2
In una società che tende a semplificare tutto, anche la cultura, per
renderla più fruibile e quindi più mercificabile, un autore che non si è
mai assoggettato alle leggi del mercato e che ha continuato imperterrito
a scrivere per tutta la vita indipendentemente dal successo o meno dei
suoi libri, è veramente difficile da capire se non incomprensibile. Ma
questo nostro lavoro non vuol essere una “agiografia” di Oreste Del
Buono. Lui ci avrebbe riso su, stroncando ogni tentativo di questo
genere con la sua tagliente ironia che non risparmiava nessuno,
soprattutto se stesso. E poi non si potrebbe capire appieno la sua opera
se non considerando l’uomo Oreste Del Buono in tutti i suoi aspetti,
nella sua onestà e rettitudine come nelle sue debolezze, meschinità,
egoismi e ipocrisie.
Considerare tutta la produzione di Oreste Del Buono è quasi
impossibile per la sua vastità e complessità. Basta dare un’occhiata alla
sua bibliografia per rendersene conto. E’ quindi opportuno, per non
disperdersi, operare una selezione che semplifichi, chiarisca ed evidenzi
alcuni dei momenti più significativi del suo percorso letterario.
Dovendo fare una scelta, si è deciso di analizzare in ordine cronologico
i primi tre romanzi : quello d’esordio, Racconto d’inverno, in cui è
raccontata la sua esperienza di prigionia in un campo tedesco durante la
seconda guerra mondiale; La parte difficile, in cui è descritto il difficile
inserimento nella vita civile dopo l’esperienza destabilizzante della
guerra; Acqua alla gola, la storia di una crisi matrimoniale scoppiata già
durante il viaggio di nozze.
Ci è sembrato che in questi tre romanzi, nonostante i limiti e le
“ingenuità” di uno scrittore alle prime armi, Oreste Del Buono abbia
subito meno che nella successiva produzione letteraria il “fascino” delle
3
letterature straniere e, soprattutto, di certi autori, “fascino” che lo ha
portato ad affinare la sua tecnica a discapito, forse, della spontaneità e
leggibilità.
4
Capitolo Primo
Racconto d’inverno
Seguendo un ordine cronologico, non si può non iniziare con l’opera di
esordio, Racconto d’inverno. A dire il vero quest’opera era stata
preceduta da un altro racconto sulla sua esperienza della prigionia,
pubblicato sul settimo fascicolo di ‹‹Uomo››, la rivista che l’autore
aveva fondato insieme a due giovani scrittori, Marco Valsecchi e
Domenico Porzio. Il fine era quello di dar vita ad una rivista “con cui
esprimere sia il proprio impegno morale che la vocazione letteraria”
1
.
Il settimo fascicolo, datato aprile 1945, uscì solo nel giugno poiché in
tipografia si attese l’arrivo del racconto di Del Buono in cui erano già
presenti personaggi e temi del successivo Racconto d’inverno,
anch’esso pubblicato nel 1945. Si tratta di un romanzo breve in cui il
materiale autobiografico viene rielaborato superando ben presto la
dimensione del documento e della testimonianza.
Già in Fine d’inverno Oreste Del Buono aveva dato prova della “sua
sostanziale distanza dai canoni del neorealismo : misura il distacco
inequivocabile della letteratura dalla realtà, e l’inutilità esistenziale
delle presunzioni della letteratura. Le parole nei romanzi di Del Buono
risulteranno sempre vane come in questo primo racconto, con una
conversione – a volte dichiarata, altre implicita – a un mutismo in cui si
riflettono ragioni troppo profonde per essere spiegate o sentimenti
1
Daniele Brolli, Notizia in La parte difficile e altri scritti, Libri Scheiwiller, Varese
2003, p.371.
5
impossibili da articolare in un discorso”
2
. Questo sentimento di
inadeguatezza, questa incapacità a trasmettere attraverso lo strumento
linguistico i propri sentimenti e le ragioni più profonde, li ritroviamo,
accentuati, in tutte le opere di Oreste Del Buono. E’ il tema
dell’incomunicabilità che diventa il filo rosso che lega i suoi romanzi
ma che segna, da subito, il suo distacco dall’atmosfera culturale che si
era trovato a respirare al suo ritorno dalla prigionia in Germania, nel
1945. Nel clima acceso della Resistenza e della vittoria sul
nazifascismo, si era fatta strada, fra gli intellettuali del periodo,
l’esigenza di una nuova forma d’arte, più funzionale ai bisogni della
società, o meglio, del popolo, come allora si preferiva dire. Si era
acceso un dibattito molto vivo che aveva coinvolto tutti i letterati di
spicco. Basti ricordare le pagine del ‹‹Politecnico›› su cui si svolse il
dibattito fra Vittorini e Togliatti proprio riguardo al rapporto fra arte e
politica, fra vita e letteratura. E’ un equivoco su cui ancora oggi si
dibatte ma che, in un momento storico importante come il secondo
dopoguerra, incise profondamente sulle scelte esistenziali degli
intellettuali più sensibili e profondi.
