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Questa è la storia di una donna come tanti, di un anziano, custode della nostra
memoria e spesso fonte di saggezza infinita. Sono proprio gli anziani che, con
naturalezza e franchezza, hanno dimostrato di essere forti, stravaganti, geniali,
eclettici, pieni di energie e voglia di agire. C'è sempre tempo per realizzare un
desiderio. Ho avuto la grande fortuna di fare un viaggio con un gruppo di anziani
partigiani. E’ incredibile la loro forza, la loro energia, la loro voglia di vivere. Una
vacanza indimenticabile.
Giuseppe Verdi, il famoso musicista, compose ad 80 anni il "Falstaff" e la sua carriera
proseguì fino agli 84 anni. Il pittore francese Monet dipinse il suo "Autoritratto" a 77
anni. Morì nel 1926 ad 86 anni mentre stava terminando la sua ultima opera "Grande
Decorazione dell'Orangerie". Il poeta Giuseppe Ungaretti a 68 anni incontrò il grande
amore, Bruna Bianco, grazie alla quale uscì da una profonda depressione. Per il suo
ottantesimo compleanno venne pubblicata la raccolta di poesie d'amore dedicata alla
sua amata. Edison, l'inventore del telegrafo a ripetizione, produsse la sua ultima
invenzione ad 81 anni. L'attore e regista inglese Charlie Chaplin ha ottenuto il suo
unico Oscar alla carriera a 83 anni. In più "Charlot" ebbe l'ultimo figlio a "soli"
settantatre anni.
Italia paese di anziani
La popolazione italiana invecchia progressivamente e sempre più. Tra la fine del XIX
secolo e l’inizio del XX secolo si è riscontrato un forte invecchiamento della
popolazione, che risulta essere una delle caratteristiche principali dei cosiddetti Paesi
più sviluppati. Questo rilevante fenomeno è dovuto alla diminuzione della mortalità
precoce (con il conseguente aumento della durata della vita) e alla contemporanea
riduzione della mortalità a causa di una migliore qualità della vita. Attualmente gli
ultrasessantenni presenti nel nostro paese sono circa 8.543.000 e per il 2050 è previsto
un ulteriore incremento fino a raggiungere le 14.710.870 unità. In Emilia Romagna
arriveremo a quota 2.151.852 contro 1.789.943 di abitanti sotto i cinquant’anni. Il
progressivo invecchiamento della popolazione italiana è anche visibile attraverso
l’analisi dell’indice di dipendenza degli anziani e dell’età media, che sono in costante
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aumento negli anni, inoltre si continua ad osservare un aumento della vita media,
conseguenza della costante riduzione dei rischi di morte a tutte le età della vita. Per i
maschi si è passati da un valore pari a 77,9 per il 2004 ad uno pari a 78,6 per il 2007,
mentre per le donne si è passati dall’83,7 per il 2004 all’84,9 per il 2007. A livello
internazionale l’Italia si colloca tra i paesi più longevi.
Piramide dell’età della popolazione italiana, confronto 2005-2050.
