2
Il coesistere di culture intrinsecamente differenti implica la comprensione e il
reciproco rispetto di valori e regole, ma questo spesso non accade qualora
l’osservanza di una determinata pratica contrasti con leggi o principi etici e morali
del gruppo di maggioranza. In tal caso la rivendicazione dell’identità culturale -
diritto legittimo e prezioso fattore di arricchimento in una società multietnica - può
divenire motivo di contrasto, portando a giudicare pratiche culturali come veri e
propri reati, reati culturali per la precisione, essendo il loro esercizio dettato da un
modello culturale diffuso e riconosciuto all’interno del proprio gruppo di
appartenenza.
Nel secondo capitolo, l’attenzione si è focalizzata su certi tipi di reati che
coinvolgono la differenza culturale ma violano alcuni diritti umani fondamentali:
l’aborto selettivo largamente praticato in Cina, e il delitto d’onore assai diffuso
lungo tutta l’area mediorientale.
Dall’analisi di entrambi i fenomeni si evince come in alcuni paesi i modelli culturali
possano avere un impatto negativo sulla vita delle donne più che su quella degli
uomini, in quanto una parte sicuramente più consistente del tempo e dell’energia
delle donne confluisce nella vita privata, familiare e domestica, ambito in cui, come
è stato detto, si tramandano costumi e valori
3
.
La regolamentazione della vita personale, familiare, sessuale e riproduttiva,
dunque, coinvolge e spesso ostacola la vita delle donne; quando questo accade, le
pratiche culturali che si attuano in violazione di loro diritti individuali fondamentali
divengono non solo “reati culturali”, ma anche “reati di genere”.
La pratica culturale che può essere assunta a simbolo di tutti i reati culturali e di
genere è costituita dalle mutilazioni genitali femminili, cui è stato interamente
dedicato il terzo capitolo. Si tratta di un costume fortemente diffuso e difeso dalle
popolazioni che lo praticano, mentre è generalmente condannato dalle società
occidentali.
In seguito all’enorme flusso migratorio che ha caratterizzato gli ultimi venti anni, le
popolazioni provenienti dalle zone africane hanno portato in Europa, non solo una
diversa lingua e religione, ma anche usi e costumi propri, tra cui la pratica delle
mgf.
Nel quarto capito è presente una dettagliata analisi della realtà italiana e del modo
in cui in viene affrontato il problema delle mutilazioni genitali, prendendo in
considerazione l’esperienza e il lavoro maturati in questo ambito da due ginecologi
3
Ibidem.
3
somali, il dottor Abdulcadir Omar Hussen, responsabile del Centro di riferimento
per la prevenzione e la cura delle complicanze delle mgf di Firenze, e il dottor
Abdulcadir Mohamùd Giama, presidente della Comsed (Cooperation for Medical
Service and Development) di Crotone, organizzazione da anni impegnata a
combattere le mutilazioni genitali, sia in Italia che in Somalia.
Un aspetto che ha meritato di essere approfondito riguarda la proposta, da parte
del dottor Hussen e di sua moglie, la dottoressa Lucrezia Catania, di un rito
simbolico alternativo quale “soluzione compromissoria”
4
da accettare in vista di un
totale e definitivo abbandono della pratica dell’infibulazione.
Il rito, fortemente criticato dal dottor Giama, il quale sostiene la tesi secondo cui
accettandolo si giustificano e accettano anche i disvalori che stanno alla base delle
mgf (la violazione dei diritti umani delle donne e delle bambine), mostra la
difficoltà nell’affrontare uno spinoso problema qual è quello delle mutilazioni,
problema che coinvolge molteplici aspetti: culturale, giuridico, sanitario e della
tutela di determinati diritti umani fondamentali.
Proprio su questo punto verte l’ultimo capitolo, dedicato al diritto internazionale in
materia di tutela dei diritti delle donne e delle bambine; capitolo che ripercorre le
tappe fondamentali che hanno condotto al riconoscimento di alcuni diritti
inviolabili della persona in generale e della donna in particolare.
4
L. Catania e A.O. Hussen, Ferite per sempre. Le mutilazioni genitali femminili e la proposta del rito
simbolico alternativo, DeriveApprodi edizioni, Roma, novembre 2005, p. 31.
