descrivere l’evoluzione degli IDE, che sono alla base di qualsiasi sviluppo
multinazionale.
In tale studio ci si soffermerà, poi, dettagliatamente sulle vicissitudini del caso italiano,
dove l’internazionalizzazione sembra aver avuto fin ad ora una crescita progressiva a
fasi alterne, rispecchiando l’andamento riscontrato per l’intero fenomeno a livello
mondiale, ma con ritmi inferiori rispetto agli altri paesi industrializzati e con un
conseguente ritardo accumulato di non poco conto sia per gli IDE in entrata, che in
uscita. Cercheremo perciò di comprendere ed analizzare le cause ed i problemi alla base
della situazione italiana e proveremo ad individuare le tendenze in corso in modo da
poter comprendere le soluzioni adottabili nei vari comparti d’analisi. Saranno esaminati
anche casi reali, in modo da poter comprendere nel dettaglio le cause della forte spinta
all’internazionalizzazione che stanno vivendo le imprese italiane, in particolar modo di
piccole dimensioni. Le quali in anni passati si limitavano al territorio nazionale e
difficilmente, o comunque in casi sporadici e casuali, superavano i confini nazionali.
Dividendo il lavoro schematicamente abbiamo cinque capitoli. Inizieremo, quindi dal
primo capitolo, analizzando cos’è e come è strutturata un’impresa multinazionale,
l’evoluzione di tale tipologia d’impresa fino ad oggi, prestando particolare
concentrazione sullo sviluppo della letteratura in materia, daremo anche uno sguardo
all’evoluzione dell’integrazione dei mercati, soffermandoci in particolare sulla forte
crescita degli IDE fino ad arrivare ad un'attenta analisi di cosa spinge le imprese a
divenire multinazionali. Nel secondo capitolo studieremo teoricamente gli effetti che le
multinazionali comportano sul paese di origine e sul paese ospite sottolineando
l'importanza e la positività dell'internazionalizzazione e arrivando anche a commentare
l’attuale dibattito in corso sul fenomeno della “multinazionalizzazione” delle imprese.
Nel terzo capitolo ci soffermeremo sull’analisi di come gli IDE influenzano la politica
economica di un paese e degli strumenti, che i governi usano proprio per attrarre gli
investimenti esteri. In tale capitolo saranno presentate anche delle ricerche su alcuni casi
empirici, in grado di descrivere le tendenze più attuali, che trattano determinati paesi
europei, molto attivi in termini di internazionalizzazione ed attrazione delle
multinazionali, questi sono Irlanda, Polonia e Bulgaria.
Dal quarto capitolo inizia l’attento studio del processo di internazionalizzazione
produttiva delle imprese italiane, descriveremo dapprima la storia della
multinazionalizzazione in Italia dividendola in periodi, per facilitare l’analisi, questi
sono precisamente la fase che arriva dagli inizi del fenomeno fino a metà anni ottanta e
l’intervallo compreso tra metà anni ottanta e metà anni novanta. Partiremo dalle prime
imprese, che alla fine degli anni sessanta, si affacciavano sul panorama internazionale e
che nelle prima metà degli anni ottanta incominciano ad avere quei tassi di crescita
molto alti, caratteristica principale di fine millennio. Nel corso tratteremo con cura le
direttrici geografiche e settoriali che hanno caratterizzato le varie fasi di apertura
multinazionale, aggiungendo anche una precisa indagine sui maggiori protagonisti sia
per l’internazionalizzazione attiva, che passiva per i vari periodi. Durante la ricerca non
ci limiteremo a descrivere i dati statistici, ma cercheremo di analizzarli, in modo da
poter comprendere con precisione le tendenze e le cause, nonché le caratteristiche
strutturali fisse e variabili, che hanno determinato l’evolvere e l’attuale condizione
dell’internazionalizzazione in Italia.