In Italia la popolazione matura, che ha superato i 60 anni non vuole sentirsi chiamare
'anziano', perché rifugge dallo stereotipo che si nasconde dietro questa parola. Un
vocabolo che, nella lingua italiana, non ha nessuna eccezione negativa, dal momento
che proviene dal latino antiànu(m), derivazione di ante, che significa 'prima',
riferendosi semplicemente all'essere 'nato prima'. Nell'immaginario collettivo
diventare anziano significa, il più delle volte, andare incontro a una fase della vita
connotata da eventi negativi. È quanto risulta da un’indagine condotta dal Censis,
secondo la quale ciò che 'introduce' nell'età anziana è l'insorgere di una malattia, nel
34,8% dei casi, la perdita dell'autosufficienza (27,5%), la morte del coniuge (30,9%),
o la solitudine (31,1%). Ma non la pensano così i diretti interessati, gli anziani
appunto. Il 75,4% degli italiani sopra i 60 anni dichiara, infatti, di 'non sentirsi
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anziano'. Un dato, questo, prevedibile nella fascia dei 'giovani anziani', ovvero dei 60-
64enni, fra i quali tale percentuale sale al 90,5%. Ma più stupefacente tra i 75-79enni,
pari al 68,7%, e gli 80enni e più, pari al 47,7%, che rifiutano per sé la definizione di
'anziano'. Non si sentono anziani semplicemente perché il loro stato psico-fisico non
corrisponde a quello che, nella società, si crede debba avere una persona avanti con
l'età. Non ci si aspetta quindi che i tre quarti degli over 60, sempre secondo il Censis,
possa sentirsi in buona, se non addirittura in ottima salute, mentre il 23,9% dichiara
una condizione di salute 'mediocre' e il 3,8%’pessima'. Gli 80enni e oltre dichiarano di
stare 'bene' o 'ottimamente' nel 63,2% dei casi. È proprio lo stato di salute generale
degli intervistati che influenza positivamente la loro percezione della felicità. Circa il
70% degli ultrasessantenni si dichiara, infatti 'molto o abbastanza felice, il
20,8%’poco', mentre è soltanto l'8,8% a dire di 'non essere assolutamente felice.
La tesi di laurea
E’ stato l’incontro con Mario Tommasini a stimolare il mio interesse verso questo
argomento. Questa tesi di laurea vuole essere la ricerca ad un problema che tale non
dovrebbe essere: garantire alla popolazione anziana di trascorrere l’ultimo periodo di
vita in un ambiente accogliente, sicuro e adatto alle proprie esigenze. Tali
cambiamenti possono modificare di conseguenza atteggiamenti e comportamenti in
funzione di una piena realizzazione di se anche e soprattutto negli anni della
cosiddetta vecchiaia. L’aumento della durata della vita media è ormai diventata un
fenomeno evidente a tutti e la maggior parte dei settantenni è in buone condizioni
psicofisiche. Deve avvenire una trasformazione del modo collettivo di concepire
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questa tappa della vita. L’invecchiamento è un fenomeno la cui esatta natura,
significato e cause sfuggono ancora in gran parte alla ricerca biomedica. Attualmente
viene descritto come processo progressivo, irreversibile e sostanzialmente legato a
fatti “intrinseci” durante il quale si verifica un declino di tutti i processi biologici e di
una serie di funzioni vitali. Le teorie sulla causa di questo declino sono molteplici e
implicano la possibilità di una serie di interventi preventivi e terapeutici che ne
possono in parte rallentare la velocità; il fenomeno può invece essere potenziato dagli
effetti di fatti morbosi, da incidenti e, aspetto per noi molto significativo, da una serie
di stress ambientali. L’invecchiamento è sì un fenomeno biologico, ma la qualità di
tale processo è fortemente determinata dalle reazioni individuali a tale trasformazione
e le risorse psicologiche del singolo sono anche il frutto di un determinato clima
ambientale. Un anziano che vive in un contesto che non gli riconosce i suoi diritti o in
un ambiente in cui viene annullata la sua dignità di essere umano certo non si muove
su uno sfondo favorevole. Si può dire che poche sono le iniziative che promuovono
un’idonea politica dell’abitare (alloggi con requisiti specifici, agevolazioni,
indicazioni tecniche sugli adeguamenti più opportuni, supporti “leggeri” che
consentano all’anziano di continuare la sua vita). Il ricorso alle “case di riposo” o
“istituti per anziani” non è una soluzione. Si tratta di una prassi ancora molto diffusa
che consente “di dare una risposta” ai casi complessi secondo procedure ormai
standardizzate e quindi facili per gli operatori, ma assolutamente inopportune per
anziani che presentino solo problemi di natura economica, alloggiativi o di lieve
compromissione nell’autosufficienza. In tutti questi casi, inoltre, siamo agli antipodi
di una soluzione efficace, poiché si induce un peggioramento complessivo nelle
condizioni di vita di una persona, seppur a fronte del contenimento di un problema
prioritario. La vecchiaia deve cessare di essere solo il tempo delle capacità perdute.
