Decisiva, in tal senso, l’introduzione verso la fine degli anni ’60 del
sistema «retributivo»
1
di calcolo delle pensioni, che andava a sostituirsi al
precedente sistema «contributivo»
2
; il sistema retributivo, difatti, era in
grado di garantire una prestazione pensionistica non molto inferiore
all’ultima retribuzione ed idonea, pertanto, ad assicurare al lavoratore lo
stesso tenore di vita goduto prima di andare in pensione. D’altra parte, c’è
da rilevare come tale sistema comportava, inevitabilmente, maggiori oneri
a carico della previdenza pubblica, dato che le ultime retribuzioni erano, di
solito, più elevate di quelle corrisposte nei primi anni di vita lavorativa.
Negli anni successivi, una grave crisi economica colpiva gran parte dei
paesi industrializzati ed anche il legislatore italiano fu costretto ad
intervenire: bisognava ridimensionare i livelli di prestazioni previdenziali,
divenuti, ormai, insostenibili nell’ambito di un sistema che adottava la
tecnica della «ripartizione»
3
. “Tale sistema contribuì, in modo decisivo, alla
crisi del sistema pensionistico obbligatorio per diversi ordini di fattori:
l’aumento della disoccupazione e il calo demografico, da un lato, e
l’aumento dell’aspettativa di vita, dall’altro, avevano generato uno
squilibrio tra le risorse a disposizione e gli oneri pensionistici cui si doveva
far fronte con dette risorse”
4
.
Intorno agli anni ’90, dunque, in tutti i paesi maggiormente sviluppati si
cominciavano a percepire i segni di una crisi strutturale dei sistemi
pensionistici pubblici; in tale contesto si impose la soluzione inglese, che
cercò di risolvere la questione previdenziale riducendo fortemente la
crescita delle prestazioni pensionistiche pubbliche di primo livello ed
incoraggiando i lavoratori a rinunciare alla previdenza pubblica di secondo
1
Sistema che comporta la commisurazione della pensione all’anzianità di lavoro e alle ultime
retribuzioni.
2
Qui, invece, i trattamenti pensionistici sono commisurati all’entità dei contributi versati dal lavoratore
nell’arco di tutta la sua vita lavorativa.
3
Con tale espressione si indica una tecnica di finanziamento dei sistemi pensionistici in base alla quale i
contributi versati in un dato momento storico sono utilizzati per pagare le pensioni erogate in quello
stesso momento.
4
G. SANTORO PASSARELLI, “Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare”, Torino,
2007, p. 118-120.
2
livello (ossia a quella che assicurava trattamenti legati alle ultime
retribuzioni percepite dai lavoratori) in favore di fondi-pensione gestiti da
soggetti privati col sistema «a capitalizzazione»
5
.
“Ed ecco trovar fortuna, sul finire del secolo scorso, la teoria del «doppio
pilastro», tesa, se non a impedire, a limitare la perdita di copertura,
distribuendola fra una previdenza di base alleggerita ed una complementare
ed integrativa via via appesantita”
6
.
Pressati da analoghe esigenze di riforma dei sistemi previdenziali nazionali,
molti leader politici europei cominciavano a guardare con interesse al
modello inglese, dimostrando ben presto di condividere una simile
propensione a sostituire, parzialmente o totalmente, i sistemi pensionistici
pubblici con sistemi pensionistici privati organizzati secondo lo schema dei
fondi-pensione da gestire col sistema a capitalizzazione.
E’ così che, in occasione delle riforme pensionistiche degli anni ’90, il
legislatore incardinava nel sistema pensionistico generale le forme di
previdenza integrativa o complementare che in precedenza, in condizione
di sostanziale anomia, come detto, e nelle forme più disparate, avevano
avuto modo di diffondersi spontaneamente in alcuni settori: con l’obiettivo
di creare un ben regolamentato «secondo pilastro» di previdenza, accanto a
quello costituito dalla previdenza di base.
A tale scopo aveva provveduto, in attuazione della legge delega attribuita
dalla legge n. 421 del 1992, il D. Lgs. 21 aprile 1993 n. 124 (poi più volte
modificato ed integrato da leggi successive).
La scelta rispondeva alla tendenza, sempre più radicata (e non solo nel
nostro Paese), di affidare le politiche sociali di welfare state non già
esclusivamente ad iniziative e strutture pubbliche, ma, con sempre maggior
frequenza, anche a responsabilità di soggetti collettivi (se non addirittura ad
5
Sistema in base al quale i contributi versati nell’arco dell’intera vita lavorativa vengono accantonati e
rivalutati per essere restituiti al lavoratore stesso sotto forma di pensione.
