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I risultati di queste analisi hanno contribuito in modo sinergico a dare le prime risposte
in merito alle interazioni microfunghi-carta.
Una tesi, quindi, che può ritenersi utile anche come punto di partenza per ulteriori studi sia
per quanto riguarda l’aspetto conservativo dei beni culturali cartacei, sia per approfondimenti
nei due settori d’indagine trattati.
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2. LA CARTA GIAPPONESE: Washi
È noto come l’estremo Oriente possa vantare il primato nell’invenzione e produzione
della carta, la cui origine può essere collocata in Cina nell’anno 105 d.C. per alcuni, o
addirittura alcuni secoli prima di Cristo.
Le materie prime necessarie venivano ricercate nella lavorazione di tessuti in lino o canapa,
poi sostituiti da fibre vegetali, per i minori tempi di trattamento richiesti.
La manifattura della carta giapponese ha molto in comune con quella cinese, seppur con
varianti dovute alla diversa disponibilità di fibre, la loro peculiarità sta proprio nelle
caratteristiche dei materiali impiegati, che le rendono ottimi supporti da stampa e scrittura pur
senza collatura superficiale.
Per queste stessa caratteristiche chimico-fisiche, la carta giapponese viene usata da alcuni
decenni anche in Occidente nelle operazioni di conservazione e restauro del patrimonio
culturale.
Sono sostanzialmente tre le piante utilizzate nella fabbricazione della carta
giapponese: il kozo, il gampi e il mitsumata, di cui viene lavorata la parte floematica, ovvero
la zona del sistema conduttore delle sostanze nutritive, collocato tra cambio e corteccia,
dando fibre lunghe e flessibili.
Il kozo è la pianta più utilizzata anche attualmente, appartenente alla famiglia delle
Moraceae di cui la specie di miglior qualità è la Broussonetia kazinoki, con fibre lunghe e
resistenti.
La corteccia è la parte della pianta lavorata, divisa in tre sezioni a diversa composizione
chimica: la più esterna e scura è la corteccia vera e propria, la seconda di colore verdastro è
ricca di emicellulose e dà carte rigide con tonalità caratteristica, mentre la terza, la più
interna, è bianca e costituita di cellulosa molto pura, che dà carte più pregiate (per
morbidezza e resistenza). È da tenere in considerazione la presenza della lignina: non è un
polisaccaride come la cellulosa e, per la sua natura aromatica, tenderebbe a formare gruppi
cromofori che portano all’ingiallimento della carta. La percentuale presente in totale risulta
minore del 4% (segno di un basso grado di acidità), per cui sono evitabili processi di
delignificazione che apportano sostanze acide, garantendo un più veloce degrado delle fibre
di cellulosa.
Gampi e mitsumata danno carte dalla caratteristiche molto diverse: traslucida e sottile nel
primo caso, lucida, compatta e morbida nel secondo (Fig. 1). Quanto alle loro proprietà
chimiche, il gampi è costituito mediamente dal 22% di emicellulosa e da un 3% di lignina,
all’incirca come per il mitsumata, cosa che garantisce l’assenza di sostanze acide nella carta
prodotta, senza aggiungere additivi (Priori G. F. and Quattrini M. V., 2005).
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Fig. 1 Foto al microscopio ottico (500x) delle fibre di Mitsumata (A), Kozo (B) Gampi (C).
Carte diverse derivano dall’utilizzo di fibre vegetali diverse, e nella maggior parte dei casi
queste vengono mescolate per dare origine alla vasta gamma di qualità di carte.
Per questo possono essere lavorate singolarmente oppure unite per specie diverse, anche
con l’introduzione di fibre erbacee.
Qualunque sia l’origine delle fibre il procedimento per la loro estrazione è
generalmente lo stesso: raccolta del materiale, macerazione in apposite buche scavate nel
terreno e riempite con acqua e calce per periodi che vanno dai pochi giorni fino ad alcuni
mesi ed il risciacquo in acqua. La massa ottenuta viene poi macerata a vapore in soluzione
alcalina di calce e cenere di legna e quindi lavata di nuovo.
Tra i vari trattamenti di cottura e lavaggio le fibre possono essere esposte al sole e a cicli di
freddo per mesi interi, per avere uno sbiancamento naturale.