Nel quinto capitolo si indagherà la moderna situazione multinazionale italiana, sarà
infatti presentata una fotografia dell’attuale internazionalizzazione sia commerciale che
produttiva del nostro paese, sarà poi descritta, con la stessa metodologia usata nel
4
precedente capitolo, ma con un maggiore approfondimento, dividendo
l’internazionalizzazione attiva da quella passiva, la dinamica che il fenomeno
multinazionale ha avuto in Italia negli ultimi dieci anni. Da questo studio del caso
italiano emergerà il ritardo dell’Italia rispetto ad altri paesi industrializzati, benché la
buona crescita fatta registrare nel corso degli anni. Si noterà poi un sempre maggiore
protagonismo a livello internazionale delle piccole e medie imprese, le quali sentono in
questi anni, più che mai, l’esigenza di divenire multinazionali e di poter competere allo
stesso livello dei propri concorrenti, che in modo diretto o indiretto li portano a
confrontarsi sui mercati mondiali. Le grandi imprese sembrano, invece, aver perso
quella “spinta” che le aveva caratterizzate durante tutti gli anni ottanta. Nel corso del
quinto capitolo sarà effettuata anche una ricerca sui principali strumenti di sostegno
pubblico a disposizione delle imprese, in modo da poter comprendere l’impegno e
l’attenzione dello Stato in tale ambito, così da poter capire anche l’importanza che
l’amministrazione pubblica conferisce all’internazionalizzazione come possibilità di
crescita economica del paese.
Il quinto capitolo si conclude con la descrizione di due ricerche empiriche, il caso Cina
e il caso Piaggio. Queste due analisi ci permetteranno di confermare ed avvalorare le
risposte forniteci dallo studio teorico. Inoltre vedere da vicino le vicissitudini di
un’impresa italiana, come la Piaggio, ci permette di sentire ed incorporare lo “spirito
impetuoso e battagliero” di molte nostre imprese in ambito internazionale.
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CAP. 1: LE MULTINAZIONALI: STORIA E PROGRESSI.
Prefazione
Le imprese multinazionali ormai invadono la nostra vita quotidiana, in ogni piccolo
gesto possiamo risalire ad un impresa multinazionale: quando beviamo una bibita,
quando facciamo benzina. È un dato di fatto che il commercio globale, e quindi i nostri
comportamenti da consumatori, siano influenzati dalle multinazionali, il cui peso sulla
produzione della ricchezza mondiale è in continuo aumento. Secondo un recente studio
delle Nazioni Unite, tra le cento entità economiche più importanti del mondo (Paesi od
organizzazioni), 29 sono multinazionali americane. Inoltre, una quota molto grande del
commercio mondiale viene realizzata dalle multinazionali, alcuni studiosi hanno stimato
che la cifra del commercio mondiale riconducibile alle multinazionali è del 75%
(Dunning 1993). Per capire statisticamente il peso delle imprese multinazionali sulle
economie dei vari paesi possiamo osservare la tabella 1.1 in cui è riportata la quota delle
società controllate estere sull’occupazione e sulle vendite dell’industria manifatturiera
per alcuni paesi.
Tabella 1.1: Quota delle società controllate estere sul totale delle attività
manifatturiere (valori in percentuale)
USA
1994 2001
Giappone
1994 2001
Gran
Bretagna
1994 2001
Germania
1994 2001
Italia
1994 2001
Occupati 12,71 13,27 0,8 1,2 18,1 20,4 7,3 5,8 8,4 10,9
Vendite 15,7 19,74 1,4 2,6 30,6 36,1 13,3 8,3 9,2 22,3
Fonte: OECD (2003).
Oggi il dibattito sulle multinazionali è sempre più stringente: da un lato queste sono
viste positivamente dai governi nazionali dei vari paesi, che cercano di attirarne gli
investimenti con vari mezzi, che vedremo nel corso del capitolo. Dall’altro spesso le
multinazionali sono attaccate dai consumatori e dall’opinione pubblica, in quanto
ritenute responsabili, direttamente o indirettamente, delle lesioni più gravi e sconcertanti
ai diritti dell’uomo.
In tale capitolo cerchiamo di fare chiarezza su questo dibattito analizzando la crescita
dell’internazionalizzazione economica e quindi il contemporaneo sviluppo delle imprese
multinazionali, la struttura delle stesse ed i fattori storici ed economici che determinano
la decisione delle imprese di divenire multinazionali.
