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Nel linguaggio psicoterapeutico il rischio iatrogeno definisce in senso più specifico il
problema della responsabilità e dell'etica della psicoterapia. Allora, al di là delle possibili cause
esterne, viene da chiedersi: quanto può influire lo psicoterapeuta nel creare malessere durante lo
stesso processo di cura? Qual'è il potere che esercita per amplificare o indurre patologia? E quanto
la patologia che insorge durante la psicoterapia, il peggioramento, costituisce una fase di un
processo che può risultare curativo al suo termine? Si tratta sempre e comunque di un accadimento
negativo oppure è possibile nel processo terapeutico riinnescare un circolo vizioso?
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1. SULLA IATROGENESI
La letteratura sul rischio iatrogeno è assai scarsa. In passato gli psicoanalisti hanno parlato
più degli altri dei disturbi causati dalle psicoterapie, in opposizione al trattamento psicoanalitico.
Gli americani hanno parlato di danni della psicoterapia in una prima fase degli anni 60', poi le
donne sensibilizzate su temi di ‹‹gender›› negli anni 70' e 80'. Spesso parlare di danni è equivalso a
criticare la terapia come processo e a porla sotto accusa: proporre la sua demonizzazione anziché
utilizzare più proficuamente il concetto di rischio iatrogeno per riflettere sulla sua operatività.
Hillman J. M. (1992) sostiene che l'attenzione all'intrapsichico non faccia altro che togliere
intensità alla nostra ribellione totale. L'enfasi sul mondo interno anziché su quello esterno aiuta il
declino di un atteggiamento attivo nei confronti del mondo: ‹‹se ti guardi indietro, non ti guardi
attorno››. L’autore (Hillman) si scaglia contro l'idea di crescita e di work through e contro il lavoro
terapeutico volto a prendersi cura del bambino negletto che è dentro ognuno di noi. Si scaglia,
inoltre, contro la tendenza della psicoterapia ad internalizzare le emozioni: ‹‹la fantasia della
crescita è una fantasia romantica di una persona armoniosa, sempre in espansione e in crescita,
capace di integrare tutto e di organizzare tutte le parti della sua vita... utilizzando un 'idea sbagliata
che il mondo esterno è materia morta, mentre il mondo interno significhi vita››. Così è fallace
credere che quello che accade nel presente sia dovuto a ciò che è successo nel passato, la teoria cioè
che la nostra storia sia la nostra casualità. Hillman, un po’ romanticamente, fa l'esempio degli artisti
che utilizzano i torti subiti, li sublimano in lavori di estrema intensità e riporta l’esempio di Rilke
che, parlando di psicoterapia, sembra aver dichiarato: ‹‹non voglio che i miei demoni mi vengano
tolti perché mi toglierebbero anche i miei angeli››.
Porsi domande su come ‹‹funziona›› il processo terapeutico e su quali sono i fattori che
‹‹curano›› è estremamente utile, ma inusuale. Già Freud in Analisi terminabile e interminabile, si
era posto questo problema, comparando la psicoterapia agli scacchi di cui possiamo solo conoscere
alcune mosse di apertura e di chiusura; possediamo poi solamente linee guida intuitivamente
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utilizzabili: ‹‹Questo vuoto di apprendimento può essere riempito unicamente attraverso uno studio
diligente dei giochi portati avanti dai maestri››.
Di solito nei libri di terapia si intravedono a grandi linee fattori ritenuti terapeutici; raramente
questo argomento viene trattato in maniera esplicita e pochi autori hanno scelto parametri da
eleggere a concetti/operazioni cardine rispetto alla cura. Tra questi DeBerry S. (1987), all'interno
della cornice teorica ad indirizzo fenomenologico, ritiene che la capacità di ‹‹stabilire rapporto›› ed
il ‹‹focus›› (la capacità di stabilire obiettivi chiari) siano elementi privilegiati affinché una terapia
risulti efficace e affinché ci si possa aspettare un cambiamento. Secondo l’autore il rapporto
equilibrato tra questi due elementi costituisce pertanto l'essenza della terapia. Così Stiles W.B. e
Snow J.S. (1984) e Mallinckrodt F. considerano l'impatto delle sedute, lo stato d'animo e il giudizio
sul processo da parte dell'utente (esplicitati alla fine della seduta) come elementi importanti per un
buon risultato. L'alleanza di lavoro è considerata da altri ingrediente privilegiato. Nella terapia
centrata sul cliente l'empatia, intesa come la qualità del rispecchiamento da parte del clinico delle
sensazioni del paziente, è considerato elemento fondamentale.