Vediamo quali sono le componenti principali da considerare: cellulosa ed
emicellulose, oltre alla lignina, qui trascurabile.
2.1 COMPOSIZIONE DELLA CARTA: cellulosa ed emicellulosa
La cellulosa - (C6H10O5)n - è un polisaccaride lineare costituito da unità di glucosio
monomerico unite tra loro tramite legami β-1,4-glicosidici, legami equatoriali che permettono
la costruzione di catene, quindi, lineari, come si può notare in Fig. 2.
Fig. 2 Struttura della cellulosa.
A B C
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La loro lunghezza è strettamente correlata alle proprietà meccaniche della carta,
determinabile grazie a misure del grado di polimerizzazione (DP), che può variare da
qualche migliaio a qualche centinaio di unità, sia in base alla specie vegetale da cui è
estratta, sia per effetto dei trattamenti chimici subiti nel corso della lavorazione (Pasquariello
G.,Valenti P., Maggi O. and Persiani M. G., 2005)
Non sono presenti ramificazioni, il che consente alle catene di cellulosa di avvicinarsi
e legarsi l’una all’altra in fasci tramite legami a idrogeno e forze deboli di Wan der Vaals.
Sono i gruppi ossidrilici dell’anello glucosidico a consentire la formazione di queste strutture,
nonché a conferire determinate proprietà alla cellulosa in sé, e quindi anche ai suoi prodotti
derivati (dati dall’azione chimica facilitata dalla reattività dei gruppi –OH), tra cui la carta.
I fasci possono raggrupparsi in microfibrille del diametro di ca. 100 Å, queste ancora
in macrofibrille ed infine in fibre, circondate spesso da altre sostanze come polisaccaridi con
diverse caratteristiche (es. emicellulose), grassi, cere e proteine (Fig.3).
Come la maggior parte dei polimeri, anche nella cellulosa i fasci si riuniscono
secondo zone cristalline ed amorfe.
Fig. 3 Dall'unità di cellulosa alla pianta.
Le prime sono difficilmente attaccabili da agenti chimici, vista la stabilità della struttura e la
forza del legami presenti, mentre le seconde sono quelle generalmente interessate
dall’azione degradante sia da un punto di vista chimico sia fisico, a partire dall’assorbimento
di acqua con la conseguente introduzione di inquinanti nel tessuto cellulosico, pericolosi per
la stabilità di questi materiali.
La cellulosa non è però solubile in acqua perché la formazione di ponti ad idrogeno con
l’acqua non è di tale intensità da vincere i numerosi ponti ad idrogeno intermolecolari nella
cellulosa.
A parità di lunghezza delle fibre si parlerà di zone cristalline in presenza di assembramenti
regolari e fitti e di zone amorfe in presenza di assembramenti meno regolari e più diradati,
determinabili attraverso diffrattometria a raggi X.
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La cristallinità è espressa numericamente in percentuale dove il 100 indica una sostanza
perfettamente cristallina e lo zero una sostanza amorfa. La cellulosa è semicristallina con
cristallinità generalmente compresa tra 50 e 90%. La cristallinità dipende dal tipo di pianta,
ad esempio il cotone è molto cristallino mentre il legno è scarsamente cristallino.
La parte più fragile e più sensibile alle alterazioni è la parte amorfa. La zona amorfa è
attaccabile da qualunque agente esterno che può reagire o combinarsi con la cellulosa.
Inoltre in queste zone più che altrove possono inserirsi i microrganismi.
Una analoga classificazione sarebbe interessante anche nel caso delle carte giapponesi: in
questo studio non è stato possibile analizzare il grado di cristallinità (si vedano nelle
conclusioni le ipotesi a riguardo), dato utile anche al fine di conoscere come sono, in realtà,
disposte le fibre nel foglio di carta, per capire come gli agenti chimici e biologici possano
attaccarle.
L’emicellulosa è un polisaccaride amorfo a basso peso molecolare simile alla
cellulosa per certi versi, ma costituito dalla ripetizione irregolare e ramificata di unità
saccaridiche diverse, tra cui xilosio, arabinosio, lattosio e glucomannosio.
