III
lascia trascinare passivamente in balia di correnti, che lo riducono a strumento di
ideologie antiche o moderne che siano. Un pericolo quanto mai odierno, in
un’epoca come la nostra di significativi cambiamenti, di scoperte scientifiche, di
progressive invenzioni tecnologiche che invadono tutti gli ambiti dell’esistenza, in
cui l’uomo sembra esser ridotto ad un’appendice dell’apparato tecnologico.
Riscoprire il vero senso dell’essere umano nella capacità attiva, nella capacità di
pensare, di riflettere e giudicare significa riuscire a dare un limite di responsabilità
a questo automatismo ed evitare che l’uomo ne sia trascinato, come è successo in
passato, oltre la sua volontà e la sua stessa coscienza. Quanto mai attuale e
auspicabile diventa, allora, questa riscoperta delle condizioni dell’esistenza umana
in un mondo diventato sempre più disumano. Centrale l’analisi che ella conduce
sulla logica della modernità e sui guasti da essa prodotti nel XX secolo, logica che,
ancora oggi non abbiamo superato. Quelle che erano le categorie del razionalismo
moderno: un’identità esasperata fino all’estraniazione, la necessità di un progresso
infinito, non sono diverse da quelle del sistema socio-economico attuale,
caratterizzato da un inarrestabile progresso tecnologico e dominato da un’ideologia
basata sul profitto e sul consumo. Si capisce allora quanto attuale possa essere la
riflessione arendtiana, il suo confronto con la condizione umana e con l’inumano
che costantemente la minaccia, il monito alla riconquista di un pensiero nel mondo,
quale unico farmaco per prevenire un ennesimo banale epilogo del male.
Modernità e barbarie sono due facce della stessa medaglia. È questa la
straordinaria lezione che la Arendt ci ha lasciato come eredità della sua diagnosi
IV
epocale. Tutti i suoi libri sono parti di un unico tentativo di comprensione della
catastrofe storico-politica del Novecento, che era stata anche per molti aspetti la
tragedia della sua vita. Ebrea per nascita, tedesca per formazione, americana per
cittadinanza, profuga, costretta a vivere nella condizione di apolide, ha vissuto il
male del novecento in prima persona. Forse per questo meglio di chiunque altro ha
saputo analizzare il male del suo tempo. E forse è anche vero che gli eventi più
negativi hanno almeno un aspetto positivo nella misura in cui possono illuminarci
sui veri valori, possono insegnarci la verità dell’uomo e della vita. Chi come la
Arendt è passato indenne attraverso le tempeste della vita e ha sperimentato il male
dell’uomo e vissuto il dolore, di conseguenza conosce il bene perché comprende
ciò che veramente conta nella vita, e sa quali sono i valori imprescindibili
intrinseci dell’uomo. Da qui la sua passione di comprendere il mondo, di rimanere
fedeli alla realtà delle cose, nel bene e nel male, spinta solo dall’amore per la verità
e da una profonda comprensione del senso della vita umana. Comprendere allora
significa essere in grado di sviluppare un’autonomia di giudizio che rende capaci
di orientarsi nella realtà, interpretando i fatti senza la pretesa di arrivare a verità
ultimative in un processo sempre in svolgimento e mai concluso, da qui
l’autonomia del suo pensiero. La sua estraneità a qualsiasi scuola o corrente, la
rinuncia ad una strutturazione sistematica delle sue riflessioni, rendono difficile
ogni tentativo di dare una collocazione precisa al pensiero di questa donna che,
seppur formatasi a contatto con i maggiori esponenti della filosofia esistenziale
tedesca, rifiuta tuttavia la qualifica di filosofa, facendo del pensare la sua unica
V
disciplina. Allo stesso modo per lei che vive il dramma esistenziale dell’essere
ebrea nell’epoca del totalitarismo, rivendicare la propria identità non significa
lasciarsi intrappolare in una definizione: ebrea, tedesca, donna, filosofa. La stretta
appartenenza a una definizione o a un gruppo rischia di appiattirsi nell’adattamento
e nella conformità. È proprio contro l’anonimo soggetto della massa, che il “chi”
assume la sua identità apparendo in un mondo comune in cui agisce raccontandosi,
assumendo così di volta in volta la sua identità sempre in prima persona. Posta di
fronte ad accadimenti inediti nella storia dell’umanità, la sua esigenza di
comprendere la porta a confrontarsi con una realtà di cui non vuole negare
l’esistenza, una realtà scomoda che lei affronta spregiudicatamente. È la realtà di
Auschwitz, è la realtà del dramma totalitario è la manifestazione del male assoluto.
