dei campioni analizzati, che è risultata pari a 1.18 x 10
-11
. In base a tali dati è possibile
concludere che i campioni analizzati appartengono effettivamente alla stessa cultivar.
La seconda parte della tesi prende in considerazione gli aspetti chimico-fisici dell’olio
estratto dalla varietà Bianchera /Belica.
Sono stati raccolti campioni di drupe in diverse fasi di accrescimento fisiologica per
verificare l’accumulo d’olio durante la cinetica di crescita del frutto, tracciando così una
curva di inolizione.
Dall’olio estratto dalle drupe e dai campioni prelevati al frantoio sono state eseguite le
principali analisi chimiche utili alla definizione della qualità e della purezza previste e no
dalle vigenti norme.
La valutazione della composizione in acidi grassi ha posto in evidenza la presenza di
elevate concentrazioni di acido oleico e di limitatissimi livelli di contaminanti di natura
fossile (Idrocarburi Policiclici Aromatici – IPA).
L’ analisi TLC della frazione insaponificabile delle drupe e dell’olio ha evidenziato, come
atteso, elevate concentrazioni relative di alcoli nell’estratto lipdidico totale delle drupe,
che tuttavia non appaiono facilmente relazionabili allo sviluppo del frutto.
2
2. INTRODUZIONE
2.1 Origini dell’olivicoltura nella provincia di Trieste
Le origini della presenza dell’olivo a Trieste e nell’Istria vanno ricercate nel periodo
antecedente alla venuta dei romani. Infatti, le stesse testimonianze sull’olio proveniente
da queste terre da parte di Marziale, Plinio e Strabone accreditarono questa tesi.
Coloni fenici che navigarono il mare Adriatico e greci (con ogni probabilità siracusani)
quasi sicuramente giunsero prima dei Romani, ed introdussero, oltre che l’olivo, anche un
insieme di conoscenze tecniche ed agronomiche riguardanti la sua coltivazione.
2.2 Storia romana dell’olivicoltura nell’Istria e nel triestino
L’olivicoltura fin dai tempi della dominazione di Roma Imperiale era presente su tutta
l’area orientale dell’Adriatico che si spingeva a nord dalle isole del Quarnaro, nell’Istria,
fino a concludersi ad emiciclo nei terreni aggrappati ai dirupi carsici che affondavano
nelle ultime acque dell’Adriatico. In questa fascia è individuabile l’entroterra marnoso
arenaceo del comprensorio muggesano-triestino (oggi comune di S. Dorligo), zona in cui
si hanno le più remote testimonianze olivicole della regione.
I Romani accortisi della naturale predisposizione delle terre e del clima di queste zone,
iniziarono ad ampliare la coltivazione olivicola fino a renderla una coltura redditizia. In
Istria furono inviati 15.000 latini con lo scopo di colonizzare la regione e di dedicarsi
all’agricoltura.
Ogni podere aveva un proprio torchio e la spremitura procedeva con la raccolta; di questi
fatti si hanno numerose testimonianze con il rinvenimento di diverse mole (macine) là
dove si trovano avanzi di abitazioni dell’età romana. Una di queste parti mobili di una
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macina è stata rinvenuta nel maggio dell’anno 1996 durante uno scavo nel paese di
Bagnoli della Rosandra (S. Dorligo della Valle, TS).
L’olio che Aquileia, come narra Strabone, Plinio e Pomponio Mela, scambiava con i paesi
danubiani era sicuramente olio triestino ed istriano.
L’olivo, coltura prosperosa e rigogliosa al tempo dell’Impero Romano, celebrata e lodata
per i suoi prodotti da Marziale, Plinio, Galeno e da Pausania, perdette ogni importanza
con il tramonto della civiltà latina e per secoli la specie fu trascurata.
Solamente durante l'Impero Bizantino si ripristinò nuovamente un florido commercio
d’olio d’oliva.
La penisola istriana riuscì a sottrarsi alle devastazioni barbariche, e già sotto il dominio
dei Goti, come si apprende dalla lettera di Cassiodorio nell’anno 538, si descrivevano
questi territori come particolarmente favorevoli per la produzione del vino e dell’olio.
Sotto i Franchi, l’olivicoltura ritornò ad essere una delle principali risorse dell’agricoltura
locale, al punto che, una delle forme di riscossione dei tributi feudali, le cosiddette
decime, fu rappresentata proprio dal conferimento in natura del prodotto della raccolta e
spremitura delle olive.
