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2. Gaetano Salvemini, la vita
Gaetano Salvemini nacque a Molfetta l’8 settembre 1873. La sua numerosa
famiglia (fu secondogenito di nove fratelli e sorelle) proveniva dalla piccola
proprietà terriera.
Il padre Ilarione, ex garibaldino, fu istruttore presso il convitto religioso di
Molfetta, la madre invece proveniva da una famiglia di commercianti e fu da lui
definita come una donna dal temperamento indomabile, di grande energia e
d’inesauribile vitalità. Gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza furono per
Salvemini caratterizzati da angustie e ristrettezze economiche; un aiuto concreto
venne in questo senso dallo zio Mauro Giuseppe, sacerdote e nostalgico
borbonico: fu lui a contribuire in modo decisivo alla crescita intellettuale del
giovane e a credere nell'ingegno del nipote, fornendogli i mezzi per i primi studi
e impartendogli personalmente i rudimenti del latino.
Salvemini frequentò il ginnasio e il seminario vescovile nella sua città natale;
questa esperienza fu, per lui, nel suo complesso negativa, anche se contribuì a
fissare i tratti fondamentali della sua personalità: l'amore per la chiarezza
intellettuale, maturato nello studio della Geometria di Euclide, e l'orientamento
verso la spiegazione causale nella ricerca storica. In quell'ambiente si sentiva,
però, in gabbia e fu spinto dalla sete di conoscenza a risolvere i suoi dubbi in
materia di religione.
All’età di diciassette anni abbandonò il seminario di Molfetta e si trasferì a
Firenze (1890), dove iniziò a frequentare l’Istituto di studi superiori e di
perfezionamento. Firenze, immersa nel clima evoluzionistico e positivistico di
fine secolo, rappresentò per Salvemini una svolta e contribuì a portare a
compimento il processo di maturazione di posizioni scettiche nei confronti della
religione cattolica. A Firenze trovò un ambiente scientificamente rigoroso oltre
che civilmente vivo e, durante gli anni universitari, fu rilevante l'influenza, sul
pensiero di Salvemini, soprattutto di un noto insegnante di storia medievale e
moderna, Pasquale Villari. Ciò che accomuna i “maestri” del molfettano è,
4
principalmente, l’adesione ai nuovi metodi di ricerca che stavano rifondando in
senso scientifico le discipline storiche filologiche; li unisce anche una salda
coscienza del valore civile dell'insegnamento. Ciò che caratterizza poi il loro
metodo è una ricerca accurata dei fatti, un attento controllo delle fonti e una
verifica scrupolosa delle ipotesi: è attraverso questo insegnamento che la
formazione scientifica di Salvemini si caricò di una forte tensione etica che
avrebbe contraddistinto non solo l'attività storiografica, ma anche l'impegno
politico, e che si sarebbe manifestata in lui, fino all'ultimo, nella rivendicazione
della propria appartenenza alla scuola empiristica positivistica.
Salvemini uscì dall’Istituto fiorentino nel 1895, quando aveva ventidue anni, e
da quel momento la sua carriera professionale vide una rapida ascesa.
Quelli che seguirono al 1895 furono anni in cui Salvemini si dedicò
all’insegnamento nelle scuole medie, prima nel ginnasio di Palermo, poi nei licei
di Faenza, Lodi, Firenze. Fu un’esperienza decisiva per la sua formazione
professionale e personale; nel 1901, a ventotto anni, vinse una cattedra
universitaria e fu assegnato, in qualità di titolare di storia medievale e moderna,
all’Università di Messina. La sua prima opera, Magnati e popolani in Firenze
dal 1280 al 1295, del 1901, gli valse la cattedra in questione; il primo lavoro di
Salvemini, datato 1896, fu la sua tesi di laurea, Dignità cavalleresca nel comune
di Firenze.
L’esperienza di insegnamento al ginnasio di Palermo, caratterizzata da uno
stipendio assai misero, gli fece aprire gli occhi sulle inaccettabili condizioni di
indigenza in cui si trovava la maggior parte dei suoi colleghi.
Divenuto poi docente universitario, si sentì in dovere di intervenire per
migliorare le condizioni dei suoi ex colleghi: fu Giuseppe Kirner a sollecitare
vivamente Salvemini a collaborare per l’organizzazione dei professori medi in
una Federazione (la Fnism), fondata ufficialmente nel 1901 e avente lo scopo di
ottenere un miglioramento delle condizioni di vita degli insegnanti.