Sono facilmente idratabili ed idrolizzabili: assorbendo acqua allontanano tra loro le catene di
cellulosa con cui sono strettamente collegate, indebolendo la struttura (M. Copedé, 1991).
Inoltre, il loro grado di polimerizzazione medio è molto minore di quello della cellulosa, per
cui la loro presenza influisce sulle caratteristiche fisiche della carta, irrigidendola, e vengono
quindi generalmente eliminate durante le operazioni di purificazione delle materie prime per
la produzione della carta.
La carta giapponese riporta percentuali diverse di questi composti, a seconda delle fibre e
della parti floematiche utilizzate.
Lignina, emicellulose ed altre molecole, quindi, sono legate alla cellulosa per poter
conferire al materiale particolari qualità. Il rapporto con cui sono presenti può cambiare da
specie a specie, ma la variazione di queste quantità relative fa variare quelle caratteristiche
di cui sopra.
A volte, la presenza stessa di tali sostanze, oppure dei prodotti usati per eliminarle,
costituisce un fattore di degrado.
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3. PROCESSI DI DEGRADO CHIMICI E BIOLOGICI
Il termine “degrado” nel campo della conservazione dei beni cartacei comprende una
lunga serie di modificazioni della cellulosa e non solo, che possono avvenire sia per via
chimica che biotica (processo di biodeterioramento).
La degradazione si esplica già nella perdita delle proprietà estetiche e meccaniche da parte
del documento: tra i vari esempi possibili, alla base sta la frammentazione delle catene di
cellulosa, oppure la formazione di gruppi cromofori che portano all’ingiallimento della carta,
oppure ancora lo svilupparsi di colonie batteriche e/o fungine che modificano
meccanicamente il supporto e lo degradano nutrendosene.
3.1 I MECCANISMI DEL DEGRADO CHIMICO
Il degrado della carta è dovuto a variazioni nella struttura della cellulosa in seguito a
vari processi. Le principali reazioni chimiche che portano a modificazioni della cellulosa sono
l’idrolisi (in particolare l’idrolisi acida) e l’ossidazione.
Una considerazione va fatta per quanto riguarda il primo caso, nonostante sia un tipo di
azione previsto e presente solo in parte nella sperimentazione discussa.
ü L’idrolisi prevede la produzione di scissioni dei legami β glucosidici che uniscono le
molecole di glucosio, processo favorito dalla presenza di acidi in ambiente acquoso (idrolisi
acida), ma anche di basi forti (idrolisi basica).
In ambiente acido il legame acetalico non è stabile: sarà l’ossigeno del ponte β-glucosidico
ad essere attaccato dagli H+ presenti in soluzione.
In questo modo la catena cellulosica si idrolizza ed alle nuove estremità si formano dei
gruppi -CHO sul C1 del primo frammento (glycon) e -OH sul C4 del secondo frammento
(aglycon).
Il protone H+ funge in questo modo da catalizzatore, aprendo la strada all’acqua che indurrà
nuovi fenomeni di degrado all’interno delle fibre.
È una reazione di tipo random, ovvero qualsiasi punto della catena cellulosica può essere
attaccata, il che comporta una depolimerizzazione con la diminuzione del DP medio se la
rottura del ponte glucosidico avviene all’interno della catena, oppure una diminuzione del
peso molecolare medio se si ha un’azione alle estremità, facilitando l’eliminazione di
composti solubili a basso peso molecolare.
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ü I fenomeni di ossidazione, passaggio fondamentale per lo sviluppo della
sperimentazione, sono reazioni indotte sia da sostanze ossidanti acide sia basiche, con
modalità ed esiti differenti. Il risultato può condurre sia alla rottura del legame glucosidico,
come nel caso dell’idrolisi, sia all’attacco dei gruppi alcolici (abbondanti nella cellulosa) che
possono essere ossidati ad aldeidi, chetoni ed acidi carbossilici (Fig. 4).
R C
H
H
OH
ossidazione
R C
O
H
ossidazione
R C
OH
O
gruppo aldeidico gruppo carbossilico
Fig. 4 Ossidazione di un gruppo ossidrilico primario (M. Bicchieri, 1996). Al procedere della reazione, i
gruppi –OH si trasformano in gruppi aldeidici –CHO e, se l’ossidazione viene spinta ulteriormente, ci
sarà una diminuzione di questi ultimi a favore della formazione dei gruppi carbossilici –COOH.