Nelle lettere di Cassiodorio scritte nel 538 si apprende che l’Istria, sotto dominio del re
dei Goti, fu piena d’oliveti. Tre secoli più tardi, dai legati di Carlo Magno nell’anno 804
in un importante documento storico descrivono gli oliveti istriani e triestini.
Importanti documenti storici testimoniano che durante l’autonomia comunale nel
territorio di Trieste, i contadini erano obbligati a piantare olivi nei propri terreni, il
contratto del 21 aprile 1224, stipulato nella chiesa maggiore di Trieste, il decano, con il
consenso degli altri canonici, dava in affitto per sei anni alla fraterna S. Agnese un terreno
posto in confine di S. Andrea, perché lo piantasse a viti ed ulivi, passato il tempo stabilito
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e volendo la fraterna continuare nell’affittanza, era tenuta a corrispondere la quarta parte
del vino e dell’olio.
Un altro contratto concluso nell’ottobre del 1224 nel refettorio dei canonici, il decano
dava con il consenso degli altri canonici a Domenico Lallo ed a Bonifacio un terreno per
sei anni perché lo piantassero a vite ed olivo.
Proseguendo con le testimonianze dell’olivicoltura triestina del 1300, da un inventario del
23 agosto dell’anno 1322 delle masserizie lasciate da Giovanni de Genano, spettanti per
eredità alle sue figlie, si annovera una pietra contenente olio.
Il Coppo e Fortunato Olmo descrivevano il territorio di Trieste assai fertile di oliveti, la
coltivazione dell’olivo preceduta da quella della vite costituiva un prodotto molto
importante per l’economia, tant’è che lo statuto dell’anno 1318 dava disposizioni in
materia di torchi e misurazione delle olive; stabilendo che
“Ciascuna persona che ha torchio presso alle mura del comune, deve porre un
canale di pietra immaltato nel muro, perché le mura non si rompano ogni
anno; e il canale deve essere così stretto che nessuno possa entrare ed uscire
per quello”.
“I padroni dei torchi abbiano misura eguale, con la quale si misurano le olive;
e queste misure debbano essere date loro da giustizieri del comune. Nessuna
persona osi recare le olive al torchio, eccetto che mediante i torcolieri”.
Lo statuto fissava le pene ai contravventori e il compenso dei lavoratori giornalieri
impiegati nella raccolta delle olive.
Al possessore del torchio ed ai torchieri spettava la decima dell’olio estratto.
I possessori dei torchi ed i lavoranti prima di iniziare il lavoro di molitura, erano obbligati
ogni anno a prestare giuramento ai giudici della città, di esercitare la loro arte con
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diligenza e senza frode. Il padrone del torchio che non ammoniva i torchieri alla
prestazione del giuramento, doveva pagare un’ammenda.
Fino al 1800 nelle vecchie case triestine si manteneva il costume di tenere l’olio in capaci
urne di pietra calcare e la gabella, che troviamo menzionata con il nome di petrolio, si
riferisce al modo di conservare l’olio nella pietra.
2.2.1 Il commercio dell’olio
Fonti storiche testimoniano (lettera del 16 gennaio 1328), l’esistenza di un florido
commercio d’olio tra la città di Trieste e i paesi d’oltralpe. Oltre alla produzione locale si
commerciava anche l’olio proveniente dalla Puglia, Sicilia, Abruzzo e da Napoli.
Per favorire il commercio dell’olio con gli austriaci, Federico III impose nel 1493, che
l’olio istriano dovesse transitare per le dogane di Trieste e Duino.
Con il regno di Napoli si instaurò un commercio importante, al punto che nel 1519 Carlo I
di Spagna concesse ai triestini dei privilegi, che furono mantenuti successivamente anche
con Ferdinando III nel 1636 e Carlo VI nel 1714.
Un merito per l’incremento dell’olivicoltura istriana ed indirettamente anche quella
triestina va dato ai veneziani che estesero l’agricoltura, rendendola più proficua.
Sotto Venezia tutta l’Istria (compresa Muggia) fu caratterizzata da una florida
olivicoltura, come descritto e pubblicato dal 1482 al 1650 da Pietro Coppo, Giovanni
Battista, Leandro Alberti, Lodovico Vergerio e Luca da Linda.
