CAPITOLO II
La disgregazione delle disposizioni poste a tutela della formazione dibattimentale
della prova. L'intervento del legislatore costituzionale e l'affermarsi del giusto
processo.
1. L'irrazionalità del divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria. La sentenza n.
24/1992 della Corte Costituzionale.
Quella prima descritta era, seppur sommariamente descritta, la struttura del codice di procedura
penale del 1988, che, come noto, è stata letteralmente travolta da numerose pronunce della Corte
costituzionale e da frammentarie involuzioni legislative, dettate soprattutto dall'emergenza della
criminalità organizzata sviluppatasi all'inizio degli anni novanta, accompagnate da interpretazioni
giurisprudenziali che avevano del tutto snaturato lo spirito del nuovo codice. E' importante,
pertanto, evidenziare le tappe principali che hanno condotto alla riforma dell'art. 111 della
Costituzione ed alla conseguente costituzionalizzazione del principio del giusto processo e del
contraddittorio quale metodo per la formazione della prova nel processo penale. La prima pronuncia
della Corte costituzionale, che ferì il cuore del sistema delineato dal legislatore del 1988, fu la sent.
n. 24/1992 concernente il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria sopra le
dichiarazioni acquisite dai testimoni. Con tale decisione la Corte dichiarò costituzionalmente
illegittimo l'art. 195 comma 4 c.p.p perchè in contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto il divieto in
esame sarebbe stato irragionevole. La ragione della previsione di tale divieto nel nuovo codice, in
realtà, altro non era che inevitabile conseguenza dell'accettazione dei principi accusatori e del
contraddittorio. Essendo le dichiarazioni rilasciate nel corso delle indagini preliminari l'oggetto
della testimonianza indiretta della p.g., la legittimità di una tale testimonianza avrebbe permesso
l'introduzione in dibattimento di affermazioni non rese in contraddittorio con conseguente
vanificazione della disciplina delle contestazioni testimoniali (art. 500 comma 4 c.p.p.) e del divieto
di lettura degli atti assunti nelle indagini preliminari ( art. 512 c.p.p.) nonché, più in generale, del
principio di separazione delle fasi.
La ragione per la quale gli atti assunti unilateralmente non possono avere valore di prova era ed è
semplice: essendo acquisiti al di fuori di qualunque garanzia giurisdizionale e senza che l'altra parte
possa intervenire, è solo l'organo interrogante che decide domande e il modo col quale porle,
seguendo le proprie ipotesi ricostruttive e proprie finalità. In tal modo il contesto di acquisizione è
fortemente influenzato dal soggetto che procede all'assunzione della dichiarazione e tale influenza
non può non avere effetti sul contenuto stesso delle dichiarazioni. La Corte costituzionale ritenne
invece che il divieto di testimonianza indiretta costituisse innanzitutto una eccezione sia rispetto alla
disciplina della testimonianza indiretta nel suo complesso sia rispetto alla regola generale sulla
capacità a testimoniare. Tale eccezione, pertanto, appariva irragionevole o, per meglio dire, sfornita
di ragionevole giustificazione.
Questa sentenza, come prevedibile, determinò una profonda reazione nell'ambito della dottrina, a
causa delle affermazioni in essa contenute ancor più che delle conclusioni cui giunse la Corte.
Appariva, infatti, del tutto artificiosa l'argomentazione secondo la quale i principi del nuovo
processo e l'ammissibilità della testimonianza indiretta della polizia giudiziaria non erano in
contrasto. Permettere alla polizia giudiziaria di testimoniare sul contenuto delle dichiarazioni rese
nel corso delle indagini preliminari significava violare il principio cardine su cui reggeva la nuova
concezione della prova, secondo cui, avendo riguardo alla prova orale, si sarebbero dovuti utilizzare
a fini decisori le sole dichiarazioni testimoniali formate in dibattimento nel contraddittorio delle
parti. Quanto detto lascia intendere come in un processo penale fondato sul principio in questione
non possono che essere eccezionali i casi in cui è ammesso introdurre.
nel giudizio le affermazioni acquisite unilateralmente e come non sia di regola permesso utilizzare a
fini decisori tali argomenti.