Diventa importante la posizione di questi centri di reazione al fine di determinare l’effetto
provocato dalla loro ossidazione.
Dalla formula di struttura dell’unità glucosidica si possono numerare convenzionalmente gli
atomi dai carbonio dall’1 al 6 in senso orario partendo dal carbonio del legame glucosidico,
come in Fig. 5.
O
CH2OH
RO OR'
OHOH
1
23
4
5
6
Fig. 5 Unità glucosidica; sono numerati i carboni reattivi.
L'ossidazione della cellulosa comporta la trasformazione dei gruppi OH presenti in
posizione C2, C3 e C6 degli anelli glucosidici in gruppi chetonici, aldeidici e carbossilici. In
generale gli agenti ossidanti provocano un'ossidazione non specifica, che porta alla
formazione di gruppi aldeidici o carbossilici sul C6 e di gruppi chetonici, aldeidici e
carbossilici sul C2 e sul C3. Questa ossidazione non specifica avviene, per lo più, nelle zone
amorfe della cellulosa, facilmente attaccabili dagli agenti ossidanti, mentre le zone cristalline
appaiono molto più resistenti e la loro ossidazione porta in genere ad una estesa
frammentazione con conseguente solubilizzazione di oligomeri ossidati.
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Le caratteristiche delle reazioni sono:
ü Ossidazione sul C6:
Il passaggio da gruppo ossidrilico a carbossilico è diretto, poiché la forma aldeidica non è
semplice da sintetizzare. Cellulosa modificata in questo modo (formazione dell’acido
poliglucuronico) trova utilizzo in campo medico e cosmetico come fibre o gel.
ü Ossidazione sui C2 e C3:
Sono reazioni piuttosto simili, in quanto sono carboni “simmetrici” all’interno dell’anello.
Una debole ossidazione porta alla formazione di chetoni sul C2 e/o C3, ma l'ulteriore
ossidazione comporterà l’apertura dell’anello glucosidico con formazione di dialdeidi e
dicarbossili, se non dalla rottura della catena in quel punto, con conseguenti danni alla
struttura macromolecolare della fibra e alle sue caratteristiche chimico-fisiche (si indebolirà
per la legge per cui nessuna struttura è più forte del suo legame più debole).
È un tipo di reazione che avviene non senza difficoltà. Infatti bisogna fornire l’energia
necessaria a rompere il legame C-C all’interno dell’anello, e per ossidare ad aldeide deve
cambiare la forma di ibridizzazione del carbonio, passando da sp2 a sp3. L’anello si deforma,
cambiando dalla struttura a sedia a quella planare: un’ossidazione di questo tipo, quindi,
avviene preferibilmente verso l’estremità delle catene; alternativamente sarà un’ossidazione
superficiale.
La posizione del centro reattivo è importante per valutare quali sono gli effetti – soprattutto
fisici – di queste reazioni: il fatto che sono le estremità delle catene ad essere coinvolte fa si
che i prodotti di reazione (quando si spezza il legame glucosidico) siano a basso peso
molecolare. Questo comporta una perdita in peso da parte del campione cartaceo, ma non
una consistente diminuzione del grado di polimerizzazione, che resterà simile.
La reazione di ossidazione può avere risvolti diversi se la cellulosa di partenza è già
ossidata.
Il meccanismo di reazione in questo caso è quello di una β-alcossi-eliminaizone.
Consiste in un attacco nucleofilo da parte di una base all’idrogeno reso acido dalla vicinanza
con un gruppo carbonilico (in posizione α).
La presenza in posizione β di un buon gruppo uscente favorisce la formazione di un doppio
legame tra i carboni α e β e l’eliminazione del gruppo uscente legato all’ultimo carbonio (Fig.
6).
Guardando la catena ossidata ci si troverà spesso in condizioni di reazione analoghe,
il che favorisce la degradazione anche in un intervallo di pH tra 8-9 e a temperatura
ambiente, in tempi ridotti (2-3 ore).
Anche in questo caso sarà utile tener conto della posizione del carbonio ossidato e del tipo di
ossidazione (ad aldeide, a chetone o acido carbossilico).