Oreste Del Buono con le sue prime prove di scrittore prende subito
posizione e “tradisce presto l’equivoco in voga tra gli autori italiani di
confondere vita e letteratura, e in Racconto d’inverno prevale il
desiderio di dare la propria versione non già dei fatti, che sarebbe stata
parziale, ma, per paradosso, del mondo”
3
.
Oreste Del Buono è quindi, sostanzialmente, distante dai canoni del
neorealismo; la letteratura è distaccata dalla realtà, e le parole risultano
2
Daniele Brolli, Notizia in La parte difficile e altri scritti, Libri Scheiwiller, Varese 2003,
pp.371-372.
3
Ibidem, p. 361.
6
vane, si illude chi pensa di poter comunicare attraverso di esse :
“Tommaso pensa a delle parole da dire, gli si riaccende dentro il
desiderio più volte provato di dire qualcosa di necessario, qualcosa che
salvi tutti : un pensiero ridicolo, un desiderio confuso che appartiene
alla miseria repressa di questi giorni”
4
.
In altri punti della narrazione è sottolineata la necessità di crearsi delle
illusioni, di mentire, si parla per se stessi, le parole non hanno lo scopo
di comunicare, ma di nascondere la realtà, di crearne un’altra fittizia ma
che permetta di sopravvivere alla vergogna, alla miseria,
all’umiliazione, in poche parole alla verità : “La paura di doversi dire la
verità d’improvviso. Parlano di ricordi, qualcuno si inventa la memoria
in un tentativo di ingenuità, senza saperlo. E’ soltanto d’improvviso che
ci accorgiamo di mentire, di farci protagonisti di vicende irreali, ognuno
parla per se stesso, per convincersi. Le mie parole non hanno alcun
legame con le tue, con quelle di un altro, non si riesce a capire la loro
successione. Non vi facciamo neppure caso, le labbra si muovono,
senza urgenza, come per seguire un gioco meccanico”
5
.
Le parole, oltre ad essere vane, possono diventare pericolose se la realtà
che descrivono è troppo disumana per essere accettata coscientemente.
“Diciamo dolore, sconforto, miseria ad ogni occasione, ma la loro
presenza è ossessiva in noi, un peso da scontare, un duro peso. Il vuoto
di questo termine, l’ombra; e allora per andare avanti dovremmo
pensare a delle illusioni, a giocare con delle illusioni, delle imposizioni,
delle carte screditate, ma che ci divengono necessarie. Numeri o
parole”
6
. Bisogna mascherare la realtà, non rivelarla se si vuole
4
Oreste Del Buono, Racconto d’inverno, Libri Scheiwiller, Varese 2003, p. 162.
5
Ibidem, p. 206.
6
Ibidem, p. 198.
7
sopravvivere, trovare la logica dove non esiste, dove tutto è irrazionale,
servirsi dei numeri o delle parole per ridarle un ordine, una coerenza
fittizi. Ed essere coscienti di questo, dell’assurdità della situazione per
cui, per resistere, bisogna spogliare se stessi e gli altri di quel barlume
di umanità che ancora rimane : “Perché si deve arrivare a preferire dei
numeri a degli uomini ?”, diceva Attilio e la sua voce non era più
deforme, sembrava dolce, “delle cifre a dei sentimenti ? Come è
possibile questo orrore ? “
7
Attilio e Tommaso, il protagonista, sono amici di vecchia data, si
conoscono dai primi tempi di prigionia quando si trovavano in un
campo di concentramento vero e proprio. Ora sono in un campo di
lavoro, gli è stato assegnato un compito che sembra una assurda
punizione più che un lavoro : piantare dei piloni in montagna, in
condizioni ambientali proibitive, in pieno inverno con indumenti non
adatti al clima, scarso cibo, nessuna tregua. Non vi è una trama vera e
propria, solo un lento, monotono svolgersi di giorni tutti uguali nella
loro disumanità. E’ la “quotidianità dell’orrore” a cui si finisce con
l’abituarsi e quando, la domenica, giunge un po’ di riposo, lo strazio e
l’angoscia aumentano, diventano più insopportabili perché riaffiorano
immagini, ricordi del passato, momenti vissuti.