Nel caso di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria il legislatore mirava ad impedire che con
tale strumento il giudice potesse conoscere ed utilizzare , ai finidel proprio convincimento, il
contenuto delle dichiarazioni precedentemente assunte in segreto e senza l'intervento della difesa e
sulle quali, quindi, l'imputato nulla aveva potuto influire, proprio perchè già cristallizzate. Così
concepito, tale divieto non solo era ragionevole ma addirittura indispensabile per la tenuta
dell'impianto accusatorio del nuovo processo. Per tale ragione, la caduta di tale disposizione non
poteva non importare il pericolo di una progressiva disgregazione del sistema, che in effetti avvenne
con le sentenza della Corte costituzionale sulla disciplina delle dichiarazioni erga alios del
coimputato e dell'imputato di reato connesso o collegato e sul regime delle contestazioni
testimoniali.
2. L'esercizio dello ius tacendi quale causa di impossibilità sopravvenuta di ripetizione dell'atto.
La sentenza 254/1992 Corte Cost.
Con una sentenza di poco successiva la Corte decise sulla incostituzionalità dell'art. 513 comma 2
c.p.p. nella parte in cui non consentiva, stando all'interpretazione giurisprudenziale più accreditata,
la lettura delle dichiarazioni degli imputati di cui all'art. 210 c.p.p. qualora questi si fossero avvalsi
della facoltà di non rispondere. Tale irrazionalità andava valutata con riguardo alla diversa
disciplina dell'art. 513 c 1 del c.p.p. In tal caso il legislatore avevo inteso l'ipotesi dell'imputato, che
si rifiutava di sottoporsi all'esame, come un caso di impossibilità di ripetizione dell'atto per
indisponibilità dello stesso imputato dell'esame. Ciò premesso, la Corte non comprendeva come
mai, nelle ipostesi di cui al comma 2 dello stesso articolo, si fosse previsto un regime opposto. In
sostanza “... in tutti i casi in cui si è in presenza di procedimenti che- per relazioni esistenti tra i
reati contestati- la legge qualifica connessi o collegati, e quindi potenzialmente soggetti a
trattazione cumulativa, la circostanza che al simultaneus processus non si addivenga per qualsiasi
causa non può ragionevolmente mutare il regime di leggibilità in dibattimento ( e quindi
l'utilizzabilità di fini della decisione) delle dichiarazioni rese durante le indagini preliminari degli
imputati di detti provvedimenti. E ciò vale anche nelle ipotesi in cui.. la trattazione separata dei
processi è imposta dalla legge, ma per finalità che nulla hanno a che vedere col regime delle
prove...”
Sulla base di queste considerazioni la Corte costituzionale dichiarò, quindi, la illegittimità
costituzionale dell'art. 513 comma 2 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che il giudice, sentite le
parti, disponesse la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al comma 1 del medesimo articolo
rese da persone indicate nell'art. 210 del codice, qualora queste si fossero avvalse della facoltà di
non rispondere.
La critica della dottrina fu assai aspra: si intravedeva, infatti, una incredibile violazione del
principio del contraddittorio, in quanto si ammetteva la possibilità di acquisire al processo elementi
formati in assenza di partecipazione dialettica delle parti. Le varie considerazioni espresse in merito
furono del tutto ignorate anche dalla giurisprudenza successiva alla sentenza n.254/1992 . La Corte
ha così provveduto a sviluppare le conseguenze delle impostazioni assunte con questa sentenza e
prova ne è l'iter attraverso cui si è dichiarata l'incostituzionalità dell'art. 513 c.p.p. nella parte in cui
non consentiva la lettura delle dichiarazioni assunte dalla polizia giudiziaria su delega del p.m.
nonché la fondamentale sentenza n. 361/1998, con la quale si dichiarò costituzionalmente
illegittima la “nuova” formulazione dell'art. 513 comma 2 c.p.p. a seguito della legge 267/1997, tesa
a recuperare lo spirito originario dell'art. 513 c.p.p.