Weiss J. e collaboratori (1980) fanno riferimento alle strategie escogitate dai clienti per
disconfermare le proprie credenze patologiche e ‹‹metterere alla prova›› il clinico nella speranza
che non risponda come di solito ci si aspetta; ciò permette ai pazienti una ristrutturazione cognitivo-
emotiva ed il conseguente scioglimento del nodo nevrotico. Molti psicoanalisti considerano così
l'esperienza emotiva correttiva come fattore tra i più curativi della terapia.
Luborsky L. ed altri (1990,1971) si sono interessati a questo argomento all'interno di una
cornice psicodinamica: l'incremento della comprensione di sè nelle relazioni con altri da parte degli
utenti, le interpretazioni da parte dei clinici e la loro accuratezza, l'identificazione del tema
relazionale centrale del paziente, sono considerati operazioni centrali alla cura. Gli autori accennano
alla capacità di interiorizzazione dei soggetti in cura, al loro livello di consapevolezza del materiale
conflittuale, alle abilità del clinico e alla maggiore conformità del terapeuta alle istruzioni del
manuale, come a fattori altrettanto importanti anche se non fondamentali. L'alleanza terapeutica
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rappresenta comunque il fattore studiato in maniera più approfondita: viene decodificato intendendo
sia la soddisfazione di paziente e terapeuta rispetto al processo,sia la loro complementarietà
interpersonale.
Altri psicoanalisti insistono sulla dimensione dell'influenza sociale e dell'influenza
dell'operatore (Grimes W.R., Murdock N.L., 1989); Semerari A.(1991), cognitivista, considera
l'autorevolezza del clinico un fattore molto importante per la cura.
Parlare degli elementi che contribuiscono alla cura significa, però, anche riflettere sul
concetto di normalità e di salute che, come ben ci spiega Jervis G. (1993), sono vaghi, soggettivi e
culturalmente determinanti.
Korchin S. (1976) propone più punti di vista sulla normalità: normalità come salute, come
condizione ideale, come media statistica, come accettabilità sociale, come processo, comunque
mettendo in guardia da un’esposizione completa e univoca sull'argomento. Interessanti come
esempio a tale proposito gli studi di Maslow A.H. e Rogers C. (1954, 1977) sulle persone da loro
definite ‹‹felici›› che li portano a considerare l'autorealizzazione come condizione ideale per
evidenziare quelle che definisce ‹‹esperienze di vetta››: il superamento del dualismo conscio-
inconscio come processo che porta al benessere; la capacità di integrare visioni differenti, il
superamento dialettico degli opposti, si pongono come essenziali allo star bene.
Ma, parlare dei fattori che contribuiscono alla cura porta a dedurre che questi stessi fattori
possano contribuire a situazioni che ‹‹fanno male›› e che producono quindi effetti iatrogeni. Parlare
del rischio iatrogeno vuol dire, infatti, parlare di psicoterapia, del concetto di salute e anche di come
si costruisce la patologia.
Una psicoterapia non è utile di per se stessa, non produce cioè effetti positivi solo per il fatto
di essere esercitata: una psicoterapia può essere dannosa tanto quanto lo può essere una qualsiasi
altra relazione tra individui, anche se legati da contratto professionale (Lambert M., Bergin A. e
Collins J., 1977; Strupp H., Hadley S. e Gomes-Schwartz B., 1977). Essa non è per tutti e non può
far tutto; esistono limiti che attengono alle caratteristiche personali dei potenziali pazienti, limiti
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relativi al tipo di problema presentato, limiti di ciascun orientamento teorico rispetto alle possibili
problematiche di applicazioni, limiti di compatibilità fra le caratteristiche personali di ciascun
paziente e di ciascun terapeuta, limiti agli obiettivi che si possono porre.
