Nel contesto odierno i dibattiti più diffusi sulle conseguenze economiche
connesse alla produzione e alla commercializzazione degli OGM riguardano i
problemi sull’etichettatura, quindi di trasparenza nei confronti dei consumatori, sulle
modificazioni del mercato agroalimentare, sulla reale produttività e la convenienza
economica.
L'Unione Europea ha un approccio molto più cauto rispetto ad altri paesi che
hanno accettato gli OGM senza particolari timori, spendendo molti fondi per la ricerca
in questo settore.
Lo scopo è quello di identificare e tracciare gli effetti immediati, a lungo
termine o imprevisti, sulla salute umana e sull’ambiente da parte di OGM e derivati
dopo la fase di vendita .
L’U.E. in conseguenza della diffusione degli OGM ha emanato norme aventi lo
scopo di disciplinare la produzione e la commercializzazione di tali organismi.
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PARTE PRIMA
ASPETTI BIOLOGICI E GENETICI
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1. CAPITOLO – ELEMENTI DI BIOLOGIA E GENETICA
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Gli argomenti che andremo ad affrontare nel primo capitolo rappresentano un
excursus su elementi di biologia, ma e’ bene evidenziare che questo elaborato non
vuole essere un trattato scientifico sugli Organismi Geneticamente Modificati, ma
bensì di come questi abbiano un impatto economico e sociale.
Fondamentale quindi e’ specificare che tutti gli elementi di biologia, che
interessano per lo più la prima parte della trattazione, sono riportati al solo scopo di
rendere questo argomento così complesso, più esaustivo possibile.
1.1. Il DNA
Ogni organismo è portatore di un elaborato set di istruzioni che contiene
l’informazione necessaria al suo sviluppo e al suo mantenimento in vita; questo
manuale vivente di istruzioni si trova nel nucleo di ogni cellula, in forma di una
molecola chimica di nome DNA. Ma come fa una molecola chimica a contenere una
tale quantità di informazioni? In modo molto simile a quello in cui è possibile
esprimere una quantità praticamente illimitata di informazioni attraverso l’uso di sole
21 lettere del nostro alfabeto.
L’alfabeto del DNA è costituito da appena 4 lettere (G, A, T, C), ma il codice
genetico umano è inserito in una sequenza ininterrotta di più di 5 miliardi di G, A, T, C
tante ne occorrono per definire tutte le informazioni di cui il nostro organismo
necessita per vivere.
Il DNA ha una struttura a “doppia elica”, un po’ simile a quella di una scala a
chiocciola. Le unità costitutive di ciascun filamento si chiamano nucleotidi. Ciascun
nucleotide è composto da uno zucchero a 5 atomi di carbonio, da una “base azotata” e
da un “gruppo fosfato” inorganico.
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Fonte: Gallizzi Alessandro, Il Codice Genetico, Piccin-Nuova libraria; www.biotech-info.net
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Le basi azotate che rappresentano le 4 lettere dell’alfabeto genetico sono: Adenina
(A), Guanina (G), Citosina (C) e Timina (T). Dato che i nucleotidi differiscono solo
per il tipo di base azotata che li costituisce, anche i nucleotidi saranno solo di quattro
tipi (A, G, C e T). Nell’esempio della scala a chiocciola, le basi rappresentano i pioli.
Nel DNA ogni base di un filamento si lega con la base complementare dell’altro
filamento. La complementarità delle basi è dovuta al fatto che le coppie possono essere
solo di tipo GC e AT.
1.2. Il codice genetico
Immaginando di voler inventare un codice alfabetico con le quattro lettere che
rappresentano i quattro nucleotidi, cioè di dover codificare 21 lettere dell’alfabeto
utilizzando una sequenza formata dalle basi A, G, C e T, potremmo usare una
sequenza di due sole basi ma avremmo solo 8 combinazioni possibili (rapporto di
codice): cioè un numero di combinazioni insufficiente per codificare 21 lettere.
Se invece usassimo una sequenza di tre basi, avremmo 64 possibili
combinazioni (triplette) e, quindi, un numero sufficiente per codificare 21 lettere.