3. L'affermarsi del “principio di non dispersione della prova”. La sentenza n.255/1992.
Quasi contestualmente alla sentenza n. 255/1992, la Corte costituzionale, con la successiva sentenza
n. 255/1992, dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 500 comma 3 e comma 4 c.p.p nella parte
in cui non si prevedeva l'acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se erano state utilizzate per
le contestazioni previste dai commi 1 e 2 dello stesso articolo, delle dichiarazioni precedentemente
rese dal testimone e contenute nel fascicolo del p.m. In questa sentenza, per la prima volta in modo
assolutamente chiaro ed inequivocabile, la Corte costituzionale fondò le proprie argomentazioni sul
“ principio di non dispersione della prova”. La questione sottoposta all'attenzione della Corte fu la
irragionevolezza di un sistema che prevedeva, all'art 500 c.p.p., la possibilità che si procedesse a
contestare al testimone le sue dichiarazioni contenute nel fascicolo del p.m e, al tempo stesso, che
tali dichiarazioni dovessero essere valutate solo per stabilire l'attendibilità del testimone e non anche
la prova dei fatti in esse affermati. La Corte costituzionale, proprio facendo riferimento al profilo
della ragionevolezza, ritenne censurabili i commi 3 e 4 dell'art. 500 c.p.p. Innanzitutto, pur
sottolineando come il principio dell'oralità fosse stato assunto come principio ispiratore del nuovo
codice, la Corte sostenne che il metodo orale non costituisse affatto il veicolo esclusivo di
formazione della prova in dibattimento, “... ciò perchè fine primario ed ineludibile del processo
penale non può che rimanere quello della ricerca della verità..., di guisa che in taluni casi in cui la
prova non possa, di fatto, prodursi oralmente è dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in
volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento...”
Ancor più incisivamente la Corte sostenne che il sistema accusatorio aveva certamente prescelto la
dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all'esigenza di
ricerca della verità; ma accanto al principio dell'oralità sarebbe stato presente , “...nel nuovo sistema
processuale, il principio di dispersione degli elementi di prova non compiutamente ( o non
genuinamente) acquisibili col metodo orale...”
“Proprio sotto questo profilo, e cioè proprio in raffronto al sistema nel cui ambito ( era) destinata
ad inserirsi, la norma impugnata ( appariva) priva di giustificazione ponendo in essere una
irragionevole preclusione nella ricerca della verità...”: “non ( risponderebbe) a logica che tutte le
altre dichiarazioni rese dal testimone durante le indagini preliminari ( al pubblico ministero o alla
polizia giudiziaria) o addirittura avanti il giudice dell'udienza preliminare, e già entrate nel
contraddittorio dibattimentale attraverso il veicolo delle contestazioni, non potessero essere
compiutamente utilizzate dall'organo giudicante, al fine dell'accertamento dei fatti, nemmeno
quando questi le cosi pienamente veritiere da dover disattendere la difforme disposizione resa in
dibattimento...”
Con le sentenze 254 e 255 del 1992 la Corte costituzionale demoliva le fondamenta sulle quali era
stato retto il nuovo codice di procedura penale del contraddittorio, che implicava la separazione
delle fasi e, dunque, la inutilizzabilità fisiologica degli atti di indagine e, più in generale, di tutte le
dichiarazioni assunte senza la partecipazione della difesa. Non può stupire, quindi, che da tali
pronunce prese nuovamente vita lo spirito inquisitorio. Non può stupire, altresì, come la maggior
parte della dottrina mosse severe critiche all'impostazione assunta dal Giudice delle leggi. Non
poteva ammettersi, da un lato, che la Corte avesse contrapposto il principio della non dispersione
della prova al principio dell'oralità , senza impostare, come avrebbe dovuto essere, l'antitesi con il
ben diverso principio del contraddittorio e, dall'altro , si fosse ritenuto che il metodo del
contraddittorio potesse essere in un qualche modo in contrasto con l'esigenza di verificare la verità
dell'enunciato contenuto nell'imputazione.
Tale inammissibile contrapposizione ( contraddittorio contro ricerca della verità) sarà uno dei temi
principali della successiva giurisprudenza e delle riflessioni sul futuro del processo da parte della
dottrina. Con la sentenza n. 361/1998 la Corte costituzionale riterrà di aver “trovato la via” per
conciliare i due principi. Tale tentativo, tuttavia, si rivelerà alquanto fragile, tanto che proprio in
conseguenza di questa pronuncia si renderà necessaria, come si vedrà, la modifica dell'art. 111 Cost.
al fine di riconoscere definitivamente la necessità del contraddittorio nella formazione della prova.
4. Le principali modifiche legislative a seguito degli interventi della Consulta. Le indagini
preliminari diventano una gigantesca istruzione sommaria.
