dismisura tra il 1949 e il 1959, soprattutto nelle periferie o nei pressi dei grandi e nuovi
supermercati (i cosiddetti Mall). Ma l’America cinematografica era ormai entrata in
una crisi irreversibile: tra il 1945 e il 1950 il pubblico cinematografico calò del 25%,
mentre più o meno nello stesso periodo, il numero di apparecchi televisivi venduti nel
paese crebbe da 6500 a 7 milioni e mezzo.
Il desiderio principale dell’americano medio, stremato dagli anni della guerra, e
desideroso di una rivalsa sociale ed economica, era diventato quello di avere una casa
di proprietà per la propria famiglia, una bella automobile e la possibilità di andare in
vacanza in giro per il paese. E’ proprio la voglia di rinchiudersi nel proprio privato e
nell’intimità della propria famiglia, a favorire il successo del nuovo media, la
televisione, che proprio agli albori vive uno dei suoi periodi migliori, la cosiddetta
prima Golden Age.
Questo termine indica il periodo della televisione americana tra la fine degli anni
Quaranta e quella dei Cinquanta e rappresenta una chiave di lettura molto efficace per
comprendere gli Stati Uniti nel fondamentale periodo degli anni Cinquanta, quando
appariva come un paese costantemente diviso nel voler seguire due strade
diametralmente opposte: da una parte la volontà di mostrare sempre una facciata
perbenista e dedita al progresso e dall’altra quella “di abbandonarsi” alle oscure
pulsioni sotterranee, nate dall’ingresso in un mondo che si percepisce come
profondamente mutato rispetto a quello di pochi anni prima.
C'è un film il cui incipit rappresenta perfettamente queste “due anime” degli Stati Uniti
degli anni Cinquanta: Velluto Blu (Blue Velvet), di David Lynch del 1986. La sequenza
d'apertura permette al regista di raccontare l’essenza profonda della provincia
americana, che da buon provinciale del Montana, cresciuto negli anni Cinquanta, ha
assorbito profondamente. Un mondo lindo e pinto, con steccati bianchi e villini a due
piani tutti simili tra loro, tutti con proprio giardino e garage, immagine-simbolo
dell'American dream. Eppure quest’equilibrio apparente si rompe di continuo: il
rubinetto perde, il tubo si impiglia nelle belle rose, un uomo cade nel fango e, sotto
quell’erba, amorevolmente innaffiata e curata, lottano aspramente orde di insetti. La
metafora è chiara: sotto il candido c’è, ben nascosto, il marcio.
Non è un caso se il “lungo decennio” degli anni Cinquanta si incastri perfettamente tra
due date-simbolo, che hanno profondamente cambiato la faccia degli States e la
coscienza degli americani tutti: il 1945 con lo scoppio delle bombe atomiche su
Hiroshima e Nagasaki, e il 1963 con l’assassinio a Dallas del presidente John F.
Kennedy.
Proprio in questo lasso di tempo la tv americana, appena nata, si propone come
specchio per riflettere tutte le complessità della società che la produce. Più libera
(almeno finché è stata east coast) del cinema, la tv degli anni Cinquanta era pronta a
“raccattare” le suggestioni sociali e politiche che circolavano ad Hollywood solo in
mediati accenni e, in alcuni casi, riuscì ad anticipare tratti di travolgente, surreale
modernità.
In questo contesto le serie televisive assumono un ruolo fondamentale: se da un lato
offrono un impulso determinante alla diffusione dell’American way of life, dall’altro
portano sullo schermo anche le inquietudini che albergano negli animi del ceto medio
statunitense. Se consideriamo la tv, al pari del cinema, come una fedele rappresentante
dell’inconscio collettivo, è importante osservare i rapporti che intercorrono tra la
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nascita e il florido sviluppo di un suo genere e il contesto sociale, storico, politico e
culturale in cui avviene, anche al fine di comprenderne i cambiamenti e le evoluzioni.
E’ interessante vedere come la famiglia sia diventata nella commedia televisiva
americana il fulcro della duplice rappresentazione della realtà statunitense di cui sopra,
a partire dalle prime sitcom, diverse ma in qualche modo complementari: Le avventure
di Ozzie e Harriet (The Adventures of Ozzie and Harriet, 1952-1966) e Lucy ed io (I
love Lucy, 1951-1957).
Il medium televisivo, da quando ha preso forma, è stato fonte di dibattiti per la sua
natura combinatoria di forme e tecnologie riprese dai media preesistenti, soprattutto la
radio e il cinema. Parlare di televisione è stata e resta ancora un’attività sempre molto
praticata, soprattutto per la sua natura di complesso mezzo di comunicazione, per chi la
studia e per chi la guarda.
La televisione ha caratteristiche immutabili che percorrono tutta la sua storia: è un
mezzo di grande consumabilità, fruibile da tutti, inoltre si rileva la sua domesticità,
ossia la presenza semplice e poco esigente, per la possibilità di usufruirne come e
quando si vuole all'interno della propria casa. Infine un’altra caratteristica invariata è la
sua accessibilità, poiché non è necessario un alto grado di alfabetizzazione per guardare
la maggior parte dei programmi televisivi.
Il suo linguaggio è fatto di immagini e suoni, questa sua versatilità comunicativa la
pone come un’efficace rappresentazione di tutto quello che accade nel mondo. La
televisione è diventata dunque una compagna fissa in ogni abitazione di qualsiasi grado
sociale e economico, e rappresenta una presenza insostituibile che accompagna lo
spettatore per tutta la giornata.