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1.1: CHE COSA SONO LE MULTINAZIONALI
L'espressione "impresa multinazionale" fu utilizzata per la prima volta da David
Lilienthal, direttore della Tennessee Valley Authority, in una relazione presentata al
Carnegy Institute of Technology nel 1963. Il termine assunse, tuttavia, risonanza
internazionale il 20 aprile 1963, quando il settimanale Business Week dedicò al tema un
numero speciale dal titolo appunto Multinational Companies. In seguito, sono state
distinte altre tipologie di imprese in base al loro grado di coinvolgimento all'estero. Nel
1973 Robinson propose una sorta di classificazione:
ξ le imprese multinazionali: imprese caratterizzate da un chiaro ed effettivo
"orientamento internazionale", ma limitato dal fatto che la sede dei processi
decisionali rimane all'interno del paese d'origine;
ξ le imprese internazionali: imprese che intrattengono attività con l'estero e le
gestiscono tramite uno specifico "ufficio estero" ove è collocato personale
specializzato;
ξ le imprese transnazionali: imprese caratterizzate da assetti proprietari
ripartiti tra azionisti di paesi diversi, il cui "centro decisionale" non è legato
a motivazioni o condizionamenti di carattere nazionale;
ξ le imprese sovranazionali: in cui l'orientamento internazionale è ancora più
spiccato e non esistono condizionamenti legati alla struttura dell'impresa od
anche a fattori di carattere psicologico o giuridico.
1
Con l'espressione "impresa multinazionale” si intende più specificatamente un'impresa
che possiede o controlla attività di produzione di beni o servizi in vari paesi. Ciò
significa che non è sufficiente per un'impresa svolgere semplici attività di
commercializzazione (compravendita di prodotti realizzati nel paese d'origine) o
effettuare investimenti all'estero di carattere puramente finanziario (non legati
direttamente a finalità produttive, investimenti di portafoglio) per essere qualificata
come "multinazionale". Il termine impresa multinazionale, tuttavia, ha registrato nel
tempo una diffusione così ampia da essere utilizzata comunemente anche per indicare le
imprese appartenenti alle categorie con un grado di coinvolgimento internazionale più
ampio. L'elemento caratterizzante dell'imprese multinazionali è in definitiva la
realizzazione di investimenti diretti esteri (IDE), investimenti finanziari che implicano
la volontà da parte dell'investitore di esercitare un "controllo diretto" sull'impresa estera,
nonché di intervenire in modo consistente nelle decisioni relative alle varie fasi della
produzione. I motivi che possono spingere un'impresa ad investire all'estero sono
molteplici. Solo tenendo in considerazione l'interazione tra i diversi fattori che
influenzano le scelte di investimento degli operatori è possibile tentare di risalire alle
cosiddette "determinanti degli IDE". Le imprese multinazionali comprendono sia le
grandi corporation come Nike, Intel, Procter and Gamble sia le piccole e medie imprese
come Geox.
1
Rivedremo meglio questa classificazione in seguito.
7
1.2: LA STRUTTURA DELLE MULTINAZIONALI
Le multinazionali sono grandi gruppi imprenditoriali formati da diversi organismi
separati per sede territoriale e, spesso, anche per settore di attività.
Le unità produttive sono legate tra loro dal vincolo della partecipazione azionaria a un
solo gruppo centrale che detiene la totalità o la maggioranza delle quote, e dell’attività
di produzione, in quanto l’impresa centrale coordina e controlla l’organizzazione, le
tecnologie ed i metodi di lavoro utilizzati.
In pratica, il capitale dell’impresa filiale, grazie ad una struttura gerarchica piramidale,
risulta essere di proprietà di un’altra impresa affiliata che si aggancia alla casa madre.
Le multinazionali hanno la capacità di operare in tutto il mondo: le sedi centrali sono
dislocate nei paesi più ricchi del mondo ed in quelli emergenti, mentre negli altri paesi
sono installati centri di produzione e filiali commerciali.
Nelle multinazionali vi è una forte concentrazione della direzione del sistema; infatti,
nelle principali metropoli viene localizzato il massimo livello decisionale, nelle capitali
regionali viene localizzato il livello intermedio di gestione e nelle aree periferiche e nei
paesi in via di sviluppo vengono localizzate le funzioni produttive.