Si potrebbero citare ancora altri autori ed altri concetti ritenuti cardine, ma pur volendo rintracciare
nella letteratura una riflessione sulle operazioni terapeutiche fondamentali, il rispetto della
complessità del processo terapeutico porta a ritenere che sia sostanzialmente impossibile e
comunque poco plausibile isolare solo alcune variabili. E così la complessità del processo
terapeutico non permette di definire che per sommi capi operazioni privilegiate.
Si possono comunque analizzare i successi e gli insuccessi connessi al processo terapeutico
distinguendo molti fattori diversi ed interconnessi:
1. fattori che si riferiscono ai pazienti
2. fattori riferiti al clinico
3. fattori inerenti la relazione tra i due
4. fattori impliciti nel processo terapeutico
1.1 FATTORI COLLEGATI AI PAZIENTI
Il paziente è colui che viene incontrato dal terapeuta, allo scopo di raggiungere, all'interno di
un rapporto interpersonale, un processo di conoscenza che lo riguarda.
Se il clinico, per sua definizione, è un adulto investito di un certo ruolo e con una certa cultura, il
paziente può presentare molte variazioni. Il colloquio psicoterapeutico può rivolgersi ad un soggetto
in età evolutiva o in età adulta, di livello culturale alto o basso, con aspetti di personalità diversi.
Bisogna tener presenti diversi fattori riferiti al paziente che possono influenzare lo
svolgimento del colloquio:
a. fattori di personalità: diagnosi, cronicità, motivazioni e aspettative, atteggiamenti verso sè e verso
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il trattamento, abilità e adeguatezza del funzionamento intellettuale, piacevolezza del paziente,
l'essere adatti alla psicoterapia (valutazione fatta da un intervistatore estraneo al processo di cura),
affettività, autoritarismo, interesse ai rapporti sociali, stili di adattamento e di difesa, coscienza di
sè, sensibilità e capacità di insight, competenze espressive;
b. fattori collegati alla situazione di vita: età, sesso, riuscita sociale, situazione familiare precoce,
status culturale, psicoterapie precedenti;
c. fattori fisiologici;
d. fattori relativi al paziente ma evidenziabili solo nel processo di cura: amabilità, atteggiamento
verso il problem solving, valutazione dell'esperienza processuale della cura, segnali
impliciti/espliciti di ambivalenza...
Per quanto riguarda l'età, essa può influenzare molte delle componenti della Gestalt del
colloquio: dalla motivazione all'aspettativa, alla relazione, alle modalità di comunicazione verbale e
non verbale. L'età influenza pure le caratteristiche della personalità: diverse sono quelle
dell'adolescente che si accosta al colloquio rispetto, ad esempio, a quelle del bambino nel periodo di
latenza.
L'influenza di variabili connesse alla personalità è stata riscontrata sia a livello qualitativo
che a livello "sperimentale". Ci si può trovare di fronte ad un soggetto con una buona disponibilità a
collaborare o invece ad un soggetto che manifesta delle difficoltà. Queste possono derivare da
caratteristiche stabili della personalità o da particolari meccanismi messi in atto di fronte alla
situazione nuova e di incertezza suscitata dall'incontro con il terapeuta. A livello descrittivo di
comportamento ci si può trovare di fronte alle situazioni, descritte da Metelli Di Lallo (1954), in cui
il soggetto: parla e dice, parla e non dice, non parla.
Il livello socioeconomico e culturale del soggetto influenza il colloquio sotto vari punti di
vista. In primo luogo un livello culturale e socioeconomico basso può giocare un'influenza sulla
possibilità di reciproca comprensione linguistica da parte del soggetto e del conduttore. Un altro
fattore è relativo alla possibilità per il terapeuta di "comprendere" e di mettersi dal punto di vista del
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soggetto. Per questa ragione alcuni autori sostengono che sia più facile che il clinico possa
accompagnare il paziente se entrambi appartengono ad un medesimo livello socioeconomico, hanno
valori simili, un analogo background e analoghe esperienze di vita. La somiglianza aiuta la
comprensione attraverso un insight intuitivo dell'esperienza del soggetto. A maggior ragione questa
problematica riguarda soggetti che provengono da culture o razze molto diverse.