Con il declino della città di S. Marco anche le attività agricole, e economiche delle sue
province risentirono di questo decadimento, sicché nel secolo XVIII la coltivazione
dell’olivo subì un arresto.
L’olio, che costituiva la più importante fonte economica della provincia istriana, come si
desume dai 188 torchi presenti nel secolo XVIII, doveva fare scalo a Venezia. Qui era
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sottoposta ad angherie fiscali; pagava un gravoso diritto d’introduzione e consumo a
favore dello stato, senza tener conto delle numerose estorsioni cui era soggetto nella zona
di produzione (quali le decime delle olive, il dazio dei torchi e la rigorosa sorveglianza
della spremitura).
Furono queste le cause che fecero sì che l’olio istriano non andasse più a Venezia ma
penetrasse furtivamente a Trieste ed anche in Friuli, dove trovava facile smercio,
eludendo la sorveglianza dei veneti.
Più tardi sotto il governo austriaco tutto il commercio dell’olio istriano passò per Trieste.
Nell’anno 1719 Carlo VI concesse a Trieste i diritti e i privilegi di portofranco; in quel
periodo fu fondata a Trieste la famosa Compagnia Orientale che doveva essere un organo
di controllo dell’emporio triestino, essa aveva molti privilegi tra i quali l’esenzione da
ogni dazio ed aveva l’esclusiva dell’olio.
Carlo VI per promuovere il commercio dell’olio, che da Trieste passava in Boemia,
ordinò nell’anno 1731 che l’olio diretto per gli stati ereditari boemi, fosse libero da ogni
dazio di transito e da qualsiasi altra esazione imperiale, provinciale e privata.
La Compagnia Orientale però non durò a lungo, poiché era sovvenzionata ed agiva in
regime di monopolio, ostacolando l’afflusso d’imprenditori privati, e finì cosi per fallire.
Distrutto il monopolio della Compagnia Orientale, e affermato il diritto di tutti i cittadini
al libero esercizio del commercio, il traffico dell’olio si fece sempre più vivo. Cosi oltre
agli oli di Puglia, Sicilia ed Istria, arrivarono a Trieste oli dalla Dalmazia e dalla Grecia.
Furono gli anni in cui il commercio dell’olio costituiva una delle principali risorse del
commercio triestino.
I motivi che portarono al regredire di quest’attività furono sia di carattere tecnico che di
carattere economico-commerciale: l’olio d’oliva utilizzato per illuminazione fu sostituito
con il petrolio ed il gas; inoltre le speculazioni che miravano a seconda del prezzo
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dell’olio a tagliare l’olio d’oliva con altri oli per aumentarne o meno la quantità, crearono
da parte dei consumatori una certa diffidenza per questo prodotto.
Particolarmente rovinose per l’olivicoltura triestina furono i freddi e geli degli anni 1782
e 1789 che distrussero la maggior parte degli oliveti: dalla relazione del 15 luglio 1789
del deputato per gli oli si rileva che le gelate dell’inverno del 1788 causarono nella zona
di Muggia la perdita del 50% delle piante.
Per l’emporio triestino il commercio dell’olio subì quindi un notevole ridimensionamento,
pur rimanendo una delle voci principali dell’agricoltura muggesana, sufficiente al
fabbisogno locale e permetteva una certa attività di esportazione.
2.2.2 La coltivazione dell’olivo nell’ottocento
Nell’ottocento le potenzialità produttive in ambito locale erano senz’altro maggiori delle
produzioni concretamente ottenute sia nel territorio triestino sia in quello istriano.
Alcuni pregiudizi di matrice popolare quali ad esempio la debolezza delle piante al freddo
e la scarsa redditività nel breve periodo, frenarono l’espansione di questa coltura, che, se
adottata con metodi razionali ed appropriati, avrebbe potuto sicuramente determinare un
innalzamento del tenore di vita delle locali popolazioni contadine.