Ad Auschwitz era stato organizzato il tentativo di estirpare il concetto stesso di
uomo, questa forma inedita di male era stata accompagnata dall’ideologia più
mortifera che l’umanità abbia mai conosciuto, poiché arriva al punto di decretare
che alcuni esseri umani sono superflui. Alcuni, oppure sotto la spinta
dell’automazione e a lungo andare tutti gli esseri umani? Occorreva trovare una
risposta. Fu proprio la sua condizione di apolide, di sradicata dall’esistenza a
fornirle la risposta e darle la possibilità di delinearne i possibili rimedi. La
mancanza di patria, lo sradicamento, la mancanza di uno stato che tutelasse i loro
diritti, aveva reso gli ebrei superflui e per questo facilmente eliminabili. Così come
l’avvento della moderna società di massa aveva distrutto le condizioni
dell’esistenza umana: la vita, la natalità, la mortalità, la mondanità, la pluralità e la
VI
terra, portando a un’evasione suicida dalla realtà, alla scomparsa del pensiero dal
mondo e alla sostituzione dell’azione con la fabbricazione, con il triste e
spaventoso avvento del male banale perché non supportato da pensiero. Allora una
difesa al valore della vita è proposta dalla studiosa riprendendo l’esempio della
polis greca quale modello di conciliazione di pensiero e azione; tale anacronistico
volgersi dietro nasconde un’autentica apertura e speranza nei confronti del futuro.
Esalterà dunque, il significato dell’azione umana, delle parole e degli atti degli
uomini nel loro imprescindibile legame con il mondo; le modalità dello stare
insieme; la possibilità che ogni essere umano preservi quelle caratteristiche di
unicità da cui è garantita la libertà inerente ad ogni nascita. Le alterazioni delle
attività degli uomini e degli spazi in cui tali attività si svolgono hanno finito per
distruggere le stesse condizioni dell’umana esistenza. Con i viaggi nello spazio, gli
uomini hanno cominciato ad abbandonare la terra. Hanno anche iniziato a
trasformare tutti gli artefatti umani in oggetti di consumo, e a vivere in una società
che distrugge la “mondanità” delle cose. La pluralità si è fatta meno evidente nel
conformismo delle società di massa; i caratteri distintivi di ognuno sono diventati
altrettanti fatti di personalità, meramente privati o soggettivi. La scienza moderna
ha persino cominciato a intervenire nella natura cominciando a sperimentare sui
limiti dell’esistenza umana: natalità e mortalità. Dietro questi tentativi di
distruzione e dietro il desiderio di superare i limiti della stessa esistenza umana,
l’autrice intravede la brama di sfuggire ai limiti inerenti alla condizione umana,
questo è ciò che può produrre gli Eichmann e la banalità del male. Sconvolta
VII
dall’avere scoperto che il male del totalitarismo era stato commesso da persone che
non avevano deciso di essere o agire né per il male né per il bene, la Arendt
ripropone la riconquista del pensiero come unica capacità assieme alla
responsabilità di giudizio in grado di poterci fare conservare la nostra dignità. Il
pensiero ci dà, grazie alla capacità di giudicare ciò che è giusto da ciò che non lo è,
la possibilità all’interno della contingenza di poter scegliere, di avviare così al di la
delle regole di condotta già prescritte, un nuovo inizio, tramite le azioni di uomini
che scelgono responsabilmente di dare una svolta, affermando così la loro
individualità, in un mondo comune in cui si esalterà la sovranità della libertà.