4
CAPITOLO 1
Problemi di giustizia multiculturale
Grazie ad alcuni importanti testi normativi della legislazione internazionale, i diritti
e le libertà delle persone sono ormai formalmente riconosciuti da buona parte degli
stati del mondo. Fondamento del concetto di diritti umani è l’universalismo di tali
diritti, un universalismo che si è poi articolato nella categoria della differenza, sia
essa religiosa, politica, etnica, culturale e sessuale, producendo effetti differenti.
Alla base di questa dottrina vi è il riconoscimento di valori fondamentali quali la
dignità, l’integrità e l’uguaglianza degli individui. Riprendendo il giudizio di
Bobbio, “altro è parlare di diritti, di diritti sempre nuovi e sempre più estesi, e
giustificarli con argomenti persuasivi, altro è assicurare loro una protezione
effettiva”
5
. È, dunque, alle società, alle istituzioni, ai governi e alle leggi di uno stato
che spetta il compito di riconoscerli, salvaguardarli e garantirli, creando le
condizioni perché possano essere esercitati.
Nel Novecento il tema dei diritti umani ha ricevuto un forte impulso con
l’approvazione della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo che ha
trasformato, almeno sul piano normativo, l’ordine giuridico del mondo portandolo
dallo stato di natura allo stato civile.
Nel tempo, il concetto di diritti umani è stato progressivamente ridefinito e
soprattutto negli ultimi decenni, in seguito al processo di globalizzazione, si è
fortemente espanso.
In particolare, l’insieme di principi morali che tende a governare i rapporti fra gli
individui e fra gli individui e lo stato si è ulteriormente delineato, producendo un
allargamento della sfera dei diritti. Ai diritti civili si sono affiancati quelli politici, i
diritti di prima generazione, cui si sono aggiunti quelli socio-economici, di seconda
generazione.
5
N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, p. 63.
5
1.1 I diritti culturali
L’età della globalizzazione, se da un lato ha consentito lo sviluppo dei principi
universali dei diritti umani su scala mondiale, dall’altro ha spinto identità
particolaristiche nazionali, etniche, religiose, razziali e linguistiche a rivendicare il
diritto alla propria identità culturale.
Pertanto, con l’avvento delle società multiculturali hanno visto la luce nuovi diritti,
non quelli individuali e universali sanciti dalla Dichiarazione Universale, bensì
collettivi e particolari. Si tratta in particolar modo di diritti “culturali” - come il
“diritto alla pace, allo sviluppo sostenibile e a un ambiente vivibile”
6
- che
costituiscono diritti nuovi, di terza generazione, e la cui teorizzazione è ancora
incerta proprio per questo carattere di novità. Sono nuovi perché aggiuntivi rispetto
ai tradizionali diritti - in primo luogo di libertà e uguaglianza - tutelati dai sistemi
costituzionali e sono storici, cioè culturalmente situati nel tempo e nello spazio, nati
quando si sono avvertiti nuovi bisogni
7
.
La necessità di tradurre questi bisogni in richieste politiche accolte e formalizzate
sul terreno giuridico ha concesso ai diritti collettivi di materializzarsi e imporsi
nelle nostre società multiculturali. Per quanto concerne specificatamente i diritti
culturali, il loro tratto peculiare risiede nel fatto che essi, come spiega Ferlito,
“possiedono sempre un elemento forte che marca una specificità o una diversità di
natura culturale e/o religiosa”
8
. Il contenuto di questi diritti è infatti determinato
dall’appartenenza del soggetto ad una comunità di tipo culturale, etnico o religioso,
ed è legato alle pratiche e ai comportamenti che il soggetto adotta in quanto
membro di quella comunità.
Si tratta perciò di diritti richiesti dagli individui non in quanto singoli, ma in
quanto membri di una comunità e la loro funzione specifica, in tal caso, consiste nel
fatto di essere finalizzati alla tutela dell’identità del gruppo stesso (diritti
‘collettivi’) e dei soggetti che ne sono parte (diritti ‘individuali’)
9
.
Più una società diviene multiculturale, più le istanze di riconoscimento e di tutela
delle identità culturali passano attraverso la domanda di diritti il cui contenuto è
definito da un intreccio inestricabile di fatto religioso e fatto culturale. Religione,
tradizione e cultura sono dunque fortemente collegate e ridurre il contesto
6
S. Bartolini (a cura di), A volto scoperto. Donne e diritti umani, manifestolibri, Roma 2002, p. 13.
7
N. Bobbio, op. cit., pp. XIII-XV.
8
S. Ferlito, op. cit., p. 143.
9
S. Ferlito, op. cit., pp. 151-155.
6
multiculturale a formule giuridiche o tradurre l’identità culturale/religiosa in una
pluralità di diritti soggettivi può complicare notevolmente la convivenza.