Ragioni che causarono la scarsa espansione dell’olivicoltura dell’ottocento vanno
ricercate nei seguenti eventi:
Concorrenza degli oli di semi, attuata grazie a consistenti riduzioni dei dazi
doganali su questi generi;
Sofisticazione degli oli d’oliva esercitata dagli intermediari commerciali, che
oltre ad uno scadimento del prodotto in sé, provocarono un sempre maggior
restringimento dei margini di guadagno per gli olivicoltori privati;
8
Danni provocati da parassiti vegetali ed animali a causa delle scarse
conoscenze nel campo della lotta fitosanitaria;
Difficoltà di accesso al capitale finanziario, con ripercussioni sulle possibilità
di investimenti per migliorare l’olivicoltura locale;
Mancanza di enti, consorzi agrari, istituzioni cooperative che potessero
esercitare un’attività di istruzione, formazione ed assistenza tecnico-
amministrativa presso gli olivicoltori.
Mancanza di strutture vivaistiche locali.
L’incapacità di recuperare terreni incolti ed abbandonati.
Mancanza di conoscenze specifiche nelle pratiche colturali di base quali:
lavorazioni del terreno, potature, concimazioni, controlli fitosanitari d’alcuni
parassiti, consociazioni razionali con altre colture e metodologie di
riproduzione delle piante.
Nel territorio di Trieste vi era una notevole presenza di torchi a Servola, a S. Croce e a
Contovello; la macina veniva mossa con animali mediante un braccio di legno, per tre o
quattro mesi l’anno, a seconda dell’annata.
Come descritto da diversi autori dell’epoca le piante d’olivo appaiono sparse qua e là tra
le vigne della contrada di Santa Maria Maddalena inferiore, ed in misura minore da
Chiadino, Scorcola, Cologna, Gretta e Barcolla, per poi svilupparsi nuovamente lungo la
pittoresca costiera sotto le scoscese rupi di Contovello, Prosecco, Santa Croce fino ad
arrivare a Duino.
La superficie complessiva coltivata ad olivo risultava di ettari 72, con una produzione
media annua di olio di 174,92 quintali.
I nomi comuni adoperati a contrassegnare le varietà triestine ed istriane di olivo erano:
Carbonese, Carbogno, Carbone, Carbonazzo; Bugo, Buso, o Busiaro, Comune, Matta,
9
Storta, Smartella o Martella, Marosol, Brombolese, Biancheria, Biancara o Bianca, Nera,
Negriera, Nerastra o Nerezza, Rosignolo o Rossignol, Impunto o Puntito, Sandale,
Sempreverde, Belizza, Piccola, Grande e Grossara.
Numerose stampe dell’epoca illustrano i terrazzamenti della Costiera e dei dintorni di
Trieste dove insieme alle vite cresceva in copiosa quantità l’olivo. Venne anche
pubblicato nel 1828 da Giuseppe Mainati nei suoi dialoghi in dialetto triestino un
manualetto in cui si insegnava la maniera di coltivare l’olivo e di fare un buon olio.
Nell’ottocento la coltivazione dell’olivo restava comunque una coltura di grande interesse
per queste zone, tant’è che l’istituto Regio della Società agraria di Gorizia diede alla
stampa un manuale teorico pratico dell’olivicoltura: il testo scritto da Pietro Deviak (socio
ordinario dell’I.R. della suddetta società) fu pubblicato nel 1847 con il titolo “ Memoria
tecnico – pratica dell’olivo, suoi pregi ed eminenti utilità “.
In esso venivano analizzate le diverse problematiche dell’olivicoltura locale (triestina ed
istriana) quali:
La mancanza di un vivaismo locale;
Il recupero dei numerosi terreni abbandonati ed incolti;
Il grado di latitudine ed altitudine massima per poter coltivare l’olivo con
profitto in queste zone;
I diversi metodi di coltivazione idonei;
La potatura e la concimazione.
Per quanta riguarda invece l’olivicoltura del territorio di Muggia, vicinissimo alla città
di Trieste ma con vicende storiche diverse (dominio veneziano), si può affermare che
a cavallo tra ‘800 e ‘900 non subì significativi cambiamenti tranne per alcune
variazioni di entità numerica del patrimonio olivicolo causate da gelate.
10
2.2.3 Storia moderna dell’olivicoltura Triestina
Con l’inizio dell’ultimo secolo l’olivicoltura provinciale non subì significative variazioni
fino alla durissima gelata del 1929.
Dal catasto agrario della provincia di Trieste (compartimento della Venezia Giulia e Zara)
dell’anno 1929 risultava che a Trieste fossero coltivati ad olivo 94 ettari nella zona
agraria XVI (Muggia e S. Dorligo), di cui 77 nel muggesano e 17 a S. Dorligo.