Fermati e pensa, questa è la lezione della Arendt. Il male in agguato incombe
sempre e in chiunque rinunci superficialmente ed irresponsabilmente ad esercitare
autonomamente il proprio giudizio individuale, solo esso può mutare ogni passiva
obbedienza in responsabile consenso. Questo monito allora risulta quanto mai
attuale in tempi come i nostri, in cui l’urgenza degli affari, la mancanza di tempo
induce a non pensare e riflettere, bisognerebbe ripensare a ciò che ci ricorda la
studiosa che privilegio solo degli uomini, è però la possibilità, attraverso la ragione
di affrontare il mondo sospinti dal desiderio di dare un senso alla realtà che ci
circonda, lasciandoci coinvolgere senza lasciarci trascinare passivamente, questo
dovrebbe essere motivo di orgoglio per l’uomo e un motivo in più per non farci
rifuggire la nostra stessa condizione.
Capitolo 1
Hannah Arendt: una vita vissuta fra tragedia e
amore per il mondo.
2
1.1. Hannah Arendt.
«Anche nei tempi più oscuri abbiamo il diritto di attenderci una qualche
illuminazione. Ed è molto probabile che essa ci giungerà non tanto da teorie o
concetti, quanto dalla luce incerta, vacillante e spesso fioca che alcuni uomini e
donne, nel corso della loro vita e del loro lavoro, avranno acceso in ogni genere di
circostanze, diffondendola sull’arco di tempo che fu loro concesso di trascorrere
sulla terra
1
».
Una luce che attraverso le opere e la vita di una persona entra nel mondo,
sopravvive nei ricordi, per poi trovare nuova forma ed essere trasmessa, attraverso
racconti……....
Quella che s’intende raccontare è la vita di Hannah Arendt, ripercorrendola
attraverso i suoi lavori, nel tentativo di comprendere la storia del suo vissuto e
delle atrocità della sua epoca.
Riscontratasi con accadimenti gravissimi ed inediti, esprime l’esigenza di una
comprensione, soprattutto, quando venne fuori la verità su Auschwitz; non si
poteva rimanere indifferenti bisognava dedicarsi alla comprensione del mondo.
«Comprendere non significa negare l’atroce, dedurre il fatto inaudito da
precedenti, o spiegare i fenomeni con analogie e affermazioni generali in cui non si
avverte più l’urto della realtà e dell’esperienza. Significa piuttosto esaminare e
portare coscientemente il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle, non
negarne l’esistenza, non sottomettersi supinamente al suo peso. Comprendere
1
H.Arendt, Preface, in Man in Dark Times,Harcourt, Brace e World, New York, 1968, p.IX.
3
significa insomma affrontare spregiudicatamente, attentamente la realtà, qualunque
essa sia»
2
e ancora, «Essere fedeli alla realtà delle cose»
3
. Così ogni opera della
Arendt esprime l’urgenza di comprendere il senso degli avvenimenti e il suo
pensiero è un pensiero secondo, sempre relativo ad un fatto, che deve muoversi
nella direzione indicata dalla realtà, nella fedeltà ad essa. Gli avvenimenti in
questione ci sono ben noti: due guerre mondiali nell’arco di una sola generazione,
l’ascesa al potere di Hitler, la persecuzione degli ebrei, Auschwitz, l’Europa
divenuta una terra di apolidi, due totalitarismi. Qualsiasi lavoro della Arendt
riflette i traumi storici vissuti in prima persona, lo sradicamento, il trauma del
nazismo, l’esilio, ferite che interrompono la continuità della sua vita, ma che
diventano come detto sopra la cifra stessa del suo pensiero. Un pensiero formatisi
nella grande tradizione filosofica tedesca del 900, senza però giurare fedeltà né alla
fenomenologia e nemmeno all’esistenzialismo, seppure quest’ultimo, riconosciuto
come proprio contesto filosofico di provenienza: «Se posso dire di “provenire da
qualche parte”, è dalla tradizione della filosofia tedesca»
4
.
Hannah Arendt era nata il 14 ottobre 1906 a Linden, un sobborgo di Hannover
dove allora abitavano Martha e Paul Arendt; la sua era una famiglia ebrea
benestante con lunga tradizione mercantile a Königsberg, entrambi i genitori
appartenevano dunque alla borghesia ebraica, ma non avevano legami particolari
con il movimento e le idee sioniste. La Arendt parlò solo rare volte della sua
2
H.Arendt, Le origini del totalitarismo, prefazione alla prima edizione, Milano, Ed.Comunita’,1999,p.LXXXII.
