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2. LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO
a) I presupposti della dichiarazione di fallimento
Per potersi applicare la normativa fallimentare, si deve vagliare l’esistenza
di due presupposti fondamentali:
I. che il debitore rivesta la natura di imprenditore commerciale
(presupposto soggettivo)
II. che il medesimo si trovi in quello che viene definito “stato di
insolvenza” (presupposto oggettivo).
I Per ciò che concerne il primo presupposto, si deve guardare all’art. 1 del
R.D. 267/1942 (d’ora innanzi pure legge fallimentare o l.f.), che, al
primo comma, così statuisce:
“Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo
gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti
pubblici ed i piccoli imprenditori”.
Dalla formulazione della prima parte della norma, rimasta invariata, si
evince che sia assoggettabile al fallimento esclusivamente l’imprenditore
(privato e non piccolo) esercente un’attività commerciale, organizzata in
forma individuale o societaria.
È necessario, pertanto, comprendere cosa si intenda per imprenditore
commerciale.
La relativa nozione si desume dal combinato disposto degli articoli 2082 e
2195 del codice civile, secondo cui è imprenditore commerciale chi
esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni o di servizi, la quale sia riconducibile
ad una delle attività indicate dal primo comma del suddetto art. 2195,
ovvero sia:
a) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi;
b) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni;
c) un'attività di trasporto per terra, o per acqua o per aria;
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d) un'attività bancaria o assicurativa;
e) un’altra attività, ausiliaria delle precedenti.
Il riferimento alla professionalità indica lo svolgimento dell’attività
economica (ovvero quella che, a scopo di lucro, mira a soddisfare gli altrui
bisogni) in maniera sistematica e continuativa, mentre l’attributo
dell’organizzazione attiene al coordinamento dei mezzi (beni e capitali)
nonché dell’altrui lavoro.
La qualifica di imprenditore commerciale si acquista in seguito all’effettivo
e concreto esercizio di un’attività commerciale (nei termini appena
esposti), a prescindere dall’iscrizione nel registro delle imprese o
dall’intestazione della licenza di commercio, che, ove mancanti non fanno
perdere tale attributo (in caso di effettivo esercizio, pur abusivo) e se
presenti, non determinano una presunzione assoluta di esercizio d’impresa,
pur costituendo seri indizi in merito.
Il riferimento all’esercizio di attività commerciale continua a preservare
dall’assoggettamento alla legge fallimentare gli imprenditori agricoli;
trattamento preferenziale questo, sempre meno giustificabile.
Innanzitutto perché, col mutare dei tempi e il progredire della tecnologia,
l’attività agricola è sempre più assimilabile a qualsiasi altra attività
imprenditoriale, soggiacendo sempre meno al c.d. rischio ambientale
(avversità climatiche, mancata resa del fondo ecc.); in secondo luogo
poiché, con le modifiche alla nozione di imprenditore agricolo di cui
all’art. 2135 c.c., operate dal d.lgs. 228/2001, la portata di tale qualifica è
stata notevolmente ampliata, grazie all’inclusione dell’allevamento di
animali (e non più solo di bestiame) e, soprattutto al superamento del
legame indissolubile tra produzione e terra, operato dal secondo comma del
nuovo art. 2135 c.c..
In tal modo sono oggi imprese agricole (non soggette, quindi, al
fallimento), anche, ad esempio, gli allevamenti ittici, le aziende conserviere
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e casearie, gli allevamenti di animali in batteria, da pelliccia ecc.; e tutto
ciò, ovviamente, a prescindere che si tratti di imprenditore individuale o
collettivo, come una società di persone o, addirittura, di capitali.
Il primo comma dell’art. 1 sottrae, poi, espressamente, alla legge
fallimentare gli enti pubblici, riferendosi a quelli economici, ovvero a
quelli che possono svolgere un’attività di carattere imprenditoriale.
Ciò è motivato dal fatto che tale attività è accessoria al perseguimento
dell’interesse pubblico, finalità principale di tali enti, inconciliabile,
secondo la dottrina prevalente, con la normativa fallimentare, che mira,
invece, alla tutela di diritti di carattere privatistico.
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Sono esclusi dall’applicazione della normativa anche i piccoli imprenditori,
categoria, quest’ultima, per la quale molto è cambiato con la riforma.