Tra la società madre e le filiali vi sono flussi di direzione opposta, in quanto dal centro
alla periferia si indirizzano investimenti e informazioni sulle strategie mentre in senso
contrario si sviluppa il flusso dei profitti. Per comprendere meglio la relazione tra casa
madre e unità locali possiamo analizzare lo ricerca sviluppata da Bartlett e Goshal che
pervengono all’individuazione di tre modelli:
ξ Impresa multinazionale (modello europeo) : con tale denominazione i due
autori vogliono indicare lo stereotipo di impresa europea che ha iniziato ad
internazionalizzarsi nel periodo tra le due guerre. Tale tipo d’impresa adotta una
strategia d’internazionalizzazione multidomestica, ovvero cerca di adattasi alle
diverse condizioni dei mercati locali. Questo modello organizzativo è definito
federazione decentralizzata in quanto c’è una forte delega delle responsabilità
alle singole unità nazionali per permettere a queste di rispondere alle differenti
esigenze che emergono dai mercati nazionali in cui l’impresa è dislocata. In
pratica l’ headquarter si occupa principalmente degli aspetti gestionali inerenti
finanza, amministrazione ecc…
ξ Impresa internazionale (modello Usa): gli autori si riferiscono ad imprese che
hanno avviato i propri processi di internazionalizzazione nel secondo
dopoguerra. Tale modello è definito federazione coordinata in quanto la casa
madre conserva sempre un ruolo centrale e dominante ovvero è la fonte dello
sviluppo di nuovi prodotti per tutta l’impresa. In pratica la casa madre svolge il
ruolo di “mente “e le filiali di “bracci “operativi. Ciò comporta un forte
coordinamento e controllo delle attività svolte dalle filiali delocalizzate.
ξ Impresa globale (modello Giapponese): questo modello indica le imprese
giapponesi internazionalizzatesi nel corso degli anni ’70 – ’80. La caratteristica
principale di tale tipo d’imprese è la forte centralizzazione delle attività, ciò
perché vi è una concezione del mercato mondiale come un unico mercato
integrato in cui cercare di raggiungere la massima efficienza. Tale modello
viene, perciò, definito fulcro centralizzato in cui la massima centralizzazione
delle attività nelle sedi giapponesi permette di ottenere economie di scala, di
scopo e di esperienza. Quindi, secondo tale concezione, non viene lasciata alle
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unità locali nemmeno la possibilità di adattare i prodotti alle caratteristiche
locali.
ξ Impresa transnazionale: l’impresa transnazionale è un modello innovativo nato
a partire dagli anni ‘90 per affrontare le nuove sfide che si sono trovate a
fronteggiare le imprese internazionalizzate. La caratteristica di tale modello è di
costituire una rete integrata contraddistinta dalle seguenti caratteristiche: una
configurazione geografica distribuita; una specializzazione delle unità
nazionali: “viene dato il potere a chi ha il know how” , ovvero alle unità locali
viene affidata la responsabilità per funzioni. Le singole unità assumono così il
ruolo di sedi centrali per specifiche funzioni per le quali hanno il maggior “know
how” all’interno dell’impresa. Così il centro di eccellenza avendo le competenze
distintive in quel determinato asset gestisce a livello mondiale quel business
dell’impresa. In tal modo il management al centro può concentrarsi sul
coordinamento delle funzioni distribuite localmente e sulle funzioni ritenute
cruciali nell’attività di gestione. Un’interdipendenza tra le unità: tale
interdipendenza permette di rafforzare i rapporti di collaborazione tra le diverse
unità dell’impresa. In quest’ottica è ancora più importante il coordinamento del
top management aziendale che “deve indicare chiaramente la filosofia aziendale
in modo che questa venga condivisa e moltiplicare i canali di contatto tra le
diverse unità aziendali per favorire la condivisione delle esperienze, delle
conoscenze e dei valori” (Majocchi 1997). In fine possiamo sottolineare che la
novità di tale modello di impresa è data dalla logica per cui l’elemento
discriminante è costituito dalle competenze distintive e su queste viene basato il
funzionamento della rete e di chi ha il controllo sugli altri attori della rete.