3
H.Arendt, lettera a Karl Jaspers, 11 giugno 1965, in H.Arendt-Karl Jaspers, Briefwechsel 1926-1969;
trad.it.Hannah Arendt- Karl Jaspers Carteggio1926-1969 Filosofia e politica, Milano, Feltrinelli 1989, p.218.
4
Da una lettera del 24 luglio 1963 a Gershom Scholem in H.Arendt, Ebraismo e modernità, Milano, Feltrinelli,
2001, p.221.
4
infanzia, un’infanzia radiosa che era stata tagliata in due dalla morte di suo padre,
un evento che portò lentamente al termine la gaiezza e la felicità dei suoi primi
anni di vita. Quel senso di sfiducia legato a quella sua prima perdita, trovarono
sfogo nella poesia, così sin dall’adolescenza si era servita del linguaggio poetico; le
poesie erano le cose più private della sua vita, ed era nella poesia e per suo mezzo,
che riusciva a capire se stessa.
Importante fu il ruolo della mamma, Martha Arendt, rimasta sola con lei per tutta
la giovinezza, Hannah continuò ad essere una figlia molto devota, leale nei suoi
confronti, seppur talvolta legata a lei da sentimenti misti d’intimità e di rifiuto,
tenerezza e ostilità. Il suo stesso carattere indipendente, la sua mentalità aperta ed
esente da pregiudizi, reca forte l’impronta del modello materno; sarà soltanto dopo
l’inizio degli studi universitari che la Arendt comincerà a sviluppare un’autonomia
di pensiero e ad allontanarsi dalle idee della madre, ritenute ormai troppo limitate.
Ma si staccò definitivamente dal legame simbiotico con lei, quando si sposò a
Heinrich Blücher
5
, e anche allora il distacco fu penoso, come accade spesso
quando madre e marito appartengono a mondi e sono di temperamento
completamente diverso. Durante gli anni della prima guerra mondiale Martha e
Hannah, trascorsero giorni terribili e pieni di ansia, soprattutto negli ultimi giorni
di agosto 1914, quando l’armata russa stava per occupare la città di Königsberg e
furono costrette a fuggire a Berlino, ma furono anche giorni di fame e carestia,
5
Heinrich Blücher (1899-1970), secondo marito di Hannah Arendt, berlinese, ha combattuto nella prima guerra
mondiale. Membro del partito comunista tedesco, partecipò a Berlino, nel 1919, al tentativo insurrezionale degli
spartachisti. Profugo in Francia nel 1933, conobbe Hannah Arendt e la sposò nel 1940. Autodidatta, ha influenzato
molto il pensiero politico della filosofa. Dal 1941 visse con la moglie a New York City. Dopo avere insegnato
filosofia dell’arte alla New York School for social Research, è stato professore di filosofia al Bard college (N.Y.).
5
come la maggioranza dei tedeschi anche loro soffrivano per la scarsezza dei viveri.
Intanto dopo la fine della guerra Martha Arendt si risposò con Martin Beerwald, la
cui moglie, era morta lasciandolo solo con le due figlie, Clara ed Eva Beerwald.
Difficili furono comunque i primi anni di convivenza, e se Martha riuscì a
conquistarsi la simpatia delle due figlie di lui, bisognose di cure e di affetto, per
Martin Beerward, la figliastra fu un mistero insondabile, così lasciò che fosse la
madre a occuparsene, la quale cercò in tutti i modi di capire e andare incontro a
quella figlia che agli occhi di Beewarld appariva fin troppo intelligente,
indipendente e ostinata. Furono quegli gli anni delle amicizie con Ernst Grumach e
con Anne Mendelssohn con la quale strinse un rapporto di grande amicizia per il
resto della sua vita, furono questi rapporti che intensificarono ulteriormente i suoi
interessi di studio; Ernst Grumach, ad esempio aveva sentito le prime lezioni di
Martin Heidegger, e raccontò le sue prime impressioni ad Hannah, Anne
Mendelssohn aveva invece conseguito i suoi studi ad Heidelberg prima, e
successivamente ad Amburgo dove concluse il dottorato di filosofia con Ernst
Cassirer. Non meno brillante fu la carriera scolastica della Arendt, anzi questi
giovani amici di cui lei soleva attorniarsi erano tutti impressionati dal suo vigore
intellettuale, come ricordava la sua amica Anne “leggeva tutto”, comprendeva
filosofia, romanzi, poesie. Precoce sin da bambina aveva stupito la madre già
all’età di dodici anni imparando a memoria molte opere di poeti, conseguì i suoi
studi superiori dapprima alla Luiseschule, scuola dalla quale per un episodio mai
precisato fu espulsa, poi a Berlino dove oltre ai corsi di greco e latino assisté a
6
lezioni di teologia cristiana tenuti da Romano Guardini; fu proprio in quella
occasione che la Arendt sentì parlare per la prima volta di Soren Kierkegaard,
autore che suscitò subito in lei un notevole interesse. Nel 1924 conseguì l’Abitur, il
nostro diploma di maturità; durante gli anni in cui si preparava per l’esame, Ernst
Grumach divenne il suo ragazzo. Questa relazione aprì la strada a molte altre
amicizie, molte delle quali furono tanto stimolanti intellettualmente, e casa
Beewald dove Hannah aveva una camera tutta per sé, divenne luogo di incontro e
di raduno di un piccolo circolo di grecisti.