Salvemini riteneva che per ottenere questo risultato fosse necessario rendere noti
a tutti i problemi della scuola media e questo anche tramite una forte pressione
sui poteri pubblici: dopo pochi anni gli insegnanti medi ottennero dei sensibili
miglioramenti economici e, nel 1906, una legge sullo stato giuridico, alla cui
stesura contribuì in modo decisivo lo stesso Salvemini.
E’ da rilevare che in quegli anni Salvemini, Vitelli e Galletti furono invitati a
partecipare ai lavori di una Commissione avente il compito di avanzare delle
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proposte sulle riforme per la scuola media. Ben presto Salvemini si accorse
dell’effettiva inefficienza di quell’organismo: decise perciò di presentare le
dimissioni, come fecero anche Galletti e Vitelli, per intraprendere lo studio della
questione indipendentemente dalla Commissione.
Nel 1907, infatti, in collaborazione con Alfredo Galletti, Salvemini affrontò il
complesso tema della scuola attraverso la stesura di un volume, pubblicato poi
nel 1908: La riforma della scuola media. L’opera era dedicata a Filippo Turati,
nella speranza, poi rimasta solo tale, che il partito facesse proprie le proposte dei
due autori e le potesse in seguito attuare.
Tra il 1901 e il 1908 Salvemini non limitò il suo intervento alle battaglie per i
diritti degli insegnanti medi, ma si dedicò a svariate attività, tra le quali
l’insegnamento universitario e la ricerca scientifica. Rilevanti furono le opere di
quegli anni: La Rivoluzione francese e Mazzini. Sempre in questo periodo
collaborò ad alcune riviste come «Critica sociale», in cui affrontava con grande
competenza anche temi di politica estera, nonostante che la «libertà e
l’indipendenza di giudizio che Salvemini usò […] e tutte le sue analisi
spregiudicate e realistiche non ebbero sempre buona accoglienza fra i membri
del partito socialista, cui egli stesso aveva aderito sin dal 1893»
1
.
Le esperienze di politica locale fatte a Molfetta gli aprirono gli occhi sui metodi
che l’allora Capo del Governo Giolitti utilizzava per manipolare le elezioni
amministrative e politiche nel Mezzogiorno. Da questo momento iniziò la sua
profonda avversione per quello che egli stesso definì “il ministro della mala
vita”.
A Molfetta, in ogni caso, Salvemini fece in modo di aiutare un gruppo di uomini
“nuovi” a impadronirsi del Comune e a scacciare così i repubblicani. Salvemini,
in quell’occasione, si rese conto dell’esclusione dalle elezioni dei contadini e dei
pescatori e ciò gli fece sentire la necessità di intraprendere una personale
battaglia per il suffragio universale. Salvemini vide nel suffragio la possibilità
concreta di dare una soluzione ad altri problemi caratteristici dell’Italia
meridionale, quelli della scuola e dell’analfabetismo in primis, e fu della
convinzione che «una volta ottenuto il diritto di voto, gli analfabeti sarebbero
stati i primi a chiedere scuole per i propri figli»
2
.
Il 1907-1908 furono per Salvemini anni di impegno e dedizione totale al suo
1
E. Tagliacozzo, Nota biografica, p. 222, in AA.VV., Gaetano Salvemini, Bari, Laterza, 1959.
2
Ivi, p. 223.
6
lavoro. Il 1908 rappresentò purtroppo anche un momento terribile per lui, nel
momento in cui, in un giorno di fine dicembre, un terremoto rase al suolo
Messina e distrusse la sua famiglia. Salvemini sopravvisse miracolosamente a
quel tragico evento che lo avrebbe, in ogni caso, segnato per tutta la vita.
Salvemini cercò di reagire al trauma subìto e si recò a Gioia del Colle, collegio
malfamato e noto per gli imbrogli ideati allo scopo di far eleggere il sostenitore
di Giolitti, Vito de Bellis; Salvemini si diresse verso quel Comune in qualità di
osservatore e intervistò de Bellis. Ciò che aveva visto e sentito lo descrisse con
grande precisione e senso della realtà nel celebre pamphlet Il Ministro della
mala vita: era chiaro il riferimento a Giovanni Giolitti, rimasto negli anni il
principale obiettivo polemico di Salvemini. Egli rimase convinto della necessità
di insistere nella richiesta del suffragio universale, poiché, secondo lui, questo
avrebbe dato ai proletari un valido motivo per partecipare alla lotta politica e
opporsi così alle angherie del governo di Giolitti.
Salvemini continuava la battaglia per la conquista del suffragio universale e nel
frattempo accettò, nel 1910, di candidarsi in un’elezione suppletiva nel comune
di Albano, nel Lazio. L’amara constatazione della corruzione dominante lo
indusse poi a dimettersi.