Se invece usassimo una sequenza di tre basi, avremmo 64 possibili combinazioni
(triplette) e, quindi, un numero sufficiente per codificare 21 lettere.
Adesso potremmo usare le 64 “triplette” come codice di scrittura associando a
ciascuna lettera dell’alfabeto due o tre triplette specifiche.
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Figura 1
Il DNA non codifica per lettere dell’alfabeto, ovviamente. Le triplette
nucleotidiche del DNA codificano per un determinato amminoacido della sequenza
che caratterizza una determinata proteina.
E, come le lettere dell’alfabeto italiano, anche gli amminoacidi che
costituiscono le proteine sono 21; ciascuno di essi è definito da due o tre triplette del
codice genetico.
Una sequenza di DNA che codifica per una determinata proteina è un gene
strutturale. Nelle cellule procariote (batteri ed alghe azzurre), alla sequenza di n
triplette nucleotidiche che costituiscono un gene strutturale, corrisponde esattamente la
sequenza di n amminoacidi che costituiscono la “sequenza primaria” di una proteina.
Nelle cellule eucariotiche
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, con DNA contenuto in un compartimento separato
dal resto della cellula (nucleo), i geni hanno una struttura più complicata. Essi sono
infatti costituiti da sequenze codificanti, dette esoni, e da sequenze non-codificanti,
dette introni.
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La principale caratteristica delle cellule eucariote, che le distingue da quelle procariote, è la presenza di una
notevole compartimentalizzazione interna, costituita dalla presenza di vescicole ed invaginazioni racchiuse da
membrane fosfolipidiche nelle quali hanno luogo specifiche attività metaboliche. Il compartimento più
importante è senza dubbio il nucleo cellulare, un organulo in cui viene conservato il DNA cellulare e che dà il
nome alla cellula stessa
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Ciò ha notevoli ripercussioni sul processo attraverso il quale i geni vengono
trascritti e tradotti nella corrispondente sequenza proteica.
E, siccome la funzionalità e il comportamento di una proteina sono strettamente
legati alla sua struttura primaria, la proteina funzionerà correttamente solo se tale
struttura è quella giusta; cioè solo se le sequenze esoniche presenti nel gene strutturale
sono copiate e tradotte senza errori.
Accanto al gene strutturale, in genere all’inizio e alla fine della sequenza che
codifica per la struttura primaria della proteina (sequenza strutturale), ci sono delle
brevi sequenze che servono per regolare l’espressione (trascrizione e trasduzione) del
gene strutturale e che, per questo, sono dette sequenze di regolazione.
Le sequenze di regolazione svolgono, tra l’altro, le seguenti funzioni
fondamentali:
1. segnare il punto esatto in cui deve cominciare la trascrizione
del filamento di mRNA (sequenza d’inizio della trascrizione)
2. segnare il punto esatto in cui deve finire la trascrizione del filamento
di mRNA (sequenza di arresto o di terminazione)
3. determinare quanti filamenti di mRNA devono essere trascritti.
Una definizione più completa vuole, quindi, che il gene sia costituito dall’insieme
della sequenza strutturale e delle sequenze di regolazione.
1.3. Traduzione e trascrizione
Il processo attraverso il quale la sequenza delle triplette di DNA di un gene
strutturale si traduce in quella degli amminoacidi di una proteina rappresenta il dogma
centrale della biologia.
Questo processo è articolato in due tempi: nel primo, detto trascrizione, il DNA,
immobilizzato nel nucleo della cellula, stampa una copia “mobile” della sequenza
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genica interessata; nel secondo, detto traduzione, la copia mobile esce dal nucleo della
cellula e viene letta, decodificata e trasformata nella sequenza primaria di una
specifica proteina.
Nel corso della trascrizione i due filamenti della doppia elica vengono “scollati”
nella zona corrispondente al gene strutturale e, quindi, uno di essi fa da “stampo” per
la formazione di un terzo filamento di RNA (detto RNA messaggero, mRNA), la cui
sequenza è complementare a quella del gene strutturale che viene trascritto.
