6
Con la precisazione che, sebbene la Convenzione sia stata concepita ed
elaborata in ambito comunitario – nonostante una dottrina minoritaria sostenga
il contrario –2 ad essa non può essere riconosciuto un carattere propriamente
“comunitario”, in considerazione dell’impossibilità di individuare il suo
fondamento nel Trattato istitutivo della Comunità europea. Ciò è confermato
anche dagli artt. 20, 22 e 29 della Convenzione stessa, i quali sanciscono,
rispettivamente, il primato del diritto comunitario, la facoltà degli Stati
contraenti di apporre riserve e la possibilità che la Convenzione non sia in
vigore in tutti gli Stati membri.
Ciò premesso, l’elaborazione della Convenzione fu curata da un gruppo di
esperti e l’adozione del testo da parte dei governi degli Stati membri fu
accompagnata da una Relazione a cura dei professori Mario Giuliano e Paul
Lagarde alla quale occorre fare riferimento a fini interpretativi, in virtù di
quanto disposto dagli artt. da 31 a 33 della Convenzione di Vienna del 1969 sul
diritto dei trattati.3 La Relazione, essendo “esplicativa” della disciplina
convenzionale, viene infatti utilizzata da dottrina e giurisprudenza quale una
sorta di “interpretazione autentica” della Convenzione, anche se, ovviamente,
nel senso atecnico del termine.4
La Convenzione di Roma fu aperta alla firma degli Stati membri il 19
giugno 1980 e, nella stessa data, fu sottoscritta dai rappresentanti di Belgio,
Germania, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi.
Fu però necessario attendere quasi undici anni perché la Convenzione
entrasse in vigore. L’art. 29 della Convenzione prevedeva infatti che la
medesima sarebbe entrata in vigore solo a seguito del deposito del settimo
territorio comunitario uno spazio giuridico integrato per quel che concerne la materia civile e
commerciale”.
2
Cfr. L. S. ROSSI, Le Convenzioni tra gli Stati membri dell’Unione Europea, Giuffrè, Milano, 2000, p. 57.
3
Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati.
4
Sul valore delle relazioni esplicative v. Corte di giustizia CE 8 novembre 2005, causa 443/03, Leffler, in
Raccolta, 2005, p. I-9611.
7
strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione, che avvenne appunto il
1 aprile 1991.
Va aggiunto che il 19 dicembre 1988 vennero sottoscritti a Bruxelles due
Protocolli, volti a consentire il ricorso pregiudiziale alla Corte di giustizia delle
Comunità europee, in tema di interpretazione della Convenzione stessa – a
somiglianza di quanto previsto dalla Convenzione di Bruxelles –, anch’essi
entrati in vigore molto tempo dopo, ossia il 1 agosto 2004.
Per quanto riguarda in particolare l’Italia, essa ha ratificato la
Convenzione di Roma il 25 giugno 1985, sulla base della legge di autorizzazione
del 18 dicembre 1984, n. 975.
La Convenzione di Roma è venuta quindi a sostituirsi alle norme di
conflitto previgenti in materia di obbligazioni da contratto, contenute nell’art.
25 delle disposizioni preliminari al Codice civile.
L’espresso rinvio alla Convenzione di Roma è stato poi previsto dalla
legge 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del sistema italiano di diritto
internazionale privato, che ha abrogato l’art. 25, stabilendo all’art. 57, dedicato
alla legge regolatrice delle obbligazioni contrattuali, che:
«Le obbligazioni contrattuali sono in ogni caso
regolate dalla Convenzione di Roma del 19 giugno
1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni
contrattuali, resa esecutiva con la legge 18 dicembre
1984, n. 975, senza pregiudizio delle altre
convenzioni internazionali, in quanto applicabili».
8
2. IL CARATTERE “UNIVERSALE” DELLA CONVENZIONE.
La Convenzione di Roma ha carattere universale. L’art. 2 della stessa
afferma infatti che:
«La legge designata dalla presente convenzione
si applica anche se è la legge di uno Stato non
contraente».