Nel 1911 Giolitti concesse il suffragio universale e Salvemini fu invitato a
presentarsi come candidato alle elezioni di Molfetta, in rappresentanza di quei
contadini e pescatori di cui era stato la guida nei primi passi verso
l’organizzazione in leghe di resistenza e sentì perciò il dovere morale di non
abbandonare quelle persone che avevano riposto tanta fiducia in lui.
Salvemini basò la propria campagna elettorale sui temi della lotta al
protezionismo e della battaglia contro l’analfabetismo; purtroppo i raggiri e le
scorrettezze non mancarono ma non per questo Salvemini si rassegnò e, anzi, si
prodigò a mettere in guardia i suoi potenziali elettori sulla disonestà dilagante.
Ben presto però si dovette rendere conto che il “Potere” era troppo forte e
incontrastabile e a Giolitti interessava che non venissero eletti oppositori del
calibro di un Salvemini: quest’ultimo fu sconfitto dal candidato repubblicano
Pansini.
L’ulteriore conferma dell’illegalità di quelle immorali pressioni governative
Salvemini la ebbe quando, pochi mesi più tardi, si candidò alle elezioni
amministrative in Puglia. I suoi sostenitori dettero a quella candidatura un
significato di protesta contro le scorrettezze delle precedenti elezioni politiche.
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In quell’occasione gli agenti governativi non si intromisero e Salvemini poté
essere eletto consigliere provinciale a grande maggioranza.
Gli anni che vanno dal 1909 al 1911 furono decisivi per la sua crescita
intellettuale e professionale: si recò a Firenze, spinto inizialmente dal dolore per
la tragedia familiare, ma anche dall’interesse per quel centro propulsore della
cultura in Italia. Qui venne presto in contatto con i “Vociani”, un gruppo di
intellettuali ideologicamente eterogenei ma accomunati dal proposito di dare una
scossa culturale al torpore che pervadeva la società del tempo. Erano questi i
collaboratori della rivista fiorentina «La Voce», fondata nel dicembre del 1908 e
diretta da Giuseppe Prezzolini.
Sulle pagine del “foglio” Salvemini poté manifestare liberamente per qualche
anno le proprie idee, trattando, in una serie di articoli, i suoi temi prediletti, ossia
la scuola, la questione meridionale e il suffragio universale. Ben presto i
numerosi dissensi sorti con alcuni dei collaboratori (Papini, Prezzolini,
Amendola in primis) non tardarono a far sentire il loro peso e portarono alla
rottura con il foglio fiorentino, sancita definitivamente dalle dure polemiche
sulla campagna di Libia del 1911. La guerra contro Tripoli mise in evidenza i
contrasti latenti e insanabili tra lo storico pugliese e gli altri collaboratori: «come
potevano convivere […] un Salvemini che fu sempre contrario all’impresa
libica, e un Amendola o uno Jahier che vi erano favorevoli?»
3
.
Da quel momento nacque in Salvemini il bisogno di avere un settimanale
proprio, dove poter esprimere liberamente le proprie idee, soprattutto quelle
politiche: l’«Unità» fu fondata da lui alla fine del 1911, quando la guerra di
Libia era già in corso. Salvemini vi cominciò subito un’aspra polemica contro la
questione tripolina, a suo parere una “montatura” nazionalista. Avvalendosi
dell’aiuto di esperti di storia e geografia, Salvemini riuscì a smascherare le
menzogne nazionaliste in merito alla Libia, descritta dai nazionalisti come una
ricca terra da conquistare. Per quanto avesse avversato con tutta la sua forza
l’impresa, una volta scoppiata la guerra non poté che augurarsi che, almeno, gli
italiani si battessero bene e dimostrassero così la loro serietà ed efficienza. Alla
Libia come colonia di popolamento Salvemini non credette né giudicò
opportuno che vi si dovessero sperperare grandi somme di denaro a discapito
della causa del Mezzogiorno italiano.
3
E. Tagliacozzo, Nota biografica, p. 230, in Gaetano Salvemini, AA.VV., Bari, Laterza, 1959
8
La sua ambizione era di contribuire a preparare, con il suo giornale, una nuova
classe dirigente, più seria, più colta e più preparata di quella dell’“età
giolittiana”. Nel 1920 l’«Unità» cessò le pubblicazioni e, nel congedarsi dai
lettori, Salvemini tracciò una specie di resoconto del lavoro svolto fino a quel
momento. In esso il molfettano affermava che lui, insieme agli altri collaboratori
de «l’Unità», aveva sempre avversato la malattia nazionale dell’incongruenza
tra le parole e i fatti e aveva sempre dimostrato una certa ostilità verso le parole:
«Cerchiamo intorno a noi un concreto dove c’è da compiere un’opera di giustizia: e giù
a picchiar sodo, finché giustizia non sia fatta. Il nostro giornale si è rivolto sempre a
quella parte della gioventù italiana, che è ricca di potenza volitiva, di slancio ideale, per
indicarle in qual modo potesse utilizzare queste forze nell’azione politica di ogni
giorno»
4
.