6
F. CARINCI, “Aspetti problematici e prospettive de iure condendo”, in M. BESSONE e F. CARINCI
(a cura di),“La previdenza complementare”, Torino, 2003.
3
operatori privati, singoli o associati). “Si assisteva, così, ad una
razionalizzazione del sistema, attraverso l’adozione di un criterio «binario»
di protezione sociale, con il superamento del ruolo monopolistico delle
strutture pubbliche e ponendo la previdenza complementare come elemento
strutturale del sistema capace di porre un «presidio terapeutico» e
compensatorio delle disfunzioni e del deficit di copertura del sistema
previdenziale di base”
7
.
Quasi contestualmente veniva approvata una legge di riforma del sistema
previdenziale (L. 335/1995) che, al fine di ridimensionare i livelli delle
prestazioni pensionistiche, reintroduceva come criterio di calcolo della
pensione il sistema contributivo; ed è proprio il ricorso a tale sistema che,
contribuendo a ridurre la copertura previdenziale della pensione pubblica,
spostava l’attenzione sull’esigenza di instaurare un efficiente sistema di
previdenza complementare.
1.2: DAL D. LGS. 124/1993 AL D. LGS. 252/2005: I PRINCIPI
CARDINE DEL NUOVO SISTEMA
Con lo stesso obiettivo perseguito dal D. Lgs. 124/1993, ossia quello di
assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale, la previdenza
complementare viene potenziata, in attuazione della legge 23 agosto 2004
n. 243 recante Norme in materia pensionistica e delega al Governo nel
settore della previdenza pubblica, per il sostegno della previdenza
7
M. CINELLI, “Diritto della previdenza sociale”, Torino, 2003.
4
complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di
previdenza e assistenza obbligatoria, con il decreto legislativo n. 252 del 5
dicembre 2005 di Disciplina delle forme pensionistiche complementari.
Il decreto attua una riforma complessiva della previdenza complementare
finalizzata allo sviluppo di tale forma quale strumento essenziale di tutela
volto alla costruzione di una rendita aggiuntiva destinata ad integrare
adeguatamente il livello complessivo di reddito nell’età anziana.
Nella nuova disciplina è subito evidente come individuale e collettivo
stabiliscano un rapporto connotato da tratti di forte deviazione rispetto ai
principi generali già fissati con il D. Lgs. 124/1993; l’origine e il
fondamento di tale deviazione è tutta racchiusa nella scelta di fare della
libertà individuale di adesione «principio di costituzione economica» e
cardine del nuovo sistema. La libertà di adesione costituisce, infatti, una
evidente “deroga alla naturale efficacia dell’accordo sindacale istitutivo
della forma previdenziale, risolvendosi nella libertà di rifiutare gli effetti
naturali di quel contratto”
8
.
Non che il legislatore delegato del 1993 non la prevedesse; ma tale libertà
veniva, tuttavia, circoscritta e, in un certo senso, temperata all’interno di un
quadro che, sotto ogni altro aspetto, finiva per rassegnare una naturale
prevalenza alle scelte dell’autonomia collettiva.
Numerosi, a tal proposito, i riferimenti normativi: era pacifico, in primo
luogo, che la libertà del lavoratore si esauriva tutta con la scelta di aderire,
o meno, alla forma complementare, escludendosi che essa potesse
riemergere in fasi successive del rapporto previdenziale, in particolare
come potere di recesso dal fondo con diritto di riscatto della posizione
maturata.
Un altro indice normativo sottolineava la preminenza del momento
collettivo nel disegno del 1993: l’inesistenza di una facoltà di trasferimento
8
M. PERSIANI, “La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario”, in
“ADL”, n. 3, 2001.
5
libero della posizione complementare individuale e, per tal via, la
negazione di una qualunque forma di libertà di scelta nella allocazione del
risparmio previdenziale. Era soprattutto tale limite, dunque, a configurare
la libertà del lavoratore essenzialmente come libertà di adesione e non
anche come ulteriore, e più ampia, libertà di scelta.
Completava il quadro un’articolazione del sistema delle fonti istitutive nel
quale una primazia indiscussa veniva assegnata al contratto collettivo e
comunque a fonti di rilevanza lato sensu collettiva.
Emergeva, dunque, un assetto fondamentalmente «monistico» del regime
delle fonti istitutive; tuttavia, negli anni successivi, tale sistema comincia
ad arricchirsi ed il legislatore apre spazi via via crescenti alla libertà di
scelta e all’autonomia individuale. Da segnalare due tappe salienti in questo
percorso:
- la L. 335/1995, contenente timide aperture ad un più ampio margine di
esercizio della libertà individuale, potenziava i fondi aperti e immetteva,
conseguentemente, nel sistema elementi di concorrenzialità commerciale;
- e il D. Lgs. 47/2000, che valorizzava la libertà di scelta del lavoratore in
ordine a quale forma pensionistica privilegiare senza prescrizione di limite.