Dal punto di vista del giudice di un Paese contraente che si trovi a
giudicare la controversia è quindi irrilevante in quali Stati sia in vigore la
Convenzione, posto che la Convenzione lo vincola all’applicazione della legge
individuata attraverso i suoi criteri, indipendentemente dalla condizione di
parte dello Stato cui tale legge appartiene. La legge individuata attraverso i
criteri della Convenzione trova infatti applicazione a prescindere dalla
condizione di parte dello Stato cui tale legge appartiene; è altresì irrilevante la
presenza o meno di una condizione di reciprocità fra tale Stato e quello del
giudice.
In virtù di tale portata erga omnes, la Convenzione ha avuto l’effetto –
come affermato nella stessa Relazione Giuliano-Lagarde – di “sostituire, nelle
materie da essa contemplate e fatte salve le altre convenzioni di cui gli Stati
contraenti sono parti, le norme di diritto internazionale privato vigenti nei
singoli Stati contraenti”. Ciò ha avuto conseguenze particolarmente rilevanti
nell’ordinamento italiano, dato che le soluzioni accolte nella Convenzione si
distaccano nettamente da quelle previste dal vecchio art. 25 delle disposizioni
preliminari al Codice civile, mentre in altri Paesi, come la Francia o la Gran
Bretagna, la giurisprudenza aveva già accolto metodi di collegamento più
flessibili.
9
3. L’INTERPRETAZIONE DELLA CONVENZIONE.
Come illustrato nei paragrafi precedenti, a seguito l’adozione della
Convenzione di Roma si è posta un’esigenza che caratterizza tutte le
convenzioni internazionali: la necessità che le norme convenzionali siano
interpretate dai giudici nazionali in modo uniforme.
Ciò in quanto l’obiettivo di un’unificazione normativa sarebbe
evidentemente frustrato se, al momento della concreta applicazione, ciascun
giudice interpretasse le norme convenzionali secondo le concezioni proprie del
suo ordinamento nazionale. Si rende di conseguenza necessaria
un’interpretazione il più possibile uniforme, basata cioè su canoni interpretativi
comuni che tengano conto dell’oggetto e dello scopo della Convenzione ed,
eventualmente, su criteri giuridici condivisi dagli ordinamenti degli Stati
contraenti,5 tanto più se si considera l’utilizzo di concetti ampi da parte della
Convenzione di Roma in varie disposizioni (si pensi ad esempio al concetto di
“scelta tacita” dell’art. 3 o al concetto di “distacco temporaneo” dell’art. 6).
In tale prospettiva, l’art 18 ha previsto che:
«Nell’interpretazione e applicazione delle
norme uniformi che precedono, si terrà conto del
loro carattere internazionale e dell’opportunità che
siano interpretate e applicate in modo uniforme».
Va tuttavia sottolineato che la disposizione appena richiamata non era di
per sé idonea ad assicurare in ogni caso l’uniformità dell’interpretazione, in
quanto il compito di applicare ed interpretare le norme della Convenzione
rimaneva comunque affidato ai singoli giudici nazionali, non essendo
5
Circa la necessità di arrivare ad una nozione autonoma dei termini impiegati dalla Convenzione v. ad
esempio Corte di giustizia CE 13 luglio 1993, causa 125/92, Mulox, in Raccolta, 1993, p. I-4075.
10
individuato alcun organo internazionale dotato di competenza giurisdizionale
cui fosse affidato il compito di fornire un’interpretazione uniforme e vincolante
delle norme convenzionali. Tale risultato si è realizzato solo in un secondo
momento, con l’adozione dei due Protocolli di Bruxelles del 19 dicembre 1988
sopra menzionati,6 che hanno attribuito la competenza interpretativa circa la
Convenzione di Roma alla Corte di giustizia delle Comunità europee (come già
rilevato i Protocolli sono entrati in vigore solo nell’agosto del 2004).
4. L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA CONVENZIONE.
In prima battuta va rilevato che – sulla base del disposto dell’art. 17 della
Convenzione stessa – la Convenzione trova applicazione in ciascuno Stato
contraente esclusivamente “per i contratti conclusi dopo l’entrata in vigore in
tale Stato”.