Tommaso appare ben presto come l’elemento debole del gruppo perché
non ha perso del tutto la sua sensibilità, il suo bisogno di contatti umani,
di potersi aprire con qualcuno. Ma l’incomunicabilità è sempre in
agguato e i suoi sforzi risultano vani. Le parole sono troppo
convenzionali per esprimere quello che si ha dentro, rappresentano anzi
un rischio, quello di rendersi ridicoli, di esporsi troppo, di cadere nella
7
Oreste Del Buono, Racconto d’inverno, Libri Scheiwiller, Varese 2003, p. 198.
8
retorica vuota di significati : “A pensare tutto diviene convenzionale, si
riassaggia la paura delle parole, il senso del loro rischio, il loro gioco
maligno : parole, concetti, vocaboli. Qualcosa di più confuso dentro che
per lasciarlo intatto, per non esporlo ad un’ironia troppo facile,
bisognerebbe lasciare senza espressione. Ma non possiamo appagarci
delle sensazioni, di una confusione dei sentimenti : e l’umidore di certe
parole, di certi sguardi bisognerà spiegarlo con franchezza. Anche
contro il proprio cuore”
8
.
E’ questo in fondo uno dei dilemmi che troveremo in tutta la
produzione letteraria di Oreste Del Buono : le parole sono
convenzionali, impoveriscono di significato quello che abbiamo dentro,
ma allo stesso tempo non possiamo farne a meno perché al di fuori delle
parole non c’è ordine, chiarezza, possibilità di comprensione. E’ un
ordine falso, precario, tutto diventa una recita, si sostiene una parte, ma
è l’unico modo che ci rimane per tentare un colloquio : “Un colloquio
inutile nel buio, come una recita scialba e male allestita, ogni luce è
spenta e qualcuno finge una parte, dapprima per scherzo, poi con
strazio, ne diviene partecipe la rete dei respiri, si sente nelle pause che i
petti si gonfiano, accendono le domande. Una commedia di miseria”
9
.
Gli echi pirandelliani che si avvertono chiaramente in queste parole
sono un’ulteriore riprova della notevole distanza di Oreste Del Buono
dal neorealismo. La realtà non è rappresentata oggettivamente ma
diventa proiezione dello stato d’animo del personaggio. Siamo in pieno
decadentismo e Tommaso impersona perfettamente il prototipo del
personaggio decadente con sensibilità viva, esasperata, che lo porta a
trasfigurare la realtà, a evadere da essa creandosi delle illusioni
8
Oreste Del Buono, Racconto d’inverno, Libri Scheiwiller, Varese 2003, p. 197.
9
Ibidem, p. 197.
9
nonostante tutto. Tommaso è l’io sofferente e incapace di comunicare,
di creare una rete di rapporti attorno a sé. Anche in quelle condizioni di
forzata convivenza il sentimento più forte è la solitudine. Come in molti
antieroi del decadentismo, anche in questo caso la malattia diventa uno
strumento di conoscenza e di evasione.
Tommaso si ammala fisicamente perché ammalato dentro, perché non
riesce come gli altri compagni a concentrarsi solo sullo sforzo di
sopravvivere. Tommaso pensa, ricorda e questo lo indebolisce, lo fa
ammalare, ma al contempo la malattia acuisce i suoi sensi, niente
sfugge alla sua osservazione. E tutto sembra un precipitare verso la
morte che rappresenta il fine ultimo o meglio il mezzo per potersi
ricongiungere con il Tutto.
Giorgio Pullini nel suo saggio Il romanzo italiano del dopoguerra dà
una definizione di decadentismo che sembra cucita addosso al nostro
protagonista : “Perché si abbia vero decadentismo, a questo tema
dell’incomunicabilità fra gli esseri e della vita come itinerario alla
morte, con cui l’essere esce dal suo involucro e sprofonda in una
mistica e nichilista comunione con il nulla, deve aggiungersi un modo
particolare di scontarlo, interiorizzandolo e complicandolo con mille
deviazioni del pensiero, della volontà, degli istinti, della fantasia. Il
decadente si sente solo, soffre e si ripiega su se stesso, umiliandosi
masochisticamente fino alla voluttà del dolore; oppure evade con la
fantasia e si crea paradisi perduti, equivoci, consolatori ma artefatti e
vacui, in cui assopire la disperazione ed eccitarsi, oppure si abbandona
agli istinti ciechi e cerca nella animalità pura lo sfogo ad
un’inquietudine superiore che dalla soddisfazione degli istinti si rialza
ancora inappagata e sempre inquieta; oppure si costringe a volere ciò