questi comportamenti si siano riscontrati in maniera crescente.
Lo studio delle lesioni corporali in America ha fatto molti progressi proprio perché molte
ricerche sono state dedicate a questo tema. Queste affrontano l'argomento senza
moralismo, suscitando meno terrore e repulsione di quanto accada in Europa, dove il
rispetto dell’integrità corporale continua ad essere un valore fondamentale.
Figueroa (1988) con l’espressione “comportamento autolesivo” racchiude un’ampia
gamma di sottocategorie e manifestazioni sintomatiche.
Berglas e Baumeister (1996) definiscono il comportamento autolesionistico come un
“recar danno, perdita, fallimento o sofferenza a se stessi con le proprie azioni od
omissioni”. Esattamente il contrario rispetto allo sforzo di promuovere il proprio
interesse.
Lo Zingarelli (2004) definisce l'autolesionismo come: “Il produrre deliberatamente una
minorazione, temporanea o permanente, sul proprio corpo” e, in senso esteso e figurato:
“atteggiamento di chi cagiona il proprio danno” (Zingarelli, pg 181).
Nel termine autolesionismo, il suffisso auto- si riferisce quindi al Sé come entità
simbolica: il male auto inflitto può essere fisico, emotivo, mentale o derivare da un danno
all’autostima o al funzionamento sociale.
Menninger (1935) ha individuato alcune macro-categorie di comportamenti
automanipolari, contribuendo così in modo significativo alla comprensione di questa
sindrome:
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1. Autolesionismo nevrotico (compulsioni come onicofagia, graffiarsi la pelle,
tricotillomania, ricercare interventi chirurgici non necessari);
2. Autolesionismo religioso (flagellazione ascetica e menomazione dei genitali);
3. Cerimonie puberali (rimozione dell’imene, l’infibulazione – pratica diffusa tra le
popolazioni africane, consistente nella rimozione del clitoride, delle piccole e
grandi labbra. La vagina è ricucita, ad eccezione di una piccola fessura per
consentire la fuoriuscita dell’urina e del sangue mestruale -, circoncisione);
4. Automutilazione in pazienti psicotici (come l’enucleazione di un occhio,
l’asportazione dei genitali, il taglio di un orecchio, l’autoamputazione di un arto);
5. Automutilazione in disturbi organici (fratture volontarie delle dita o di altre parti
del corpo in soggetti sofferenti di encefaliti);
6. Automutilazione in soggetti normali (mangiarsi le unghia o spuntare i capelli e
tagliare la barba in modo compulsivo. Nello stesso gruppo oggi si possono
annoverare anche alcune forme di depilazione).
Queste categorie risentono di alcuni fattori interagenti: il contesto culturale ed il
significato che l’autolesione assume al suo interno; la corrispondenza simbolica tra il tipo
di lesione e la parte del corpo prescelta; le specifiche determinanti psicologiche che
possono muovere i singoli soggetti all’azione autolesiva.
Plet (1999) ripropone una definizione avanzata da Winchel e Stanley (1991) che cerca di
tracciare una linea di confine tra normalità e patologia. Il comportamento autolesivo è
considerato patologico solo nel caso in cui il soggetto si procuri deliberatamente una
lesione abbastanza grave da lasciare una traccia visibile per almeno un paio d'ore senza
avvalersi dell’aiuto di altre persone, allo scopo di ottenere una sensazione di dolore
immediata ed una successiva sensazione di rilassamento. Non sono considerati autolesivi
i comportamenti che a lungo termine risultano dannosi per la salute della persona che li
mette in atto (abbuffarsi, digiunare, fumare) quando non ci sia, da parte del soggetto,
l’intenzione consapevole di danneggiarsi.
Favazza e Rosenthal (1993) sottolineano che carattere ed intenzionalità distinguono la
condotta autolesiva da un atto accidentale.
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Perché si possa parlare di condotta autolesiva le azioni distruttive devono avere carattere
deliberato e consapevole, indipendentemente dagli esiti dell’autolesione, di cui oltretutto
andrebbero analizzate le cause, piuttosto che gli effetti. Per determinare cioè se un
soggetto sia patologicamente autodistruttivo o meno è necessario capire cosa stesse
cercando di ottenere con l’autolesione.
Figueroa (1988) distingue cinque tipi di autolesionismo:
1. Self-injurious Behavior (SIB) (comportamento autodistruttivo, dannoso, lesivo,
nocivo). Si tratta del comportamento autodistruttivo stereotipato osservabile nel
ritardo mentale con deficit organici correlati. Deficienze genetiche/organiche
accertate vengono analizzate in condizioni classiche e operative.
2. Suicidal Behavior (condotta suicidaria). I tentativi intenzionali di suicidio
costituiscono occasionalmente un aspetto, talora correlato ad uso di farmaci, della
sindrome. In genere vanno distinti dall’Autolesionismo.
3. Self-Mutilation (auto-mutilazione caratteriologica). Si riferisce a casi di patologia
del carattere contrassegnata da condotte auto lesive. Le dinamiche intrapsichiche
e del significato di questi comportamenti sono complessi e multideterminati.
Abitualmente è assente l’intento suicida.
4. Psychotic Self-Mutilation (auto-mutilazione psicotica). Si osserva quando deficit
o conflitti nei processi dello sviluppo cognitivo si manifestano attraverso processi
psicotici illusori ed allucinatori. In questo caso, il comportamento autodistruttivo
pare costituire un quarto sottotipo d’istinto. Infatti è bizzarro, grottesco e
mutilazioni molto gravi sono accompagnate da pensieri illusori, allucinazioni,
ideazione ideosincratica bizzarra.
5. Failures in Self-Care (negligenza nella cura di sé). Propensione agli incidenti,
tendenza a correre rischi, a lacerarsi la pelle in modo ossessivo-compulsivo, a
ferirsi, ad abituali comportamenti self-defeating. Questi fenomeni potrebbero
essere sommariamente raggruppati come forme di trascuratezza grave nella cura
di sé.