Se fino a pochi decenni fa ci si aspettava dai gruppi minoritari che si assimilassero
alle culture di maggioranza, ora, grazie all’emergere della rivendicazione dei diritti
culturali, questa attesa di assimilazione è spesso considerata oppressiva e molti
paesi occidentali cercano di escogitare nuove linee di condotta politica, più sensibili
alla preesistenza delle differenze culturali.
Ma cosa bisogna fare quando le pretese di culture o religioni minoritarie collidono
con il principio del rispetto dei diritti umani che è tutelato, almeno formalmente,
dagli stati liberaldemocratici?
In merito a ciò, appaiono illuminanti le argomentazioni a favore dei diritti di
gruppo del politologo canadese Will Kymlicka, autore de La cittadinanza
multiculturale, il quale suggerisce di limitare le rivendicazioni di diritti culturali
solo a gruppi che sono liberali al loro interno
10
. Egli tenta di smorzare i contrasti
che possono sorgere tra principi liberali e pratiche dei gruppi culturali distinguendo
tra “restrizioni interne” e “protezioni interne”: mentre le restrizioni interne
rimandano alle rivendicazioni di un gruppo contro i suoi stessi membri, le
protezioni esterne sono quelle che i membri di un gruppo indirizzano contro la
società più vasta
11
. Gli stati liberali, da parte loro, “possono concedere il proprio
appoggio a diritti di minoranza solo nella misura in cui questi ultimi siano
coerenti con il rispetto della libertà e della autonomia degli individui”
12
.
Un gruppo che reclama diritti speciali deve autogovernarsi secondo principi
chiaramente liberali, senza ledere le libertà fondamentali dei suoi membri. Ne
consegue che la rivendicazione dell’identità culturale di un gruppo minoritario non
possa farsi valere se essa comporta una violazione dei diritti individuali dei soggetti
coinvolti.
10
W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, il Mulino, Bologna 1999, p. 95.
11
W. Kymlicka, op. cit., pp. 94-96.
12
W. Kymlicka, op. cit., p. 95.
7
1.2 Questioni di genere
Esiste uno stretto legame tra la dottrina dei diritti umani e l’elaborazione della
cultura femminile. All’universalità e all’eguaglianza, principi ordinatori della
società, si è affiancato il concetto di differenza. Il rapporto, o il contrasto, fra
l’uguaglianza che rinvia alla parità dei diritti e la differenza che allude
all’irriducibilità del soggetto, ha una lunga storia.
Da quando le società e le culture hanno interagito, confrontandosi tra di esse, la
condizione delle donne, dei bambini, dei rituali del sesso e del matrimonio hanno
occupato un posto rilevante all’interno dei dialoghi interculturali. Non dovrebbe,
pertanto, stupire che la convivenza multiculturale venga turbata da pratiche e
usanze che rivelano una differente concezione della sfera privata degli individui;
sfera privata che in generale è stata concepita da ogni cultura come comprendente
soprattutto le donne e i bambini, la regolamentazione dell’attività sessuale, della
nascita e della morte
13
.
Dodici sono le usanze che più di frequente hanno portato a scontri interculturali
14
:
1. Le mutilazioni genitali femminili;
2. La poligamia;
3. I sistemi musulmano ed ebraico di macellazione degli animali;
4. I matrimoni combinati;
5. I matrimoni tra gradi proibiti di parentela;
6. Gli sfregi alle guance o ad altre parti del corpo dei bambini;
7. L’allontanamento delle ragazze musulmane dalle pratiche miste
quali quelle sportive (soprattutto il nuoto);
8. La pressione da parte musulmana perché le ragazze indossino l’hijab (il velo);
9. Quella da parte sikh sull’indossare o meno il turbante;
10. Il rifiuto degli zingari e degli amish di mandare i loro bambini alle scuole
pubbliche;
11. Le richieste di permesso degli indù di cremare i defunti;
12. La condizione di subordinazione della donna, con tutto ciò che essa comporta.
Delle dodici usanze, sette riguardano la condizione delle donne e denotano la
tendenza a perpetrare usi e costumi che subordinano la figura femminile.
13
S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era
globale, il Mulino, Bologna 2005, p. 73.
14
S. Benhabib, op. cit., p. 119.