Così recita il rinnovato secondo comma dell’art. 1:
“Ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti
un'attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche
alternativamente:
a) hanno effettuato investimenti nell'azienda per un capitale di valore
superiore a euro trecentomila;
b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati
sulla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività se di durata
inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro
duecentomila.”
Innanzitutto, pertanto, la norma opera, adesso, un’equiparazione tra
imprenditori individuali e collettivi, cosicché anche le piccole società
commerciali (oltre ai piccoli imprenditori individuali) possano essere
escluse dall’applicazione delle procedure concorsuali, ove abbiano i
previsti requisiti dimensionali.
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Cfr. Caramaschi, “Compendio di Diritto Fallimentare” - Simone, 2006.
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Cfr. Santangeli, “Il nuovo fallimento” – Giuffrè, 2006.
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Ed è qui la novità rilevante, poiché il comma prosegue con
l’individuazione di due requisiti dimensionali che operano anche in
alternativa tra loro, al di sopra dei quali non si è considerati più piccoli
imprenditori, aggiornabili ogni tre anni in base alla variazione degli indici
ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (come
stabilito dal terzo comma), in modo da mantenere nel tempo la loro
attualità.
In tal modo si superano le incertezze e le contraddizioni generate della
vecchia norma che, facendo riferimento a parametri quali il “minimo
imponibile ai fini dell’imposta di ricchezza mobile” (abolita da decenni) ed
all’investimento di “un capitale non superiore a 900.000 lire” (limite
ovviamente anacronistico), aveva fatto sì che, ai fini dell’assoggettabilità al
fallimento, fosse da anni possibile utilizzare, quale unico riferimento, solo
la nozione fornita dall’articolo 2083 del codice civile, che definisce piccoli
imprenditori “i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli
commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata
prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.”
Nozione, come è evidente, non quantitativa e pertanto di difficile
applicazione al caso concreto e che, tra l’altro, aveva aperto annosi dibattiti
sull’applicabilità delle procedure fallimentari all’imprenditore artigiano;
questione questa che sembra risolta con la nuova norma che fa sì (pur
continuando a non citare tale categoria) che l’assoggettamento
dell’artigiano al fallimento segua le regole fissate per il piccolo
imprenditore, ovvero dipenda dal superamento o meno dei requisiti
dimensionali individuati per identificare quest’ultimo.
II Il presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento è, invece,
costituito dallo stato di insolvenza, disciplinato dall’art. 5 del R.D.
267/1942 (lasciato invariato dalla riforma), che così dispone:
“L'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza è dichiarato fallito. Lo
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stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i
quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare
regolarmente le proprie obbligazioni.”
È pertanto una situazione di oggettiva impotenza, non transitoria, ad
adempiere regolarmente e con mezzi normali alle proprie obbligazioni,
determinata dalla mancanza di mezzi per effettuare i pagamenti e
dall’impossibilità di procurarseli con il ricorso al credito. Tale stato di cose
coinvolge, dunque, tutta la situazione patrimoniale dell’imprenditore e la
capacità prospettica della sua impresa di far fronte agli impegni presi
secondo i canoni di un’ordinata vita d’affari, acquistando rilevanza
giuridica, in base alla citata norma, allorché si manifesta all’esterno.
L’esteriorizzazione più tipica consiste in reiterati inadempimenti, ovvero
mancate prestazioni a singole obbligazioni non derivanti da mera
accidentalità. La legge fallimentare, all’art. 7 prevede poi altre ipotesi
sintomatiche quali la fuga, l’irreperibilità, la latitanza dell’imprenditore, la
chiusura dei locali, il trafugamento, la sostituzione o la diminuzione
fraudolenta dell’attivo, eventualità queste che implicano (come si vedrà
appresso) l’obbligatoria istanza di dichiarazione di fallimento da parte del
Pubblico Ministero.
Sono stati individuati, peraltro, da Dottrina e Giurisprudenza, una sequela
di fatti sintomatici quali suicidio dell’imprenditore, truffe commesse da
quest’ultimo, deleterie svendite di beni dell’impresa, rifiuto di intrattenere
rapporti commerciali con quest’ultima da parte delle aziende di credito,
pluralità di procedimenti esecutivi e così via; elencazione che comunque
non può essere considerata esaustiva a causa delle innumerevoli possibili
manifestazioni dello stato di insolvenza, desumibili dai casi concreti che
l’esperienza economica suggerisce.
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Cfr. Caramaschi, op. cit.