Ciò premesso, l’ambito materiale di applicazione della Convenzione è
individuato dall’art. 1 della Convenzione stessa, il quale afferma che:
«Le disposizioni della presente convenzione si
applicano alle obbligazioni contrattuali nelle
situazioni che implicano un conflitto di leggi».
Sono quindi due gli elementi che delimitano l’ambito di applicazione della
Convenzione: il carattere “contrattuale” delle obbligazioni e l’esistenza di un
“conflitto di leggi”.
6
V. sopra par. 1.
11
Sotto il primo profilo, parte della dottrina si è preoccupata di sottolineare
che, benché la Convenzione si riferisca alle “obbligazioni” contrattuali, in realtà
la materia oggetto della Convenzione è costituita non dalle sole obbligazioni
nascenti dai contratti, quanto piuttosto dai contratti stessi.7
La Convenzione tuttavia non offre una definizione autonoma di contratto;
si pone pertanto il problema di stabilire in base a quale ordinamento accertare
la natura contrattuale o meno dell’obbligazione.
Al riguardo vi è concordia sia in dottrina che in giurisprudenza
nell’affermare che la definizione di contratto rilevante non deve essere data
sulla base della lex fori, la legge cioè dello Stato cui appartiene il giudice
chiamato ad applicare la Convenzione. Altrimenti sarebbe frustrato lo scopo di
uniformità e certezza del diritto perseguito dalla Convenzione stessa.8
Si ritiene perciò che l’accertamento della natura “contrattuale”
dell’obbligazione debba essere effettuata in maniera “autonoma” – come più
volte affermato dalla Corte di giustizia con riferimento alla Convenzione di
Bruxelles –9 alla luce cioè delle disposizioni e degli scopi propri della
Convenzione stessa ed, eventualmente, attraverso la comparazione delle
discipline contenute nei sistemi giuridici degli Stati contraenti (ad esempio non
si potrebbe considerare come contrattuale un’obbligazione nascente da
responsabilità cd. precontrattuale, in quanto il carattere extracontrattuale di una
tale obbligazione emerge sia dalla disciplina della Convenzione che da quelle
della maggior parte degli Stati contraenti)10.
Il secondo elemento richiesto dall’art. 1 consiste, come anticipato, nel
trovarsi in una situazione che implica un “conflitto di leggi”.
7
Cfr. U. VILLANI, La Convenzione di Roma sulla legge applicabile ai contratti, Cacucci, Bari, 2000, p. 25.
8
V. sopra par. 3.
9
V. per tutti Corte di giustizia CE 8 marzo 1988, causa 9/87, Arcado, in Raccolta, 1988, p. I-1539.
10
V. oltre cap. II, par. 3.2.
12
Con tale espressione ci si vuole riferire alle ipotesi nelle quali il contratto
presenta collegamenti con più di un ordinamento giuridico statale, per cui,
astrattamente, diversi ordinamenti avrebbero titolo a regolare il contratto.
Va precisato che la Convenzione si applica anche nel caso di contratti che
presentano collegamenti con un unico Stato, quando questi sono oggetto di
controversie dinanzi ai giudici di un altro Stato contraente (cd. contratti interni
“esteri”).
Sebbene sembrerebbe doversi escludere in base al disposto letterale
dell’art. 1, possono essere disciplinati dalla Convenzione anche i contratti privi
di collegamento con più di uno Stato e di cui siano chiamati a conoscere i
giudici dello stesso Stato cui essi risultano esclusivamente collegati (cd. contratti
interni “nazionali”), quando le parti abbiano operato una scelta in tal senso. Ciò
è direttamente affermato dal paragrafo 3 dell’art. 3 della Convenzione, il quale,