Sulla spinta degli interventi della Corte costituzionale appena detti e per far fronte alle gravi
tensioni derivanti dalla criminalità organizzata sviluppatasi all'inizio degli anni novanta, furono
attuate una serie di modifiche del codice tese a ridurre significativamente il principio della
separazione delle fasi e, più in generale, il principio del contraddittorio nella formazione della
prova. Significative in tal senso furono le modifiche introdotte con il decreto legge n. 306/1992 con
il quale si “tradusse” in specifiche disposizioni il significato del “principio di non dispersione della
prova” elaborato dalla Corte. Le dichiarazioni raccolte nelle indagini preliminari potevano essere
utilizzate ai fini decisori, purchè fossero state contestate e vi fossero stati elementi che ne
confermassero l'attendibilità; le prove assunte in un determinato processo penale potevano
trasmigrare senza particolari difficoltà in un diverso procedimento. L'effetto più significativo di una
simile controriforma fu l'incredibile potenziamento del valore probatorio delle indagini degli
inquirenti, con evidenti ricadute sulla parità delle parti. Si sentì sempre più necessario procedere a
riformare il processo penale, attraverso un ampliamento dei poteri investigativi del difensore,
nonché di una nuova configurazione dell'art. 513 c.p.p. e più in generale delle dichiarazioni contra
alios del coimputato e dell'imputato in procedimento connesso o collegato.
La reazione della dottrina a tale controriforma del processo fu assai aspra. Non sfuggiva,
innanzitutto la contraddizione tra le affermazioni di principio, a cui dichiaravano di ispirarsi il
Governo ed il Parlamento, e la disciplina concretamente attuata. Lo scopo paventato era quello di
porre in essere disposizioni tese ad impedire una “usura” ingiustificata delle fonti di prova,
consentendo l'acquisizione agli atti del processo di documentazione di sicura affidabilità ai fini di
decidere , senza sconvolgere il modello processuale del 1988 e senza mutare le caratteristiche dei
procedimenti diversi da quelli contro la criminalità organizzata. Tale intento era, tuttavia,
contraddetto dal contenuto delle disposizioni introdotte con il provvedimento in questione.
La dottrina più accorta si era pertanto incentrata sul fatto che attraverso queste modifiche si fosse
riesumata, ingigantendola, l'istruzione sommaria propria del codice Rocco e, per l'effetto, si fosse
creata una indubbia e ingiustificata disparità tra le parti. A fronte di tale involuzione, non si poneva
che una alternativa, o ritornare al passato, escludendo del tutto l'utilizzabilità degli atti di indagine
compiuti in segreto dagli inquirenti; o attribuire, per quanto possibile, gli stessi poteri del p.m al
difensore dell'imputato riconoscendo anche agli atti di indagine difensiva lo stesso valore probatorio
di quelli del p.m o della p.g e provvedendo nel contempo ad attuare significative riforme
sull'ordinamento giudiziario.
La seconda possibilità, anche se più macchinosa, fu la strada in concreto intrapresa perchè ritenuta
più coerente al contesto giurisprudenziale, e tale da ridurre al minimo gli effetti pregiudizievoli
delle sentenze appena passate. Da tali riflessioni e tensioni deriveranno le principali riforme
legislative in tema di prova della seconda metà degli anni novanta, fino alla sentenza n. 361/1998
della Corte costituzionale: la legge 8 agosto 1995 n.332 e soprattutto la legge 7 agosto 1997 n. 267.
5. Il tentativo di recupero dello spirito originario del Codice: la legge n. 267/1997.
In conseguenza dei diversi interventi della Corte costituzionale la configurazione del processo
penale era radicalmente mutata rispetto all'assetto originario. Il principio della separazione delle fasi
era stato demolito dalle sentenze prima esaminate. In base a queste pronunce, infatti, fu considerato
irrazionale e, dunque costituzionalmente illegittima qualunque disciplina probatoria tesa ad
escludere a priori l'utilizzabilità dibattimentale degli atti di indagine assunti unilateralemente dagli
organi inquirenti. Veniva così configurato un nuovo principio di rilevanza costituzionale, di cui,
però, non vi era traccia alcuna nella Costituzione (il principio di non dispersione della prova) in
forza del quale un atto di indagine legalmente assunto, doveva sempre essere considerato
stabilmente acquisito a livello processuale e, quindi, utilizzato per la decisione, anche qualora alla
sua formazione fosse risultato estraneo l'imputato. In sostanza dopo gli interventi della Corte
Costituzionale il contraddittorio non ha assunto più il valore di metodo prediletto per la formazione
della prova, secondo la prima configurazione del codice, tanto che il rapporto tra regola ed
eccezione ( del contraddittorio) era del tutto snaturato...