Nella seconda fase (traduzione) l’RNA messaggero, staccatosi dal DNA, esce
dal nucleo della cellula e va ai “ribosomi”, che sono piccol macchine biologiche in
grado di leggere la sequenza di triplette (codoni) sull’mRNA traducendole nella
rispettiva sequenza di amminoacidi della proteina. I ribosomi sono formati da due sub-
unità che si staccano alla fine della traduzione. Anch’essi sono costituiti da RNA
(RNA ribosomale o rRNA), codificato dal DNA.
I singoli amminoacidi, che si trovano nella cellula, vengono riconosciuti e catturati
da specifici RNA trasportatori (tRNA), che li trasportano ai ribosomi. Ogni tRNA ha
una zona che riconosce l’amminoacido ed un’altra, detta anticodone, complementare
alla tripletta che codifica per quell’amminoacido sull’mRNA.
1.4. Le mutazioni
Una mutazione genetica è una modificazione, casuale o indotta, di una determinata
sequenza di nucleotidi lungo la doppia elica del DNA.
Le mutazioni spontanee hanno una frequenza caratteristica per un determinato
organismo ma, nello stesso organismo, la frequenza delle mutazioni non è la stessa
lungo tutta la sequenza del DNA. Essa risulta particolarmente elevata (10-100 volte
più della media) in alcune zone che vengono dette, pertanto, “punti caldi”.
Le mutazioni indotte, invece, sono dovute ad agenti esterni all’ organismo, detti
agenti mutageni.
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Il tipo più semplice di mutazione è quella che modifica una singola coppia di basi
(mutazione puntiforme), attraverso la sostituzione di una base con un’altra. In generale
si dice che una mutazione è silente quando i suoi effetti non sono manifesti: sono
mutazioni silenti anche quelle che pur modificando la sequenza primaria di una
proteina non ne modificano il comportamento.
La regione strutturale dei geni è associata a sequenze di regolazione che hanno il
compito di dirigerne la trascrizione in RNA e la sua traduzione nella proteina
corrispondente. In particolare, dato che tale regione è in continuità con il resto del
DNA, esistono meccanismi che impostano la trascrizione in modo tale da farla iniziare
e finire nei punti giusti. Se ciò non avvenisse, la sequenza delle triplette risulterebbe
completamente spostata e l’informazione andrebbe persa. La stessa cosa può
verificarsi anche nel caso in cui si ha l’inserimento o la delezione di un nucleotide a
livello di una sequenza esonica del gene. Gli inserimenti e le delezioni sono mutazioni
molto importanti nell’ambito del discorso sulla tecnologia del DNA ricombinante, in
quanto hanno una probabilità elevata di verificarsi proprio in seguito all’inserimento di
transgeni in una cellula ospite.
1.5. Gregor Johenn Mendel (1822-1884)
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Per quanto breve nella trattazione del DNA e dei caratteri ereditari non si puo’ fare
a meno di citare Gregor Johenn Mendel infatti sebbene l'ereditarietà biologica sia stata
oggetto di interesse e stupore sin dagli inizi della storia umana, solo recentemente
l'uomo ha iniziato a capire il suo funzionamento; in effetti lo studio scientifico
dell'ereditarietà, noto come genetica, non iniziò di fatto prima della seconda metà del
1800 con il monaco Gregor Johann Mendel (1822-1884).
Il suo lavoro, effettuato nel giardino di un tranquillo monastero agostiniano segnò
l'inizio della genetica moderna.
3
http://www.studenti.it/medicina/genetica/caratteri.php
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Il maggior contributo di Mendel fu l'aver dimostrato che i caratteri ereditari sono
trasmessi come unità che vengono distribuiti singolarmente a ogni generazione. Queste
unità distinte, furono in seguito chiamate geni.
Quel lavoro, che segnò l'inizio della biologia quantitativa, rimane ancora come un
modello di brillante procedura sperimentale.
Mendel osservò l'andamento numerico di alcune caratteristiche di tre generazioni di
piante di pisello ed, in seguito, analizzò matematicamente i risultati ottenuti. E' proprio
questa l'innovazione di Mendel: l'idea che un problema biologico potesse essere
studiato quantitativamente era del tutto nuova; poi, analizzando i risultati ottenuti,
ipotizzò due leggi, note come “Legge della segregazione” e “Legge della
segregazione indipendente”, che diventarono le prime importanti leggi di genetica, e
quindi diedero di fatto origine alla genetica classica.