disciplinando tali contratti, prevede al loro riguardo una disciplina limitativa
della sfera di autonomia riservata ai contraenti.11 In particolare “sono rese
concretamente inefficaci quelle manifestazioni di autonomia privata
fraudolentemente orientate ad eludere l’applicazione di norme imperative
“semplici” in vigore nell’ordinamento altrimenti applicabili al contratto”.12
In sintesi, “non è quindi in alcun modo necessario che il contratto sia stato
concluso nel territorio della Comunità o debba essere eseguito in esso. Quando
sussiste un elemento di estraneità l’unica condizione per l’applicazione della
Convenzione è che la valutazione del contratto si prospetti come questione
giuridica in un Paese in cui la Convenzione è in vigore”.13
11
V. oltre par. 7.3.
12
S. M. CARBONE – P. IVALDI, Lezioni di diritto internazionale privato, Cedam, Padova, 2000, p. 111.
13
Cfr. T. BALLARINO, Diritto internazionale privato, Cedam, Padova, 1999, p. 612.
13
4.1. LE MATERIE ESCLUSE.
Il campo di applicazione della Convenzione è delimitato dall’art. 1 anche
in termini negativi. Il paragrafo 2 di detto articolo esclude espressamente che la
Convenzione si applichi a determinate materie, quali: le questioni di stato e di
capacità delle persone fisiche; le obbligazioni contrattuali relative a testamenti e
successioni, regimi matrimoniali, diritti e doveri derivanti dai rapporti di
famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità; le obbligazioni che derivano
da cambiali, assegni, vaglia cambiari nonché da altri strumenti negoziabili; i
compromessi, le clausole compromissorie e le convenzioni sul foro competente;
le questioni inerenti al diritto delle società, associazioni e persone giuridiche; le
questioni relative alla rappresentanza; le questioni relative ai trust.
Va rilevato che la legge italiana di riforma del diritto internazione privato,
in linea con le esclusioni previste dalla Convenzione, detta una disciplina ad hoc
per la gran parte di queste materie; si possono citare a titolo di esempio l’art. 59
dedicato ai titoli di credito, l’art. 60 dedicato alla rappresentanza volontaria, gli
artt. 46 e ss. dedicati alle successioni e così via.
Inoltre, secondo quanto previsto dai successivi paragrafi 3 e 4 dello stesso
articolo, restano fuori dal campo di applicazione della Convenzione anche i
contratti di assicurazione – ma non quelli di riassicurazione – “per la copertura
di rischi localizzati nei territori degli Stati membri della Comunità economica
europea”.14
14
Con la precisazione che per “determinare se un rischio è localizzato in questi territori, il giudice applica
la propria legge interna”.
14
4.2. L’ESTENSIONE UNILATERALE DELL’AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA
CONVENZIONE DI ROMA AD OPERA DELL’ART. 57 DELLA LEGGE ITALIANA DI
RIFORMA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO.
L’art. 57 della legge italiana di riforma del diritto internazionale privato
sopramenzionato afferma che la Convenzione di Roma si applica “in ogni caso”
alle obbligazioni contrattuali, ampliandone così il campo di applicazione
materiale oltre quanto stabilito dalla Convenzione stessa.15
La disposizione segue una tecnica usata frequentemente nella legge
218/1995; consistente nel rinvio appunto “in ogni caso” ad un testo
convenzionale, il quale viene così a costituire anche il diritto comune della
materia regolata, al di là dei limiti della Convenzione stessa. Si tratta di una
tecnica si propone l’obiettivo di evitare una duplicità di discipline di conflitto
con le difficoltà e gli inconvenienti conseguenti.
L’uso dell’espressione “in ogni caso” nel testo dell’art. 57 rende peraltro
necessario qualche chiarimento sul punto.
A prima vista l’estensione operata dall’articolo in questione sembrerebbe
riguardare tutte le materie espressamente escluse dall’art. 1; così non è.
Sono da escludersi, in primo luogo, tutti i casi in cui tali materie siano
regolate da altre convenzioni internazionali, ritenute prevalenti dal disposto
dello stesso art. 57.16 Oltre alle convenzioni internazionali sulla legge 218/1995
prevalgono anche gli atti eventualmente emanati dalle istituzioni comunitarie –
sebbene non se ne faccia espressa menzione nell’articolo –.