Gli anziani vanno liberati. Va loro ridata la dignità di una casa che meglio si adatti
alle loro esigenze.
Circa cento anni fa gli ospizi nacquero dalla generosità e dalla pietà dei ricchi verso i
vecchi miserabili e soli, senza casa e senza famiglia. In questi spazi si dava loro da
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mangiare, da vestire, un riparo per dormire. Un secolo dopo queste strutture esistono
ancora, ma non sono più caratterizzate da pietà e generosità. Ora sono centri di
business e di potere. Chi è “malato” solo di vecchiaia continua ad essere una persona
e ha il diritto di invecchiare e morire libero. Ha il diritto di avere una casa che non sia
una prigione, da cui può uscire quando vuole; non un letto in una camerata ma un
appartamento con sala e cucina, con arredi che non sanno di ospedale. Deve poter
decidere quando alzarsi, quando e cosa mangiare, a che ora spegnere la luce per
andare a dormire.
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1 Evoluzione della condizione dell’anziano
1.1 L’anziano nella storia
Le diverse considerazioni statistiche, demografiche, economiche e linguistiche che si
sono succedute negli anni, ci fanno osservare che la vecchiaia intesa come problema è
un fatto piuttosto recente. I vari scavi archeologici, i reperti cimiteriali, le analisi
antropologiche rivolte alla vita di ieri ed a quelli di oggi, consentono di constatare che
fino a circa un millennio prima di Cristo la percentuale di individui che superavano il
sessantesimo anno di età era del tutto irrisoria (meno dell’1%). Solo a partire da una
civiltà agricolo-rurale decisamente affermata, tale percentuale inizia ad elevarsi per
raggiungere, verso la metà del XIX secolo, livelli del 4%. Da allora il “grande balzo”
verso le attuali quote che superano il 10%. La ragione sostanziale di tale incremento
va assegnata alla caduta della mortalità infantile (sotto i livelli attuali del 4%) ed in
misura non minore alle migliorate condizioni di vita. Attraverso i lineamenti di storia
degli anziani, si possono evidenziare quei tratti essenziali che fanno riferimento al
“ruolo” da loro ricoperto ed al significato di vita e di morte con il quale tale “ruolo” è
stato socialmente legittimato. È noto che i popoli cacciatori e raccoglitori dedicavano
una porzione di tempo assai limitata al problema della sopravvivenza “biologica,
mentre ne dedicavano molto ai problemi della “coesione sociale”, in un’epoca nella
quale il sociale era caratterizzato da una ristretta comunità domestica (i gruppi di
solito non superavano le venti unità). Rito, festa, gioco, danza erano gli aspetti
preponderanti, una volta che, si era provveduto al cibo necessario per sopravvivere. Il
principio base che guidava questo tipo di “economia esistenziale” era che “ciascuno
dovesse provvedere a se stesso”. Da qui lo scarso ruolo sociale della donna, del
bambino, e dell’anziano, considerati individui meno capaci di svolgere appieno un
tale compito che esigeva freschezza di forze fisico-mentali e agilità per la caccia. La
violenza fatta alla natura era ben compresa dal nomade cacciatore che nei sacrifici
rituali chiedeva, in un certo senso, “perdono” all’animale che in seguito avrebbe
ucciso. In tale clima di “violenza” si giustificano altre violenze: il vecchio, non più
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capace di camminare e di deglutire il cibo, “si fermava” ai margini del gruppo
attendendo la morte; la donna, partorendo si fermava, mentre la tribù continuava il
suo cammino, il bambino doveva dimostrare la sua “forza d’animo” sottoponendosi a
feroci “riti d’iniziazione”. La precarietà e l’insicurezza dei mezzi di sicurezza e il
“ruolo” unico di cacciatore-raccoglitore avevano già sentenziato “chi” doveva