Milly Buonanno sottolinea che l’insediamento della televisione nello spazio della casa,
in quanto medium domestico e familiare, consente di adottare comportamenti di
consumo culturale diversi, più flessibili e meno soggetti a vincoli prescrittivi.
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Questa “domesticità” non rappresenta un limite perché come ogni mezzo di
comunicazione di massa, anche la televisione deve rapportarsi con il resto del mondo
ed assorbire le dimensioni culturali, sociali ed economiche della società. La televisione
non può essere isolata al suo interno o vista in maniera negativa nella società, perché
era ed è una finestra sul mondo: rende il presente e ha funzione di relazione sociale. È
rilevante, per procedere nella discussione sulla televisione, che l’attenzione si rivolga al
mezzo inteso come agenzia di cambiamento sociale e culturale che ha effetti sui
contenuti e sulla forma del mezzo stesso.
Secondo David Morley, che, insieme a Richard Hoggart e Stuart Hall diede vita al
Media Group del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham, anche il
consumo mediale è da esaminare in quanto pratica sociale che coinvolge l’audience in
procedure di costruzioni di senso, in cui i lettori di testi mediali sono attivi
decodificatori: i riceventi, intesi come lettori, vengono ora concepiti come partecipanti
alla costruzione del significato, in un incontro dialogico tra testo e lettore.
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L’ambiente
in cui si trova lo spettatore è utile per cercare di capire il risultato di questo incontro,
infatti il luogo privilegiato di analisi è l’ambiente familiare o domestico, in cui si
realizza la prima socializzazione con il mezzo televisivo e in cui la famiglia diventa
l’unità sociale in cui avviene gran parte del consumo.
1 Milly Buonanno, Le formule del racconto televisivo. La sovversione del tempo nelle narrative seriali,
Milano, Sansoni, 2002, p.12.
2 Shaun Moores, Il consumo dei media, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 154.
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I luoghi domestici di fruizione sono spazi umani, il centro delle esperienze, delle
intenzioni, dei desideri e per esaminarli bisognerebbe procedere attraverso l’analisi
dello spazio più ampio in cui sono inseriti, rappresentato dalla società.
James Lull durante la sua ricerca condotta sul contesto domestico di consumo, usò il
metodo dell’etnometodologia, che descrive e spiega come le famiglie costruiscono
interpersonalmente il loro tempo con la televisione e come il medium interviene in altri
aspetti dell’attività comunicativa in casa e altrove.
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Questi brevi accenni teorici possono essere condensati nello studio di Raymond
Williams sulle forme culturali e la televisione. Il concetto di flusso televisivo, da lui
elaborato, risulta adeguato nel passaggio dagli strumenti umanistici della storia della
cultura, come quelli dei cultural studies, a quelli della semiotica. Essi impongono al
testo una continua codifica e decodifica che porta a un insieme di significati ideologici
e mitici. L’elemento comune di entrambi gli approcci è l’interesse per le pratiche e per
le esperienze del consumo mediale all’interno della casa o della famiglia, che ormai
appare come la naturale unità di misura del consumo mediale.
In questo modo il flusso televisivo diventa, come sottolinea Raymond Williams, parte
di «una vita a flusso, e questo continuo gioco di specchi fra condizione umana e
rappresentazione sullo schermo costituisce uno dei principali elementi di fascino e del
suo solido innesto nella vita privata e nelle interazioni tra le persone che all’interno
della casa si svolgono».
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Francesco Casetti conferma il concetto della comunicazione a flusso, soprattutto in
televisione dove «si impone l’elenco degli argomenti e la ripresa del già detto, il
3 James Lull, In famiglia, davanti alla tv, Roma, Maltemi, 2003, p. 75.
4 Raymond Williams, Televisione. Tecnologia e forma culturale, Roma, Editori Riuniti, 1990, pp.16-17.
ricorso alle formule».
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Il concetto di flusso, dunque, può illuminare le modalità di decodifica domestica. In
questo caso è necessario investigare il contesto, gli specifici modi con i quali le
specifiche tecnologie della comunicazione vengono ad acquisire significati e come
sono utilizzate in maniera diversa, per scopi differenti, da persone in ambienti
domestici eterogenei. È essenziale investigare l’attività di guardare la televisione
all’interno del suo scenario naturale.
Il quotidiano si integra perfettamente con la struttura ripetitiva delle serie, esiste una
reciproca connessione perché, come sottolinea Roger Silverstone è «nel quotidiano che
si inseriscono le dimensioni culturali e funzionali dei media […] la televisione rimane
un elemento cruciale da accostare alla dinamica della cultura contemporanea».
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La vita domestica è un fatto sociologico, culturale e storico e durante il consumo
televisivo la nostra domesticità viene costruita e al contempo esibita e trasformata.
La famiglia televisiva assolve, secondo Marina D’Amato, due funzioni: «la
socializzazione primaria dei figli e la stabilizzazione psicologica delle persone adulte».
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Queste attività sono fondamentali per lo sviluppo sociale e mediale del mezzo
televisivo all’interno della famiglia.
La comprensione di questa affermazione sarà facilitata dall’esposizione successiva di
esempi di “serie domestiche” che hanno affrontato le dinamiche familiari, e che ancora
oggi hanno questi temi come punto focale delle loro narrazioni.
5 Francesco Casetti (a cura di), L’immagine al plurale. Serialità e ripetizione nel cinema e nella televisione,
Venezia, Marsilio Editore, 1984, p. 13.
6 Roger Silverstone, Televisione e vita quotidiana, Bologna, Il Mulino, 2000, pp.182-183.
7 Marina D’Amato, La TV dei ragazzi: storie, miti, eroi, Roma, Rai-ERI, 2002, p. 243.
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