Per poter misurare le attività delle imprese multinazionali, in base allo loro struttura, si è
spesso costretti ad usare, per mancanza di dati sulle attività a livello d’impresa, i dati
relativi ai flussi di investimenti diretti esteri, i quali sono riscontrabili dalle statistiche
sulla bilancia dei pagamenti. Quindi le multinazionali per creare o espandere una
controllata estera si servono degli IDE.
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1.3: L’EVOLUZIONE DELL’INTEGRAZIONE DEI MERCATI
Prima di analizzare nel dettaglio l’evoluzione degli investimenti diretti esteri e
dell’imprese multinazionali dobbiamo soffermarci sull’analisi del “fenomeno” storico e
culturale che alla base dello sviluppo internazionale dell’economie mondiali: la
globalizzazione.
Figura 1.1: Le fasi della globalizzazione.
Fonte: De Benedictis, Helg, 2002 e Banca Mondiale 2001
Procedendo con un analisi storica della globalizzazione possiamo osservare che
l’economia globale ha attraversato tre fasi di globalizzazione (Collier e Dollar 2003) :
ξ Prima fase, periodo 1870 – 1914: Tale fase prende avvio in seguito al
verificarsi di una serie di innovazione tecnologiche, che si dimostrano cruciali
per la diffusione internazionale del processo di industrializzazione, migliorando
di molto la comunicazione ed il trasporto a livello mondiale, queste sono: la
costruzione di navi più veloci; l’apertura del canale di Suez (1869);
l’inaugurazione del servizio telegrafico transatlantico, che permette alle
comunicazioni transcontinentali di passare dalle settimane ai minuti. Tali
innovazioni nel campo dei trasporti, che garantiscono più velocità e minor costi,
e nelle comunicazioni hanno comportato un fortissimo aumento dei flussi
commerciali internazionali, nonché dei flussi migratori dando vita ad
un’integrazione delle singole economie nazionali. Così il rapporto tra
commercio estero e prodotto interno lordo cresce progressivamente. Poi nel
1914 si ha una netta battuta d’arresto, in seguito alle guerre mondiali, le crisi
finanziarie ed il conseguente protezionismo di molti paesi.
ξ Seconda fase, periodo 1945 – 1980: questo periodo corrisponde al secondo
dopoguerra. I capisaldi di questa seconda fase sono dettati dagli accordi di
Bretton Woods e sono: il libero scambio e la deregolamentazione per garantire
la crescita economica attraverso l’eliminazione delle barriere alla libera
circolazione delle merci e dei capitali. In più nascono in questi anni le principali
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istituzioni economiche: la Banca mondiale ed il Fondo Monetario
Internazionale. Questa fase, però, nonostante i forti progressi e la
liberalizzazione degli scambi non è ancora completa: sia per quanto riguarda la
partecipazione dei paesi, in quanto si registra una forte riduzione delle barriere
tariffarie per i paesi sviluppati, ma non per i paesi in via di sviluppo; sia sul
piano dei prodotti. Gli effetti della globalizzazione sui paesi più ricchi sono,
infatti incredibili, attraverso un forte aumento del commercio di prodotti ed una
distribuzione internazionale dell’imprese. Si realizza, così, un significativo
aumento del reddito dei paesi ricchi rispetto a quello dei paesi in via di sviluppo.