sopravvivere e “chi” non doveva. L’anziano era tra questi ultimi e non di rado la sua
soppressione era “fisicamente” attuata dagli stessi membri della tribù. La costante
superiorità del sociale rispetto all’individuale faceva sì che ciascun individuo si
sacrificasse in ragione del gruppo, poiché egli pesava sugli altri e che la morte fosse
vista come un’ineluttabilità cui nessuna cosa del creato poteva sottrarsi. Anzi, la
morte di alcuni determinava la sopravvivenza degli altri. La continua necessità di
spostarsi alla ricerca di migliori condizioni di sopravvivenza aveva reso del tutto
inutile ogni riferimento sia all’ambiente sia alla storia del gruppo; da ciò l’inutilità
della memoria dei popoli di cui l’anziano era, per cosi’ dire, il tramite naturale. La
provvisorietà sembrava costituire la categoria esistenziale più evidente della cultura e
dell’economia di quell’epoca. La nascita del villaggio e della scrittura costituiscono
un punto statico rispetto a molti altri elementi dinamici, quali, ad esempio, il generale
sentimento d’attesa che caratterizza la vita agricola: attesa del raccolto, attesa degli
eventi. La netta dipendenza dell’uomo dalla natura e dai suoi cicli, la ripetibilità delle
stagioni e dei raccolti, in forte sintonia con il ciclo vitale (nascita, sviluppo, morte),
determinano quelle “fissazioni” di idee, modi di fare, sentenze, norme, controlli
sociali che rappresentano anch’essi elementi statico-ripetitivi (istituzionalizzati) del
vivere quotidiano. Tradizioni, abitudini, controllo sociale, ordine, gerontocrazia
diventano binari obbligatori dell’iter esistenziale. In una tale situazione, il ruolo
predominante compete forzatamente all’anziano, come colui da cui proviene la
famiglia (ruolo di produttore biologico), l’esperienza (ruolo di specializzato), la
memoria del passato (mediatore tra nuove e vecchie generazioni), la sacralità
(mediatore del mistero religioso, saggio perché vecchio). La vita agricola si
incentrava in lunghi periodi lento-lavorativi, intramezzati dalle costellazioni di feste
religiose, nelle quali si ricostituiva il tessuto connettivo comunitario, ed in momenti di
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intenso lavoro, che costituivano i momenti forti di tale attività alternavano, quindi,
ruoli statici a momenti dinamici, nei quali la creatività, il tramandare la memoria
sociale, la socializzazione familiare, i fatti principali della vita (nascita, matrimoni,
morti) costituivano poli alternativi. In ambedue questi momenti, il vecchio
rappresentava la sicurezza dell’oggi e del domani; il suo potere (gerontocrazia) era
abbastanza legittimato, anche se esso era a discapito degli adulti e dei giovani. Di pari
passo con il miglioramento delle condizioni di vita (economiche e culturali, igieniche
e biologiche), migliorava l’apprezzamento per la “persona fisica” e prendeva ovunque
piede quella forma di mito nuovo del “valore sociale” e della vecchiaia, e della vita in
genere. Si veniva anche instaurando una nuova concezione della morte: dapprima
collegata coi cicli della natura di cui rappresentava l’esito finale, sintonizzata con gli
esiti finali di ogni ciclo annuale; poi quale “decisione inappellabile” della divinità
aveva assunto il significato di un evento autonomo, naturale. Essa perde lentamente la
sua rilevanza sociale e collettiva, il suo messaggio per chi resta, l’estrema
rappresentazione scenica di chi parte, sereno nel morire come nel vivere, e diviene
sempre più, come evidenziano le incisioni dell’epoca, le varie danze macabre, un fatto
personale, terreno, di fronte al quale ogni essere umano si trova nudo, solo. Dunque:
un semplice evento umano, il ritorno alla matrice, la fine della quotidiana fatica, un
evento disfunzionale al mito dell’uomo creatore che sta attuandosi con scoperte dei