La spinta alla «segmentazione dell’interesse collettivo»
9
nella riforma del
2000 risultò essere meno forte, però, di quanto lasciasse intendere:
prevaleva una linea interpretativa maggiormente incline a cogliere gli
aspetti di continuità con l’assetto normativo previgente ed a riconoscere
una perdurante primazia ai circuiti collettivi di destinazione del risparmio
previdenziale.
“La legge delega del 2004 si inseriva, dunque, in tale quadro ancora in
evoluzione e alla ricerca di un più stabile equilibrio per orientare il sistema
9
R. VIANELLO, “Previdenza complementare e autonomia collettiva”, Padova, 2005, p. 374.
6
verso un’ effettiva equiordinazione tra le diverse forme di realizzazione
della garanzia previdenziale concorrenziale. Tutto ciò avveniva seguendo
due linee direttrici: individualizzazione delle scelte, in ordine alla
canalizzazione delle risorse finanziarie volte ad alimentare i fondi
pensione, e pluralizzazione delle fonti istitutive”
10
.
La disciplina dettata dal D. Lgs. 252 del 2005 ruota attorno a tre principi
fondamentali, ricchi di implicazioni e spesso correlati: uno degli assi
portanti è costituito dalla valorizzazione della volontà individuale, che si
traduce, in primo luogo, nella libertà di adesione alle forme pensionistiche
complementari, sancita dall’art. 1, comma 2 del D. Lgs. 252/2005, dove
viene stabilito che «l’adesione alle forme pensionistiche complementari
disciplinate dal presente decreto è libera e volontaria», e ribadita nel
comma 3 dell’art. 3, con l’affermazione secondo cui «le fonti istitutive
delle forme pensionistiche complementari stabiliscono le modalità di
partecipazione, garantendo la libertà di adesione individuale». Si riprende,
con queste norme, un principio già sancito dal D. Lgs. 124/1993 all’art. 3,
comma 4
11
; nel nuovo testo, però, l’inserimento nell’art. 1 ha chiaramente
lo scopo di conferire alla libertà di adesione il carattere di “principio
costitutivo del sistema”
12
.
Se il principio di libertà di adesione non rappresenta una novità,
assolutamente innovativa è, invece, la previsione dell’ulteriore libertà di
scelta della forma pensionistica alla quale aderire, come pure della
possibilità di trasferire la posizione previdenziale da una forma
pensionistica ad un’altra. Tali ulteriori libertà sono riconosciute, adesso, dal
D. Lgs. 252/2005, in attuazione del principio di equiparazione delle forme
pensionistiche complementari sancito dall’art. 1, comma 2, lett. e), n. 4
10
S. GIUBBONI, “Legge, contratto collettivo e autonomia individuale nella nuova disciplina della
previdenza complementare”, in “Riv. it. dir. lav.”, 2007, fasc. 3, p. 340 ss.
11
«Le fonti istitutive di cui al comma 1 stabiliscono le modalità di partecipazione garantendo la libertà di
adesione individuale»
12
M. BESSONE, “Previdenza complementare”, Torino, 2000, p. 70.
7
della legge n. 243 del 2004: tale disposizione stabilisce la rimozione del
vincolo di alternatività tra fondi aperti e fondi chiusi previsto nel disegno
del 1993. In quell’ottica, in presenza di un fondo chiuso, il lavoratore non
avrebbe potuto aderire ad un fondo aperto: poteva decidere liberamente di
aderire al sistema di previdenza complementare, ma non godeva
dell’ulteriore libertà di scegliere la forma pensionistica.
Oggi, invece, il lavoratore può decidere di aderire ad un fondo aperto o
addirittura ad una forma pensionistica individuale anche a prescindere
dall’esistenza di un fondo chiuso di riferimento.
Osserviamo, quindi, come il principio di equiparazione delle forme
pensionistiche complementari abbia inciso anche sulla rilevanza delle
tradizionali forme pensionistiche individuali; tali forme, nell’impianto del
D. Lgs. 124/1993, avrebbero dovuto costituire il «terzo pilastro» del
sistema previdenziale, in quanto volte a soddisfare interessi esclusivamente
individuali. La riforma del 2005, invece, consente al lavoratore di
sviluppare un programma di previdenza complementare anche
esclusivamente basato sulle forme pensionistiche individuali.