ξ Terza fase, prende avvio alla fine del ventesimo secolo e continua ancora
oggi: in questa fase si ha un ulteriore crescita degli IDE, dei flussi commerciali,
nonché dei flussi migratori. Tale crescita è dovuta ad un ulteriore miglioramento
delle infrastrutture, dei mezzi di comunicazione, delle tecnologie e dei servizi
alle imprese. Si ha, così, un netto sorpasso del tasso di crescita dei flussi di
commercio internazionale rispetto al tasso di crescita del PIL, come possiamo
notare nella figura 1.2. In più gli investimenti diretti esteri sono cresciuti ad un
tasso doppio rispetto a quello dei flussi di commercio, e quindi il flusso di IDE
è aumentato molto di più dei livelli di produzione contenuti nel PIL. La
caratteristica principale di tale stadio di globalizzazione rispetto agli altri è data
dall’ingresso nei mercati internazionali di molti paesi in via di sviluppo, quali
Cina, Messico, Brasile ed India. Questi paesi, ed in seguito molti altri, sono
riusciti ad entrare nei flussi di commercio internazionale, iniziando a sfruttare
soprattutto la loro abbondanza di popolazione, divenendo, così, molto
competitivi nei settori labour intensive. Negli ultimi anni si registra quindi un
vera e propria inversione di tendenza rispetto alle altre fasi della
globalizzazione: si ha una diminuzione dei tassi di crescita dei paesi più
avanzati, contrapposta alla grande espansione dei paesi emergenti. Il caso più
“eclatante” è senz’altro la Cina che ha visto crescere il suo PIL da 147 a 1.400
miliardi di dollari in un arco di tempo inferiore a trenta anni. La Cina basandosi
su un costo del lavoro molto basso, è divenuta una base manifatturiera mondiale.
In più negli ultimi anni si sta registrando anche un passaggio del “know how”
dai paesi industrializzati a i paesi in via di sviluppo, che possono così competere
anche in settori innovativi ed altamente tecnologici.
L'errore di percezione che identifica la globalizzazione con la fine del ventesimo secolo
è dovuto al periodo storico cui si fa riferimento. Il confronto tra il 2000 e il 1950 tende a
favorire l'affermazione che la globalizzazione sia un fenomeno esclusivo della fine del
ventesimo secolo, ma andando indietro nel tempo fino al 1870 tale affermazione perde
forza. Si potrebbe persino affermare che la seconda e la terza fase non sono altro che un
recupero della prima fase di globalizzazione. Ma anche questo non sarebbe corretto,
esistono notevoli differenze tra le diverse fasi. La globalizzazione della fine del
ventesimo secolo non è né un fenomeno interamente nuovo né la replica di quella del
secolo precedente.
Dunque la tecnologia si dimostra il motore dello sviluppo internazionale e quindi della
globalizzazione, infatti la rivoluzione dei trasporti è stata il motore della prima fase,
mentre le fasi successive sono il frutto di una diversa rivoluzione tecnologica, quella
della trasmissione e dell'elaborazione dell'informazione.
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Figura 1.2: L’andamento del PIL e del commercio estero a livello mondiale ( Fonte
ICE 2004).
Fonte: Elaborazioni Ice su dati FMI.
Vediamo infine, perchè la seconda e la terza fase di globalizzazione non possono essere
considerate semplicemente delle fasi di recupero rispetto all'intervallo 1914-1945;
quattro aspetti fondamentali rendono le globalizzazione del diciannovesimo e del
ventesimo secolo profondamente diverse dal punto di vista degli scambi commerciali:
ξ il primo è il deciso aumento nel grado di apertura commerciale degli USA nel
secondo dopoguerra. Questo dopo aver oscillato intorno al 10% tra la fine del
'800 e il 1950 è passato al 25% negli anni '90. Le implicazioni di questo
cambiamento sono notevoli. Da una parte gli USA, o meglio l'opinione pubblica
statunitense, ha sviluppato un tendenza crescente ad associare sempre di più gli
andamenti economici nazionali a quelli del ciclo economico internazionale e alla
concorrenza estera. Dall'altra la maggiore apertura dell'economia statunitense si
è manifestata sotto forma di deficit commerciale le cui implicazioni sul debito
pubblico statunitense e sull'andamento del cambio del dollaro continuano a
stimolare la ricerca economica sulla sostenibilità della crescita statunitense e di
quella mondiale (Mann).
ξ Il secondo aspetto riguarda l'aumentato peso della spesa pubblica nel secondo
dopoguerra nella formazione del prodotto nazionale. L'istituzione dello stato
sociale nei paesi industrializzati e l'esplicitazione della piena occupazione come
obiettivo di politica economica hanno determinato una espansione della quota
del settore pubblico nelle economie miste.
ξ Il terzo aspetto riguarda i processi di integrazione regionale o trade blocs, come
li classifica la Banca Mondiale. Negli anni '90 il numero degli accordi di
integrazione regionale è notevolmente aumentato e il fenomeno ha mutato le sue
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