nuovi mondi, della stampa, dell’ascesi intramondana, dell’eliocentrismo. La logica
che sta alla base della Rivoluzione industriale consiste nel netto rifiuto da parte
dell’uomo di dipendere dalla natura e dal mistero del cosmo. Di conseguenza l’uomo
ha creato un mondo artificiale ed artificioso di cui egli ne è l’artefice. L’orientamento
ai valori cede il posto all’orientamento ai mezzi ed agli scopi. Le motivazioni di
indole economica spingono alla produttività, all’ascesa sociale, ai crescenti livelli di
benessere, al profitto. La trasformazione dei prodotti della natura per mezzo dei
procedimenti industriali divide la residenza dal luogo di lavoro, innesta quel processo
che matura via via nell’urbanesimo, nell’arricchimento, nella mobilità, nell’elevarsi
continuo del livello scolastico e nella pubblicità (mass-media); nel mentre si
capovolgono le abituali gerarchie di valori, con il primo posto concesso al denaro,
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all’autonomia, alla sicurezza sociale, ai valori dell’io. Le stesse filosofie dominanti
(esistenzialismo e pragmatismo) identificano nell’utilità il massimo valore e
nell’angoscia la consapevolezza della fugacità della vita e dei suoi traguardi. Di
conseguenza le categorie del sociale perdono di rilevanza a favore di quelle
“pubbliche”, che risultano essere sempre più dominanti e sempre più svuotate di un
vero significato, per una crescente privatizzazione che coinvolge vita, ruoli e morte.
La nascita, il matrimonio, gli eventi tristi e lieti, la morte, la fatica, la sofferenza
vengono sempre più vissuti a livello individuale; la famiglia stessa diventa “nucleare”,
ricerca invano spazi connettivo-sociali, mentre il rapporto originario madre-bambino
tende ad essere l’unico rapporto “valido” nella crescente insignificanza del ruolo
paterno. Questo tipo di società, necessariamente, enfatizza il momento produttivo
come il momento gratificante. Sia la produttività biologica (quella dei genitori) che la
produttività economica (quella degli adulti) diventano i passaggi obbligati nei quali si
giustifica il momento espressivo e quello strumentale, entrambi funzionali alla società
consumistica; i ruoli estremi, della giovinezza (sempre più allungata) e della vecchiaia
(sempre più anticipata), vengono automaticamente “emarginati” da una filosofia del
mantenimento che prende il nome di “sicurezza sociale”, vero costo sociale del
benessere collettivo. Le restituzioni di ruolo (pensionamento) scatenano “crisi
esistenziali” di cui la società si fa carico, dal momento che esse sono funzionali ad un
modello sociale che con la morte privata, clinicizzata, socialmente irrilevante,
assicura la continuità dei ruoli produttivi ed il riciclaggio continuo delle perdite con le
nuove assunzioni. Al pari di qualsiasi ingranaggio tecnico, l’uomo è diventato un
elemento perfettamente “ricambiabile” (e quindi sostituibile) del meccanismo
produttivo. La vecchiaia e la morte sopravvengono dal momento in cui l’uomo è
diventato inutile non solo come produttore ma anche come consumatore; è l’istante in
cui il consumatore deve essere cancellato. La morte tecnica ha prevalso sul morire. La
vita vegetativa degli anziani sembra il costo necessario che l’umanità ha stabilito di
pagare per un benessere tanto effimero quanto nevrotico e schizoide. Così, mentre
crescenti percentuali di anziani sono dichiarati inutili (e si sentono veramente tali, in
rapporto alla loro posizione sociale, culturale ed economica), la maggior parte degli
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Stati industriali paga forti aliquote del bilancio annuale per un tipo di assistenza
sociale che si rivela, essa stessa, fonte di emarginazione ed economicamente sempre
più insostenibile.