In secondo luogo, non sono ricomprese nel rinvio operato dall’art. 57 le
materie che, o per l’assenza del carattere contrattuale dell’obbligazione, o per lo
15
Cfr. T. TREVES, Commentario del nuovo diritto internazionale privato, Cedam, Padova, 1996, p. 272 e ss.
16
Si pensi ad esempio alla Convenzione dell’Aja del 2 ottobre 1973 sul riconoscimento e l’esecuzione delle
decisioni relative alle obbligazioni alimentari.
15
stretto collegamento dell’obbligazione con altre materie, siano disciplinate da
altre disposizioni della legge n. 218 del 1995 che abbiano carattere “speciale”.
In altre parole, “il rinvio alla Convenzione non ha l’effetto di attribuire alle
norme convenzionali la stessa priorità che esse hanno quando si tratta della loro
attuazione come norme internazionali obbligatorie per lo Stato. Nella misura in
cui estende l’ambito di applicazione della Convenzione, l’art. 57 si situa sullo
stesso piano delle altre norme interne ed è pertanto sottoposto ai principi
generali che disciplinano le relazioni fra norme interne concorrenti o
incompatibili. La priorità che deve essere attribuita alla norma di conflitto
speciale implica dunque che una obbligazione contrattuale potrà ricadere
nell’estensione delle norme convenzionali dell’art. 57 solo qualora la sua
qualificazione in un caso concreto conduca ad escluderla dall’ambito della
norma speciale”.17
In concreto si può ritenere che l’estensione operata dall’art. 57
ricomprenda i compromessi, le clausole compromissorie e le convenzioni sul
foro competente (ove ad essi si riconosca natura contrattuale) ed i contratti di
assicurazione relativi a rischi localizzati in uno Stato membro.18
Da ultimo va rilevato come parte della dottrina abbia attribuito una
funzione di norma di chiusura all’art. 57, considerata la possibilità, nel quadro
dell’evoluzione del diritto privato, del mutamento di certi istituti o della nascita
di nuove fattispecie, considerate di natura contrattuale secondo la legge
italiana, ma non secondo la Convenzione di Roma.19
17
F. POCAR, Il nuovo diritto internazionale privato italiano, Giuffrè, Milano, 2002, p. 62.
18
Cfr. U. VILLANI, op. cit., p. 59.
19
Cfr. U. VILLANI, op. cit., p. 60.
16
5. I RAPPORTI TRA LA CONVENZIONE ED ALTRE NORME.
La Convenzione di Roma disciplina essa stessa i rapporti con tre categorie
di norme con le quali potrebbe entrare in conflitto: le norme di diritto
comunitario, le norme contenute in altre convenzioni internazionali e le norme
di diritto internazionale privato adottate dagli Stati membri dopo l’entrata in
vigore della Convenzione.
La posizione della Convenzione di Roma nell’ambito dell’ordinamento
comunitario emerge chiaramente dall’art. 20 della stessa che, intitolato “Primato
del diritto comunitario”, dispone:
«La presente convenzione non pregiudica
l’applicazione delle disposizioni che, in materie
particolari, regolano i conflitti di leggi nel campo
delle obbligazioni contrattuali e che sono contenute
in atti emanati o da emanarsi dalle istituzioni delle
Comunità europee o nelle legislazioni nazionali
armonizzate in esecuzione di detti atti».
Dal dettato della norma si evince chiaramente come sia ritenuto
prevalente non solo il diritto comunitario, ma anche quello statale emanato in
esecuzione di atti comunitari. Ciò conferma come la Convenzione non possa
essere considerata propriamente parte del diritto comunitario.20
Parte della dottrina individua la ratio dell’art. 20 nella “particolarità” delle
materie oggetto delle disposizioni di conflitto emanate dalle istituzioni
comunitarie, mentre la Convenzione di Roma conterrebbe una disciplina
“generale” della materia, ove la prevalenza delle prime sarebbe giustificata dal
tradizionale principio lex specialis derogat generali.21
20
V. sopra par. 1.
21
Cfr. U. VILLANI, op. cit., pp. 13, 14.