Con la fondazione de «l’Unità» Salvemini non si propose di preparare il terreno
alla nascita di un nuovo partito. Il suo intento fu quello di «operare sui partiti
esistenti, introdurvi dei fermenti critici, aiutare i loro iscritti a ribellarsi ai loro
capi incapaci di rinnovarsi, e possibilmente produrre nuovi raggruppamenti di
uomini appartenenti a partiti diversi uniti da un comune modo di impostare i
problemi, e di vederne le soluzioni»
5
.
Il suo fecondo lavoro di critica politica fu però interrotto dallo scoppio della
prima guerra mondiale. Dall’agosto del 1914 al maggio del 1915 la questione
dominante fu quella di decidere come dovesse agire l’Italia: fin dai primi di
agosto del ’14 il gruppo dell’“Unità” dimostrò, con articoli del direttore della
rivista, di essere orientato e di volere, oltre la sconfitta degli Imperi centrali,
anche la discesa in campo dell’Italia a fianco dell’Intesa.
Con l’entrata in guerra dell’Italia «l’Unità» sospese le sue pubblicazioni e
Salvemini si arruolò volontario nella fanteria. A causa delle sue precarie
condizioni di salute fu però rimandato a Firenze, dove poté testimoniare sulle
condizioni disumane a cui erano costretti i soldati.
Con l’approssimarsi delle elezioni generali del 1919, mentre capo del Governo
era Alfonso Nitti, Salvemini accettò di presentarsi in Puglia in una lista di
combattenti: fu eletto a grande maggioranza. Le prime cocenti delusioni non
tardarono però a farsi sentire per Salvemini; si rese, infatti, conto
4
Ivi, p. 232
5
Ivi, p. 233. (Art. cit.).
9
dell’orientamento nazional-fascista del suo gruppo parlamentare dei
combattenti.
Quando Salvemini entrò alla Camera, dovette costatare con amarezza che la
crisi dell’istituto parlamentare si trovava ormai a un punto culminante,
soprattutto a causa dell’abuso dei decreti-legge da parte del Governo.
Durante l’ultimo Ministero Giolitti, Salvemini continuò a porre l’attenzione sui
mali che affliggevano le province meridionali e seguì con grande
preoccupazione l’evolversi del fenomeno del fascismo.
A causa di gravi problemi di salute dovette dimettersi e si tenne lontano dalla
politica fino al 1924, anno del delitto Matteotti: «La sua assenza dalla politica
attiva fra il 1921 e il delitto Matteotti privò le opposizioni di un leader
coraggioso, deciso e dalle idee chiare»
6
.
Nel 1922 i suoi studi si indirizzarono verso le due maggiori forze politiche allora
presenti in Italia, i cattolici e i socialisti: criticò questi ultimi per come si erano
combattuti in dannose lotte di fazione tra rivoluzionari, giudicati da lui troppo
chiacchieroni e poco concreti, e riformisti, accusati di accontentarsi di deboli
riforme, la qual cosa, secondo lui, andava a beneficio delle aristocrazie operaie.
L’assassinio di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924) costrinse Salvemini a
rientrare nella politica attiva: tornò così a iscriversi al partito socialista e, da quel
momento, diventò, a Firenze, il leader della resistenza al fascismo, anche grazie
alla collaborazione con personalità come i fratelli Rosselli ed Ernesto Rossi e a
quello che fu considerato il primo giornale clandestino pubblicato sotto la
dittatura fascista, il «Non mollare».
L’opposizione al regime costò a Salvemini l’arresto, avvenuto l’8 giugno a
Roma, anche se in carcere rimase solo pochi giorni, per assenza di prove. In
seguito a questi avvenimenti, decise di espatriare e di raggiungere la Francia,
dove soggiornò per poche settimane. Si recò poi in Inghilterra, dove si stabilì,
allietato da un ambiente liberale e laburista che lo accolse con cordialità.
Alla fine del 1926 Salvemini partì per un primo giro di conferenze negli Stati
Uniti; il tema era sempre il medesimo, l’Italia sotto il dominio fascista. Per
Salvemini l’America non rappresentava soltanto una sicura fonte di guadagno
ma anche e soprattutto la possibilità di creare un vasto movimento fra i milioni
di emigrati italiani per finanziare la lotta antifascista.
6
Ivi, p. 244.