La scelta di Mendel di utilizzare la pianta di pisello per i suoi esperimenti non era
certo originale. Tuttavia egli riuscì a formulare i princìpi fondamentali dell'ereditarietà,
dove altri avevano fallito, grazie al suo approccio metodologico.
Innanzitutto egli verificò un'ipotesi molto specifica in una serie di esperimenti
logici. Pianificò i suoi esperimenti con cura ed intelligenza, scegliendo di studiare
solamente differenze ereditarie nette e scartando le caratteristiche che potevano
apparire nella prole in modo incerto. In secondo luogo, Mendel studiò i discendenti
non solo della prima generazione e della seconda, ma anche delle generazioni
successive. Infine, in terzo luogo, analizzò i suoi dati in modo tale da rendere la loro
valutazione semplice ed oggettiva.
Gli esperimenti stessi furono descritti così chiaramente che poterono essere ripetuti
e controllati da altri scienziati, cosa che in effetti poi avvenne.
Mendel selezionò sette caratteri che mostravano, nelle diverse varietà di piante di
pisello, due forme nettamente differenti. Una varietà, per esempio, produceva sempre
semi gialli, mentre un'altra sempre semi verdi. In seguito, Mendel esegui incroci
sperimentali asportando le antere di un fiore contenenti il polline e cospargendo gli
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stigmi con il polline di un fiore di un altra varietà. Poi Mendel permise ai fiori di
pisello di autoimpollinarsi, quindi di dare origine ad un'altra generazione da analizzare.
1.5.1. Legge della segregazione
Mendel mise a confronto le generazioni da lui analizzate ed osservò che nella
prima generazione F1, cioè «prima generazione filiale», tutti i figli mostravano
solamente uno dei caratteri presenti nei genitori; l'altro carattere era completamente
scomparso.
Le caratteristiche che apparivano nella generazione F1 furono chiamate da Mendel
dominanti.
Però a questo punto sorse spontanea una domanda: che cosa era successo al
carattere antagonista? Il quesito fu risolto dall'analisi della «seconda generazione
filiale» o F2, in cui riapparivano i caratteri scomparsi nella generazione precedente.
Queste caratteristiche, presenti nella generazione parentale (P) e ricomparse nella F2,
dovevano in qualche modo essere presenti anche nella generazione F1, sebbene non
evidenti. Mendel chiamò questi caratteri recessivi.
La F2 quindi era composta da caratteri sia dominanti che recessivi, però legati dal
rapporto 3:1. Mendel intuì che la comparsa dei caratteri antagonisti e le loro
proporzioni costanti nella F2 potevano essere spiegate ammettendo che le
caratteristiche fossero determinate da fattori separati. Questi fattori, riteneva Mendel,
dovevano trovarsi nelle piante F1 in coppie: un componente di ogni coppia era
ereditato dal padre e l'altro dalla madre. Questa, nota anche come prima legge di
Mendel, è la legge della segregazione.
Quindi la F1, dovendo avere entrambi i caratteri, può essere scritta come Yy, di
conseguenza chiamarla eterozigote; però c'è da ricordare che un organismo eterozigote
manifesta nel suo fenotipo (aspetto esteriore) solo l'allele (carattere) dominante.
Mentre la P è formata da organismi yy e YY, cioè da linee pure, chiamati anche
omozigoti.
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Chiarito il significato di tali parole possiamo cercare una spiegazione del rapporto
3:1. Uno dei modi più semplici è il quadrato di Punnet, dal nome del genetista inglese
che per primo o utilizzò per l'analisi dei caratteri determinati geneticamente.
Il quadrato di Punnet utilizza le leggi della probabilità.
Figura 2
Fonte: Wikipedia
1.5.2. Legge dell’assortimento indipendente
In una seconda serie di esperimenti Mendel prese in considerazione degli
incroci tra piante di piselli che differivano per due caratteri: un genitore produceva
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