1.2. Gli anni della formazione filosofica.
Durante gli anni universitari – dal 1924 al 1929 la Arendt fu a contatto con i
maggiori esponenti della filosofia tedesca contemporanea; iscrittasi all’università
di Marburg, dove intanto si faceva strada la tendenza più interessante di quegli
anni, la fenomenologia di Husserl, ebbe modo anche di accostarsi al pensiero
esistenzialista dell’appena arrivato Martin Heidegger; fu proprio in quel periodo
che Hannah subì il fascino del giovane emergente filosofo, così come scriverà più
tardi, egli era «il re nascosto che regnava sul reame del pensiero»
6
. Al pari di molti
studenti la Arendt, era pronta a passare da un’università all’altra per trovare
programmi e docenti giusti che potessero ispirare il clima adatto per scrivere la sua
dissertazione; Marburg le parve il luogo adeguato, sia per la nuova tendenza
6
H.Arendt, Martin Heidegger at Eighty, in “New York Review of Books” (21 ottobre 1971), p.51.trad.it. Martin
Heidegger a ottant’anni, A. Dal Lago (a cura di), in “MicroMega”, 1988, pp. 169-179.
7
filosofica di Husserl, sia per il suo maestro Martin Heidegger, il quale stava
sviluppando la fenomenologia husserliana in direzioni completamente nuove. Si
trattò di una vera rivoluzione filosofica, che appassionò profondamente la giovane
allieva e che sarebbe stata decisiva per il suo sviluppo personale nonché
intellettuale. Quando ormai era diventata famosa come il suo maestro, ricordò gli
anni trascorsi all’università di Marburg, come quelli del «primo amore»
7
; la
filosofia fu il suo amore, ma questa s’incarnava in Martin Heidegger.
Conoscerlo, significò per lei anche un mutamento del comune modo di sentire e
pensare, ai suoi occhi Heidegger era come il personaggio di una leggenda: dotato
di un talento geniale, poetico, un pò in disparte dal mondo accademico, si univano
in lui una certa commistione di vitalità e profondità di pensiero, da tanto fascino la
giovane allieva ne rimase inevitabilmente rapita; così i due ebbero un’intensa
relazione sentimentale
8
vissuta in segreto e in tutta riservatezza. Hannah aveva
appena compiuto diciotto anni, quando lo conobbe, lui invece era più anziano di lei
di diciassette anni, era un uomo sposato e padre di due figli, ciò nonostante aveva
permesso che quest’amore clandestino sbocciasse, con lettere e poesie alimentava
nella brillante ebrea un ardente amore per lui, anche se tutto nella sua vita era
contrario a farglielo accettare completamente. Fu proprio da questi sentimenti
intensi e combattuti, da un lato un amore illecito e impossibile, dall’altro la voglia
7
Arendt a Fr.Pierre Riches, 21 agosto 1974, Congresso.
8
La relazione “intima”tra Martin Heidegger e Hannah Arendt era emersa per la prima volta dalla pubblicazione nel
1982 di una biografia dedicata alla Arendt di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt: for Love of the World,
trad.it.Hannah Arendt:Per amore del mondo. Successivamente la relazione venne confermata dalla pubblicazione
della raccolta di Lettere nel 1998, in Arendt Hannah-Heidegger Martin, Lettere 1925-1975, che comprende, tra
l’altro, una serie di poesie inedite di Heidegger alla Arendt, che sottolineano in modo ancora più eloquente la
dimensione privata di questo rapporto.