E’ così che la tripartizione ben evidenziata nel disegno del 1993 tra
pensione pubblica, pensione complementare ricavata dalla gestione dei
fondi pensione e pensione integrativa individuale, frutto degli investimenti
dei singoli cittadini destinati a scopi previdenziali, non appare altrettanto
netta nel disegno del 2005 ed anzi sembra rivisitata; quest’ultimo decreto,
infatti, nell’ottica di equiparazione delle forme pensionistiche, pare
affiancare ad un «primo pilastro», generale ed obbligatorio, costituito dalla
previdenza pubblica che eroga la pensione di base, un «secondo pilastro»,
volontario e collettivo o, anche, individuale, costituito dalle forme
pensionistiche complementari (fondi pensione e forme previdenziali
individuali).
8
1.3: LA POSIZIONE DELLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE
NEL QUADRO COSTITUZIONALE; LE PRONUNCE DELLA CORTE
E IL DIBATTITO IN DOTTRINA
Il significato e la funzione della previdenza complementare sono stati
oggetto di un acceso dibattito nella dottrina precedente l’entrata in vigore
del D. Lgs. 124/1993: ne derivarono profonde incertezze e si manifestava la
tendenza a ricondurre la previdenza complementare ora nel comma 2
13
, ora
nel comma 5
14
dell’art. 38 della Costituzione.
Per alcuni, infatti, tali forme di previdenza si inserirebbero all’interno del
sistema pubblico e sarebbero dirette a realizzarne gli scopi di tutela; in tale
ottica anche la previdenza privata viene intesa come finalizzata alla
liberazione dal bisogno e tollererebbe penetranti controlli pubblici.
Dunque, la previdenza complementare si caratterizzerebbe rispetto alla
previdenza pubblica soltanto per la forma giuridica e non per la funzione,
perché sarebbe diretta ad integrare la «prestazione adeguata»
15
ai sensi
dell’art. 38, comma 2, Cost.
Secondo altri, invece, la previdenza integrativa o complementare non
assolve alla funzione di soddisfare l’interesse pubblico, e cioè i bisogni
socialmente rilevanti indicati dall’art. 38, comma 2, Cost. , ma meri
interessi privati, tra i quali può essere annoverato la conservazione del
tenore di vita conseguito dal lavoratore al momento del raggiungimento
dell’età pensionabile; pertanto, secondo tale orientamento, la previdenza
13
«I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in
caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».
14
«L’assistenza privata è libera».
15
R. PESSI, “La nozione di previdenza integrativa”, in “Quaderni dir. lav. rel. ind.”, Torino, 1988, p.
63.
9
complementare graviterebbe esclusivamente nell’area dell’art. 38, comma
5, Cost.
“Nel corso degli anni ’90, e con maggiore convinzione a seguito della
sentenza della Corte Cost. n. 393 del 2000, il diritto vivente ha
sostanzialmente inquadrato la previdenza complementare nell’alveo del
comma 2 dell’art. 38 Cost. Dopo aver manifestato inizialmente prudenza, a
partire dal 1995
16
, la Corte ha affermato che «non può essere posta in
dubbio la scelta del legislatore, enunciata sin dalla legge 23 ottobre 1992, n.
421 e, via via, confermata nei successivi interventi, di istituire (…) un
collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza
complementare, collocando quest’ultima nel sistema dell’art. 38, comma 2
della Costituzione».
Nel 2001
17
la Corte ribadiva che «l’autonomia negoziale e la libertà di
iniziativa privata devono comunque cedere di fronte ad interessi di ordine
superiore, economici e sociali che assumono rilievo a livello
costituzionale».
Alla posizione della Corte costituzionale si è praticamente, e sia pure con
alcuni distinguo, allineata tutta la dottrina, e può oggi considerarsi un dato
acquisito che la previdenza complementare concorre, con quella
obbligatoria, alla realizzazione degli obiettivi di cui al comma 2 dell’art. 38
Cost.”
18
.
Un nuovo dibattito tormentava, però, la dottrina: profondi gli interrogativi
sul motivo per cui la previdenza complementare potesse essere considerata
volontaria dal momento che concorreva con quella pubblica alla
realizzazione dei fini di cui all’art. 38, comma 2, Cost.
E’ stato allora rilevato da alcuni autori come «la previdenza pubblica,
anche a seguito delle riforme degli anni ’90, ha mantenuto il suo carattere
16
Corte cost. 8 settembre 1995, n. 421.
17
Corte cost., ord. 27 luglio 2001, n. 319.
18
O. BONARDI, “La nuova disciplina della previdenza complementare”, G. CIAN - A. MAFFEI - P.
SCHLESINGER (a cura di), in “Nuove leggi civ. comm.”, 2007, fasc. 3-4, p. 557.
10