Perfino la zona costiera era ampiamente coltivata ad olivo, un quadro caratteristico era
rappresentato dalle rigogliose piantagioni che abbellivano la sponda meridionale della
ferrovia da Aurisina fino a Barcola.
In quell’anno cause concomitanti ridussero drasticamente la realtà olivicola locale. Le
abbondanti nevicate accompagnate da un repentino abbassamento della temperatura e da
forte vento di bora distrussero completamente la parte epigea degli olivi.
Inoltre le ordinanze dell’allora regime fascista, nonché la stessa necessità dei triestini di
legna da ardere, obbligarono al taglio del legno ed anche all’estirpazione del ciocco.
Dal porto di Trieste intere imbarcazioni cariche di legno di olivo da ardere salparono per
varie destinazioni in Italia, precludendo così la naturale riproduzione dai polloni. I tronchi
di olivo vennero anche utilizzati per la produzione del carbon fossile.
Negli anni ’30 per compensare la grave moria di piante furono introdotte sui colli
muggesani delle nuove varietà da innestare ai giovani polloni, soprattutto la cultivar
Pendolino e Frantoio, per testarne la resistenza al freddo. Ma purtroppo l’intenzione di
rinnovare la coltivazione con nuove piantine venne vanificata dallo scoppio della II
Guerra Mondiale.
Negli anni a seguire non vi furono significativi investimenti colturali, ciò dovuto sia ai
problemi che la città doveva fronteggiare per la ricostruzione del dopoguerra, sia ad una
complessiva ristrutturazione dell’economia locale su basi più favorevoli a nuovi
11
insediamenti industriali e ad uno sviluppo del terziario. Inoltre nel freddo inverno
dell’anno 1956 un’altra grave gelata diede il colpo di grazia all’olivicoltura.
Fu così che gli ultimi frantoi rimasti nella zona furono chiusi e per la molitura delle olive
gli olivicoltori dovevano recarsi nei frantoi di Bassano del Grappa. In quegli anni
solamente la caparbietà di alcuni agricoltori che continuarono a credere in questa
coltivazione, nonostante la scarsa capacità remunerativa, ha permesso il mantenimento di
un certo patrimonio olivicolo locale di varietà autoctone Biancheria e Carbona nelle zone
di S. Dorligo e Muggia.
La situazione rimase tale fino alla metà degli anni ‘70, quando si verificò un’inversione di
tendenza dovuta sia alla naturale vocazione rurale della popolazione extra-urbana sia per
quella radicale modificazione dell’attività lavorativa agricola che è stata l’introduzione
della forma di lavoro part-time.
Nuovi oliveti anche di varietà diverse da quelle tradizionali furono impiantati nei terreni
più predisposti per giacitura e più adattabili alle lavorazioni con le macchine. Questo
ritorno all’olivicoltura interessò soprattutto i territori dei comuni di Muggia e S. Dorligo,
mentre fu quasi del tutto trascurabile negli altri due comuni con elevata potenzialità
olivicola.
La rivalutazione dell’olivicoltura di Muggia ha avuto un decorso un po’ diverso rispetto
alla città di Trieste; infatti, negli anni ‘50 un tiepido risveglio per questa coltivazione si
verificò quando furono attuati alcuni consistenti impianti di giovani polloni della varietà
Biancheria in tutto il territorio del Comune, specialmente sui versanti di S. Barbara, di
Muggia Vecchia e di Belpoggio.
L’importanza di questi investimenti e degli sforzi compiuti dagli agricoltori si
cominciarono ad apprezzare solo negli anni successivi, poiché costituirono il fondamento
per lo sviluppo che si manifestò negli anni ‘70. Proprio basandosi sui dati tratti dalla
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rilevazione dal Censimento generale dell’agricoltura del 1970, in quell’anno Muggia
deteneva il 26,7% delle aziende olivicole della provincia e ben il 63,2% delle superfici
olivate, superando nettamente S. Dorligo della Vale e Bagnoli della Rosandra, ovvero i
due principali centri della zona per la coltivazione dell’olio.
Durante tutto l’arco degli anni ’70 la coltura olivicola vide una netta e consistente ripresa
in tutta la provincia, sebbene a Muggia tale incremento fu più ridotto.