Hoffman S. e Horowitz I. (1991) mettono in guardia dal trattare quei pazienti che sono stati
infantilizzati in maniera inguaribile dalle troppe terapie fatte: questi all'inizio chiedono terapia per
ragioni narcisistiche e considerano la cura il loro lavoro settimanale. Le molte cure a cui si sono
sottopost creano poi una dipendenza dalla psicoterapia che li porta a funzionare peggio che all'inizio
della prima cura (1991).
Fasolo F. e Ponza I. (1989) discutono il pericolo narcisistico implicito nel trattare pazienti
psicotici e borderline a causa della loro estrema vulnerabilità a qualunque possibile insulto, anche
solamente percepito. Riscontrano a volte disordini narcisistici iatrogeni a seguito di interazioni reali
o fantastizzate. Gli autori presentano poi il caso di un giovane psicotico reattivo anche a un
commento umoristico di uno psicologo che si occupava di espressione artistica. Così alcuni pazienti
psicosomatici - che la letteratura clinica considera carenti di rappresentazioni mentali e rispetto ai
quali si crede che troppo lavoro mentale rischi rimbalzi iatrogeni - non traggono evidenti vantaggi
da quelle psicoterapie le cui razionalizzazioni rischiano una ennesima fuga della malattia fisica.
La signora Annici ha circa cinquanta anni ed è affetta da mal di testa cronici e da una depressione
che segue da vari anni. La signora, insoddisfatta della sua vita da quando si ricorda, ha utilizzato
la depressione e i mal di testa per farsi seguire da più medici negli anni e sembra che i due sintomi
abbiano riempito un vuoto sociale molto notevole. La signora ingaggia un'ennesima terapia con un
terapista conosciuto e prestigioso. Nel descrivermi la terapia i suoi toni sono soddisfatti e ritiene
quest'ultima l'esperienza più soddisfacente delle altre anche per la personalità del clinico che ha
desiderato assecondare ad ogni costo. Viene inviata da me per una consulenza a seguito di una
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serie di problemi fisici (cisti alle ovaie, gastriti, fratture) che si sono manifestati ultimamente. La
signora si dichiara assolutamente non disponibile a lavorare in terapia <<dopo tutto il lavoro che
ho fatto per cercare di capire e per controllare i miei sintomi>>. La signora non ha assolutamente
appreso tecniche di autoanalisi nè ha la capacità di leggere la sua insoddisfazione e i suoi stati
interni. I sintomi fisici, meglio di quelli psicologici, avallano la sua convinzione della bravura del
suo ultimo terapeuta senza aver cambiato nulla nelle sue modalità di affrontare la tensione. Sembra
quasi che delle nuove strutture relazionali e concettuali soffochino emozioni e pensieri utili come
strategie di coping. (Telfener U.)
Wickramasekera I. (1989) considera i pazienti psicosomatici pessimi candidati ad
intraprendere una psicoterapia e analizza la collusione silenziosa che si instaura tra questi pazienti, i
medici generici e le assicurazioni sanitarie rispetto ai fattori sociali che contribuiscono alle
somatizzazioni. Come alternativa all'intervento medico e alla psicoterapia l'autore considera
trattamenti psicofisiologici come il biofeedback.
1.2 FATTORI RIFERITI AL CLINICO
Il terapeuta viene inteso come un professionista capace di condurre una "conversazione" e di
creare un ambiente tale da consentire lo svilupparsi di una situazione dinamica che favorisca il
processo di conoscenza. Egli deve facilitare la conversazione, la relazione e il processo di
conoscenza, ma questi compiti non sono affatto semplici; il loro adempimento dipende da numerose
caratteristiche, abilità e conoscenze che il terapeuta deve possedere. Potremmo classificarle nelle
seguenti categorie:
1) lo schema teorico generale di riferimento;
2) la teoria specifica che fa da guida nell’ideazione e nella conduzione della terapia;