8
di tenere in vita la gioia che questo le aveva dato, che durante l’estate del 1925 la
Arendt aveva scritto e mandato ad Heidegger uno scritto che è un autoritratto: Die
Schatten
9
(le ombre) dove raccontando una storia cercava di controllare e
circoscrivere con le parole quel suo primo amore. E’ uno scritto a volte
malinconico e pieno d’angoscia, dove talvolta si avverte quel risentimento per la
sua giovinezza di orfana, indifesa e tradita, la paura di sentirsi prigioniera, quasi
sopraffatta per aver permesso a se stessa nuovi desideri e un nuovo amore per la
vita, paura per l’essere stata sfiorata dallo “straordinario” e dal “magico” ed
insieme la voglia di rimanere devotamente attaccata alle ombre fuggenti del suo
passato. In qualche modo la Arendt cercava con il suo scritto di liberarsi dal
dolore, narrando e raccontando la sua storia, narrandola e traducendola in parole
per meglio sopportarne il peso, ma questo suo tentativo, non ebbe allora successo,
almeno fin quando lei non si mettesse a raccontare la storia di un’altra donna,
come quando scrisse la biografia di Rahel Varnhagen
10
,come ella stessa ebbe a dire
qualche anno dopo, Rahel fu per lei «la mia più intima amica anche se morta da più
di cento anni»
11
. Era stata la sua cara amica Anne Mendelssohn a parlarle per la
prima volta di quest’ebrea, ma fu, mentre preparava uno studio sul romanticismo
tedesco, che s’imbatté nella figura di Rahel Varnhagen rimanendo colpita dalla sua
intelligenza fresca, originale e anticonformista, e scoprendo in lei una sensibilità e
vulnerabilità simili alla sua. Nelle lettere e nei diari di Rahel, la Arendt aveva
9
Die Schatten, si trova fra le carte Arendt alla Biblioteca del Congresso
10
H.Arendt, Rahel Varnhagen: The Life of a Jewess, East and West Library, London 1958; trad.it.Rahel Varnhagen.
Storia di un’ebrea, il Saggiatore, Milano 1988.
11
Arendt a Blucher, 7 luglio 1936, Congresso.
9
scoperto l’amarezza e la delusione per un amore che come il suo era stato respinto,
il conte Karl von Finckenstein aveva smesso di frequentare il salotto di Rahel per il
bene della sua posizione e della sua famiglia; nella sua casa la Varnhagen riuniva
gli spiriti ribelli della sua epoca da Novalis, Schlegel a Schleiermacher, esponenti
di quella cultura illuministica che in nome di una comune razionalità
universalistica, eliminava differenze di razza, religione, classe. La delusione per il
suo amore non corrisposto l’aveva fatta sentire così come Hannah sentiva di stare
diventando, una persona che si andava definendo sempre più. Tutti i tentativi che
erano stati fatti da Rahel per sentirsi protetta, sicura, come a casa sua, erano stati
vanificati dalla fine del suo amore con il conte, ma non si era arresa alla sconfitta,
anzi, cercò di trarne vantaggio, si abbandonò a nuove riflessioni sul mondo
lasciando il posto per nuove intuizioni arrivando persino a concludere «Devo
dunque lasciar cadere tutto su di me, come il temporale se sono senza ombrello»
12
.
Analoga fu la conclusione della Arendt, tramite l’esperienza di un amore
impossibile era arrivata a concepire la sofferenza come il vero punto, la vera
ricompensa, come ciò che apporta saggezza alla stessa vita; così anche Hannah
come Rahel non si rinchiuse nella propria interiorità, ma si aprì al mondo e a nuove
intuizioni, non decise di dimenticare, ma di accettare la sua infelicità e di parlarne
con l’accento della verità.
12
H.Arendt, Rahel Varnhagen:The Life of a Jewess, East and West Library, London 1958 p.21; trd.it.Rahel
Varnhagen.Storia di un’ ebrea, il Saggiatore, Milano 1988 p.99.