1.2 L’anziano oggi in Italia
L’Italia ha sperimentato il passaggio tra epoche diverse con moduli e velocità
specifiche, legati alla lunga sedimentazione della civiltà contadina, ancora non del
tutto superata in alcune regioni: il cambiamento del sistema di produzione e delle
professioni si è ripercosso sul cambiamento del tipo di mercato e di consumi. La
razionalità di tipo economico è divenuta il perno della cultura attuale; per cui, si
stanno formando altre categorie, basate essenzialmente sul dinamismo e
sull’orientamento ai mezzi/scopi. La diseguale distribuzione di reddito percepito è alla
base di importanti fenomeni attuali: l’urbanesimo (la residenza vicino al luogo di
lavoro), la mobilità orizzontale (emigrazione) e verticale (l’ascesa professionale), il
progressivo elevarsi del livello scolastico; i fenomeni dei mass media attraverso i
quali l’industria impone le sue scelte, inventa bisogni nuovi e modelli di vita adeguati
e funzionali agli stessi. Sta emergendo, sia pur in modo confuso, una società nella
quale, per la prima volta nella storia dell’uomo, si registrano alcuni fenomeni come:
La caduta della mortalità infantile ed il graduale allungamento della vita media;
con il conseguente aumento delle fasce di età oltre il sessantesimo anno, fasce che per
la prima volta nella storia umana raccolgono ormai più del 15% totale della
popolazione;
Lo sfaldamento della famiglia patriarcale, disfunzionale alla vita industriale,
per il verificarsi del fenomeno delle giovani coppie (famiglie nucleari) con al massimo
uno-due figli, autonome e occupate al lavoro in ogni componente;
Un tipo di cultura urbana, antitradizionale, consumistica, acritica,
violenta o, alternativamente, conformista ed alienata;
Dalle indicazioni riportate emerge una conclusione: la condizione anziana nel 1861
non era un problema (solo il 4,2% superavano i 65 anni ma oggi è diventato un
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problema serio per una serie di elementi; infatti, gli anziani, pur rappresentando una
percentuale statisticamente rilevante non vengono considerati con la giusta
importanza. Lo status di anziano, dopo la parentesi gratificante della gerontocrazia
agricola, sta ritornando allo stadio delle popolazioni nomadi nelle quali l’anziano era
lasciato perire ai “margini della strada” che la tribù stava percorrendo. In quell’epoca
la sua inutilità ai fini della sopravvivenza tribale era così evidente che una bocca di
meno da sfamare ed un ritardo di tempo in meno erano considerati più funzionali e
più positivi ai fini della vita di gruppo. Il suo “difetto” in quanto persona di età si
ripercuote oggi nel suo difetto in quanto “condizione”, perché i modelli culturali
correnti devono giustificare eticamente le decisioni sociali che costringono l’anziano
ad eclissarsi, a nascondersi nella sua privatezza, a non costituire un problema per gli
altri. Qui troviamo la spiegazione esauriente della “congiura del silenzio” che grava
sugli anziani e sui loro problemi e la sconcertante superficialità con cui vengono
sporadicamente pubblicizzati “presunti” rimedi che dovrebbero eliminare la loro
estraneità ed emarginazione. In tal modo ci si illude che il parlare di un problema
valga a mettere a tacere la nostra coscienza e a nascondere uno dei più dolorosi
“costi” del benessere attuale. L’obsolescenza del problema dei vecchi e il silenzio su
di loro sono conseguenze, più o meno volute, di un più grosso fenomeno, quello della
graduale privatizzazione degli atti più importanti della vita umana: nascita,
matrimonio, morte, lavoro, tempo libero, cultura. Divengono aspetti frammentari,
isolati, vissuti a livello individuale, senza più alcuna rilevanza sociale. I diretti
“fruitori” devono risponderne in proprio, di fronte ad una collettività che è loro
estranea; e tutto ciò accade in un’epoca in cui la categoria del “pubblico” crede di
aver definitivamente sommerso le vistose antinomie di un “privato” di chiara marca
borghese. Al “pubblico” che tenta di soppiantare il “privato” non ha fatto riscontro
l’emergere della ben più importante categoria del “collettivo” nella quale
partecipazione e comunione possono divenire i simboli ricostitutivi della “famiglia
allargata”. I motivi del silenzio sugli anziani derivano, anche, da altri paradigmi della
cultura attuale: il generale orientamento al futuro che caratterizza le frange
culturalmente più vivaci, l’influsso dei mass-media, centrati sui valori giovanili, i