Con l’aumento delle produzioni, gli agricoltori ebbero l’esigenza di aprire nel 1977 un
piccolo frantoio nel paese di Bagnoli della Rosandra per evitare gli eccessivi costi che
comportava trasportate le olive nel Veneto per la molitura.
L’iniziativa fu attuata dalla Cooperativa Agricola di Trieste con un contributo regionale.
2.2.4 Tradizioni popolari dell’ultimo secolo
Dopo il grande freddo dell’inverno del 1929, che come già detto distrusse la gran parte
delle piante nel circondario di Trieste, la coltivazione fu ripresa solamente nel Breg
(comune di S. Dorligo della Valle) e sui colli intorno a Muggia. Ne erano conosciute due
varietà principali: “Belica” (Bianchera) e “Crnica” (Carbona).
A primavera l’olivo veniva concimato e potato, tradizionalmente le donne decoravano i
ramoscelli appena recisi con le immagini dei santi e cosi addobbati li vendevano la
domenica delle Palme sia sui sagrati delle chiese del Carso, che dinanzi alle chiese
cittadine.
La raccolta delle olive aveva inizio dopo Santa Caterina (25 novembre) e generalmente
era fatta dai soli componenti della famiglia: non era un lavoro troppo piacevole a causa
del freddo e della Bora che in quel periodo dell’anno soffiava con particolare intensità.
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Le olive venivano raccolte con le mani direttamente da terra, veniva utilizzata una
particolare scala a tre piedi chiamata “Kobilca” e messe nella “tuorba”, una borsa di
stoffa o di tela di sacco che veniva legata intorno alla vita.(vedi Figura 2.1 )
Figura 2.1: Foto storica della raccolta delle olive nella zona di Caresana.
(Foto Magajna 1949).
I frutti raccolti erano posti in sacchi o in tinozze ed adagiati su di un carro. Portati a casa
venivano puliti delle foglie e dalle impurità e per evitare che prendessero delle muffe, si
stendevano poi sul pavimento della soffitta o del fienile da 10 a 15 giorni ossia fino al
primo turno di spremitura nel torchio.
Un tempo ogni paese aveva il proprio torchio che poteva essere di proprietà di un privato
o delle comunità.
Al torchio lavoravano tre, quattro uomini contemporaneamente, dalla mattina fino la sera,
a volte anche fino a notte.
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Per il lavoro svolto, che era molto faticoso i lavoratori erano pagati in contanti, tanto per
quintale oppure con una parte dell’olio ricavato.
Nel torchio le olive erano pesate, poi rovesciate sulla macina e schiacciate; le macine
erano azionate manualmente da due uomini, da un asino o da un cavallo.
La pasta delle olive era poi messa nelle “spuorte” (appositi sacchi tondi con un buco in
mezzo, di canapa o ginestra, in italiano fiscoli). Le “spuorte” erano adagiate una sull’altra
nella pressa. Si iniziava allora la spremitura girando una vite che comandava la pressa,
con l’aiuto di una spranga e anche questa faticosa operazione veniva svolta manualmente.
Dalla pressa il mosto scolava in un recipiente capiente, se ciò avveniva troppo lentamente,
veniva di tanto in tanto versata acqua calda per velocizzare lo scorrimento. Dal recipiente
di raccolta era versato con un mestolo in un paiolo posto su di uno “spargert”, e messo a
bollire per raffinarsi. Più l’olio bolliva, più si raffinava diventando però nello stesso
tempo anche più acido, alcuni perciò lo bollivano meno a lungo. Completata questa
operazione si raccoglieva l’olio raffinato ed il sedimento veniva ribollito a casa.
Ciò che restava delle olive spremute era chiamato “nuogle” (sansa) e veniva riusato nel
torchio per attizzare il fuoco, qualcuno lo portava a casa per darlo come foraggio ai
maiali, più spesso, però, era usato come combustibile nel focolare.
L’olio che durante la spremitura colava dal mestolo e dai vari recipienti nei passaggi
successivi, alla fine della spremitura si conservava in un recipiente particolare. Di
quest’olio si diceva che fosse per il lupo (“za vuka”).
Il contadino che aveva le olive in spremitura portava ai lavoratori da mangiare: il
“frustek” a metà mattina, il pranzo e poi la “juzna” nel pomeriggio. Frequentemente
veniva preparato del baccalà in bianco o del sedano, e dopo aver riempito il primo paiolo,
solitamente, si offrivano delle frittelle (“fancli”).
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